Anno settimo del pontificato. Francesco e l’azione liturgica
Riflessioni di Andrea Grillo* pubblicate** sul sito della rete Viandanti il 10 febbraio 2020
Il primo papa figlio del Concilio Vaticano II non poteva non avere una relazione particolarmente “sciolta” e “immediata” con quel livello della esperienza cristiana che risulta primario non solo perché radicato sul piano corporeo e simbolico della vita ecclesiale, ma anche perché il Concilio Vaticano II ha avuto anzitutto, come prima sua produzione documentaria, la Costituzione liturgica, e poi, come prima sua conseguenza istituzionale, proprio la “riforma liturgica”.
Il ritorno alla fonte conciliare
Il papa che ha rilanciato con potenza il disegno di ripensamento conciliare della Chiesa cattolica non poteva non assumere, proprio sul piano liturgico, un nuovo passo. Il valore di questo “cambio di passo” deve essere valutato anche in considerazione di due ulteriori fattori.
La liturgia è tema che non sembra centrale nella sensibilità del primo papa gesuita. Ma è un tema su cui, in una forma singolarmente intensa, si sono concentrati i “disegni di restaurazione” degli ultimi 20 anni.
In certo modo, in questi ormai sette anni di pontificato, anche il magistero sulla “azione rituale” del nuovo pontefice ha visto, accanto al grande “ritorno alla fonte conciliare” – proposto da Francesco non solo con i suoi atti ufficiali, ma anzitutto con il suo celebrare e predicare quotidiano – una resistenza che si è manifestata, clamorosamente, proprio nel Prefetto della Congregazione del culto e dei sacramenti.
Vorrei presentare anzitutto lo “stile liturgico di Francesco”, poi i principali interventi che riguardano la liturgia e infine la tensione irrisolta con la Congregazione per il culto divino.
Lo stile liturgico di Francesco
Il primo dato su cui è bene soffermarsi è la “prassi liturgica ordinaria” del nuovo papa. Francesco è il primo papa che, essendosi formato integralmente alla (e mediante la) liturgia conciliare, può iniziare la giornata con una celebrazione comunitaria, nella quale tiene un’omelia, di fronte e insieme ad una assemblea di popolo.
Le messe a “Santa Marta” sono lo specchio più fedele di una relazione con la celebrazione liturgica pienamente conciliare, senza alcuna nostalgia. È il modello del parroco ad essere normativo, anche per il papa. Non vi è più la “cappella privata”, nel Palazzo Apostolico, dove si celebra senza popolo e quasi “privatamente”.
Questo passaggio è simbolicamente fortissimo. Ed è il frutto di una condizione “generazionale” alla quale per lo più non si pone attenzione. Il Concilio, anche il Concilio liturgico, è divenuto “padre” e ha generato figli. Jorge Mario Bergoglio è “figlio del Concilio” anzitutto per un motivo: come tutti i figli, non porta su di sé la responsabilità dei padri. Sono i padri a sentirsi responsabili dei figli. I figli no. E sono figli proprio per questo!
La differenza di date biografiche, tra l’ultimo papa “padre del Concilio” (J. Ratzinger) e J. Bergoglio è qui decisiva: Ratzinger nasce nel 1927 e viene ordinato presbitero nel 1951, a 24 anni; Bergoglio nasce solo 9 anni dopo, nel 1936, ma viene ordinato presbitero nel 1969, a 33 anni.
Tra le due ordinazioni c’è quasi una generazione. In questa differenza il Concilio Vaticano II si inserisce come mediazione fondamentale. L’immaginario ecclesiale, l’autocoscienza ministeriale, la valorizzazione della libertà di coscienza, la correlazione alle altre confessioni e fedi e l’immediatezza rituale sono, in Francesco, segnati “nella carne e nel sangue” dalle parole e dai decreti conciliari.
Un approccio dinamico
Anche al primo apparire, sulla loggia di San Pietro, Francesco ha indicato con chiarezza una duplice scelta: la semplicità dell’apparato e il riferimento al soggetto “popolo” nell’atto rituale. Così, fin dai primi discorsi, è apparsa l’esigenza di “non addomesticare lo Spirito” che si è espresso nel Concilio Vaticano II, la cui riforma della liturgia viene definita “evento irreversibile”.
