La lotta di Malak. Essere una persona transgender in Egitto
Dossier “Egypt: Security Forces Abuse, Torture LGBT People” pubblicato sul sito dell’associazione internazionale Human Rights Watch (Stati Uniti) il 1 ottobre 2020, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte quarta
Malak el-Kashif, 20 anni. Il 6 marzo 2019 le forza di sicurezza arrestano Malak el-Kashif, attivista politica e donna transgender, sei giorni dopo che ha partecipato a una manifestazione di protesta al Cairo. La polizia arriva a casa sua alle 2 di notte, le toglie i vestiti per strada e la picchia, poi la porta alla stazione di polizia di al-Haram: “Mi misero in una cella simile a una gabbia in attesa delle indagini. Cantavo per rimanere calma. Durante le indagini mi chiesero della mia vita privata, della mia operazione di riassegnazione del sesso, della mia identità trans e del mio rapporto con [gli attivisti LGBT] Sarah Hegazy, Ahmed Alaa e i Mashrou’ Leila! Mi fecero firmare un rapporto, senza permettermi di leggere cosa c’era scritto”.
Gli agenti della Sicurezza di Stato detengono Malak per quindici giorni mentre indagano sull’accusa di “abuso dei social media”, un capo di imputazione usato comunemente in Egitto contro i dissidenti pacifici: “Rimasi quindici giorni nella stazione di al-Haram, in una cella grande quanto un freezer. Mi urlarono i peggiori insulti che abbia mai sentito, e per due giorni mi proibirono di andare in bagno. Mi obbligarono a sottopormi a un esame anale, e mi molestarono sessualmente”.
Viene poi messa in isolamento per 135 giorni nel carcere maschile di Mazr’a Tora: “Quando seppi che mi avrebbero messa in un carcere maschile, mi crollò il mondo addosso. Per tre volte dovetti fare uno spogliarello di fronte a quegli uomini. Per centoventi giorni non vidi il sole e non potei ricevere nessuna visita, eccettuata quella dei miei genitori, che avevo abbandonato sette anni prima e che non volevo rivedere.
Non superai gli esami all’università, perché fino all’ultimo minuto mi fu negato l’accesso. La cella d’isolamento è stata la cosa peggiore che mi sia mai capitata, molto dannosa per la mia salute mentale. Soffro ancora di stress post-traumatico e fobia sociale, non sono più la persona che ero”.
La polizia nega la richiesta del suo avvocato di continuare la terapia ormonale e di affrontare altre operazioni di riassegnazione del sesso. Malak ha una barra di metallo nel braccio sinistro, residuo di una precedente operazione, e durante la detenzione si è infettata: “Era un dolore atroce, ma la polizia rifiutò di farmi visitare”.
“Nonostante tutto questo, non voglio lasciare l’Egitto. La morte improvvisa di Sarah Hegazy ha scioccato la nostra comunità. Era una persona rara, pochissimi come lei sono stati capaci di cambiare la loro vita e l’intera regione come ha fatto lei, che ha fatto mettere i diritti queer nei programmi dei movimenti di sinistra. La sua esperienza mi ricorda che c’è bisogno della mia voce nella società egiziana, ho un ruolo da giocare e non smetterò di lottare.”
Testo originale: Egypt: Security Forces Abuse, Torture LGBT People