L’amore per Dio e per il prossimo nell’enciclica “Fratelli Tutti”
Articolo pubblicato sul Riforma.it, quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia, il 12 ottobre 2020
Un commento del pastore Eugenio Bernardini all’enciclica di papa Bergoglio: il fondamento biblico che viene dalla parabola del samaritano e la rivendicazione di uno sguardo libero e critico sulla società da parte del cristianesimo.
L’enciclica Fratelli tutti, promulgata il 5 ottobre a firma di papa Francesco, propone una visione dei rapporti sociali e della politica basata sull’amore cristiano. Il testo sistematizza un grande numero di interventi precedenti dello stesso pontefice: essa parte dalla constatazione delle disuguaglianze presenti nel mondo “globalizzato”, per poi passare all’individuazione della categoria dell’“altro” e della necessità di farsene prossimo.
Un’ampia trattazione dell’amore cristiano ne costituisce la parte centrale, per lasciare spazio, poi, alle questioni della pace e della guerra e al ruolo delle religioni nel mondo, non mancando accenni al mondo della comunicazione. Ne parliamo con il pastore Eugenio Bernardini che, all’epoca moderatore della Tavola valdese, ha incontrato varie volte papa Bergoglio, in particolare durante la sua visita nel giugno 2015 al tempio valdese di Torino.
Che impressione suggerisce, a prima vista, questa ampia enciclica?
«Come accade a tutti i documenti che intendono fare il punto di una riflessione, la sistematizzazione del pensiero è di per sé un fatto nuovo. La forma enciclica, inoltre, dà ulteriore autorevolezza a quelle che sono le posizioni caratteristiche del pontificato di papa Bergoglio fin dal suo insediamento: apertura al mondo, in particolare ai più fragili e poveri, apertura ecumenica tra cristiani di varie confessioni, apertura alle altre religioni in nome di una mobilitazione comune contro l’ingiustizia, la povertà e la guerra.
Certo, oggi anche la Chiesa cattolica, compreso il grande comunicatore che è papa Francesco, deve fare i conti con una propria crisi di rilevanza pubblica causata dai processi mondiali di secolarizzazione, e anche da una riduzione di credibilità per i continui “scandali vaticani” che, nonostante l’impegno del papa, sembra non debbano cessare mai. Per cui temo che questa bella e condivisibile enciclica “sociale” farà la fine della precedente Laudato si’ del 2015 sulla cura della casa comune che è il nostro pianeta, cioè che al di là degli apprezzamenti generali di rito resterà un testo rilevante di riferimento solo per i cristiani praticanti, in particolare cattolici».
L’idea di fratellanza che promana dall’enciclica è stata criticata da chi vi vede un riflesso di una cultura più illuministica che cristiana. Qualcuno ha detto addirittura che questa idea «laicizza» la chiesa: è davvero così?
«L’enciclica fa un chiaro riferimento ai valori non religiosi della fraternità, e cita anche quelli della Rivoluzione francese, non respingendoli ma semmai correggendone, per esempio, una certa deriva individualistica. Tutta l’enciclica infatti è pervasa da un’idea di fraternità che si fa carico dell’altro (e dell’altra), sia in nome della responsabilità sociale (nel titolo Fratelli tutti si spiega che è un’enciclica sulla “fraternità e amicizia sociale”), e quindi non solo individuale, sia in nome di un appello a tutte le religioni (il c. 8) a mettersi al servizio della fraternità nel mondo, una fraternità concreta, impegnativa.
È significativo che come fondamento biblico principale dell’enciclica ci sia la parabola del buon samaritano, che insegna a porsi la domanda giusta: non chi sia il mio prossimo, ma di chi sono prossimo io; non con un concetto di “prossimità” che lo limiti ad alcune categorie (al mio familiare e amico, al mio connazionale o confratello), ma con un concetto di “prossimità aperta”, aperta alla responsabilità che di fronte a un qualunque essere umano tu non puoi voltare o chiudere gli occhi e passare dall’altra parte.
Una “prossimità aperta” che non ti faccia dimenticare che noi tutti, come esseri umani, siamo sia soccorsi sia soccorritori – come ci risulta evidente quando ci troviamo nel mezzo di grandi tragedie – e, come credenti, siamo sia soccorsi dalla grazia di Dio in Gesù Cristo sia soccorritori nell’amore del prossimo».
Alcuni di questi orientamenti possono essere tanto cristiani quanto generalmente intesi come umanitarismo non meglio precisato: che cosa devono fare le Chiese (tutte) per dire una parola originale? Lo fa questo testo?
«La fraternità non è certo stata una scoperta della Rivoluzione francese o dell’umanesimo laico, il fatto che i cristiani si chiamino tra loro fratello e sorella dipende proprio dal fondamento evangelico di quello che noi chiamiamo umanesimo cristiano. L’amore per il prossimo che affianca l’amore per Dio è una caratteristica originariamente biblica che l’enciclica descrive nell’intero capitolo secondo intitolato “Un estraneo sulla strada” (§§ 56-86), una caratteristica certo non esclusiva del messaggio biblico, grazie al cielo. L’importante però, e l’enciclica lo sottolinea bene, è che questa caratteristica (“amare l’altro e prendersene cura”, § 59) sia praticata e non solo enunciata. E questo necessità riguarda tutti ed è una sfida per tutti, religioni e pensieri laici».
È possibile parlare di una carità politica (§§ 163, 164)? Non era a questo che pensava il pastore Tullio Vinay quando parlava di agape in Senato?
«L’espressione “carità politica” (o amore politico) ricorre tre volte (§§ 180, 182, 190), ma in altri casi la sottintende. L’espressione si trova in una parte dell’enciclica in cui il papa parla di popolo e di movimenti popolari con accenti, secondo me, tipicamente latinoamericani. Al di fuori di quel contesto culturale e politico, non è immediato comprenderne il significato preciso (che certamente non è quello del populismo e forse neppure quello del popolare della tradizione politica cattolica italiana ed europea).
Ricordo che il sostegno di papa Francesco ai “movimenti popolari” è stato molto criticato e probabilmente frainteso. Resta un fatto che un cristianesimo evangelicamente fondato non può rinunciare a una parola libera e critica sulla e nella società, come ci hanno insegnato in tempi più recenti teologi come Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer o Giovanni Miegge, o profeti cristiani come Martin Luther King e Desmond Tutu (citati da papa Francesco, § 286) e, naturalmente, Tullio Vinay. La fede cristiana non deve “invadere” lo spazio pubblico, deve rispettare “l’autonomia della politica” (§ 276) ma non può neppure tacere».
Qualche perplessità possiamo però averla dove si parla di perdita dei valori e individualismo: da qui un ruolo che la Chiesa di Roma attribuisce a se stessa, classicamente, di madre (§§ 275-276). Che cosa possiamo dire?
«È un riferimento molto sobrio e comunque è spiegato così: “La Chiesa è una casa con le porte aperte, perché è madre”. E come Maria, la Madre di Gesù, “vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione” (§ 276).
Né mancano capitoli in cui si è molto autocritici e non solo critici, per cui si capisce che il papa non mette se stesso o la Chiesa cattolica su di un piedistallo, cosa che non ha mai fatto nel suo pontificato. A conferma suggerisco di leggere i bei paragrafi da 250 a 254 sul “perdono senza dimenticanze” (“Quanti perdonano davvero non dimenticano, ma rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ha fatto loro del male”, § 251), che rispondono, a mio parere in modo convincente, anche alle preoccupazioni che aveva espresso il Sinodo delle chiese metodiste e valdesi del 2017 dopo la richiesta di perdono di papa Francesco nel corso della sua visita ai valdesi a Torino nel giugno di quell’anno. Così come trovo belli e condivisibili molti altri paragrafi, come quelli sulla guerra e la pena di morte (§§ 255-270) e su religione e violenza (§§ 281-284)».