Irreversibile risulta, così, un “approccio dinamico” alla Tradizione, che non è un museo, ma un giardino. Quanta differenza dai riferimenti al Concilio che, fino qualche mese prima, si preoccupavano, anzitutto, di ridimensionarlo, di addomesticarlo, di disinnescarlo. No, il Concilio permette di tornare alla Chiesa come ad un giardino.
In tale giardino è possibile “chiedere al popolo di pregare Dio padre perché benedica la elezione del nuovo papa”; è possibile che, alla prima messa celebrata in Vaticano, il nuovo papa si collochi in fondo alla Chiesa e saluti, uno per uno, tutti i fedeli che escono. È possibile che nella messa in coena domini, celebrata in un carcere, si lavino i piedi di donne carcerate musulmane e che, a partire da questa nuova evidenza, venga ufficialmente riformata la rubrica del messale che disciplina tale celebrazione.
Gli interventi magisteriali
In questo giardino può fiorire una nuova fiducia nelle “lingue vernacole”, che non sono la traduzione del latino, ma forme originarie di esperienza e di espressione del mistero pasquale: per questo i criteri della traduzione devono rispettare la ricchezza delle nuove lingue (Magnum principium – 2017); nel giardino della Chiesa la memoria di Maria Maddalena acquista il rango di festa, mentre viene soppressa quella Commissione Ecclesia Dei, che a partire dal 2007 era diventata un pericoloso centro curiale, specializzato nella trasformazione del giardino ecclesiale in museo tradizionalista.
Viene infine creata una domenica “della Parola di Dio” (corrispondente alla III domenica del tempo ordinario – Aperuit illis – 2019) per valorizzare l’esperienza di ascolto della parola, in un contesto di relazioni con la tradizione giudaica e con le altre confessioni cristiane.
Tutto questo avviene, però, nel contesto di una condizione piuttosto singolare: il papa lancia continuamente iniziative per rendere dinamica la “festa rituale”, mentre dalla guida della Congregazione del culto, ossia del dicastero più direttamente interessato alla liturgia, vengono segnali dissonanti. La recezione ritardata degli atti da assumere o la interpretazione capovolta degli atti già assunti è il segno di una tensione per ora irrisolta, che determina quasi una condizione di “stallo”.
La resistenza del modello pre-conciliare
Credo che per interpretare questo “stallo” si debbano considerare le dinamiche del rapporto tra iniziative papali e loro gestione da parte della Congregazione per il culto divino. In effetti la Congregazione per il culto dovrebbe esprimere confidenza e vera speranza nel Concilio Vaticano II.
Se si confida nella liturgia del Vaticano II, se si ritiene irreversibile la riforma liturgica, se si pone termine al rischioso “parallelismo rituale” tra forme preconciliari e forme conciliari, come è possibile che le iniziative che Francesco ha assunto direttamente in campo liturgico (modalità della lavanda dei piedi, festa di Maria Maddalena, nuovi criteri di traduzione…) abbiano trovato recezione tanto faticosa, quando non una interpretazione decisamente capovolta?
L’esempio papale è limpido e lineare. Ma il radicamento di una liturgia “partecipata”, che abbia come soggetti Cristo e la Chiesa, non procede solo “per esempi”. Atti istituzionali capillari, necessariamente mediati e accompagnati dalle cure della Congregazione, sono passaggi inevitabili e decisivi. Se mancano, la liturgia resta ferma. E se la liturgia non si muove, non si muove la Chiesa. Perché la liturgia rimane, anche da questo punto di vista, fons et culmen di ogni altra azione ecclesiale.
La riforma della Chiesa non sarà mai possibile finché si lascerà in piedi la forma di espressione e di esperienza – insieme all’apparato sentimentale e ideologico – di un modello di Chiesa che il Concilio Vaticano II ha riconosciuto come superato, chiedendone esplicitamente e autorevolmente l’aggiornamento.
* Andrea Grillo è professore Ordinario di Teologia Sacramentaria presso la Facoltà Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo e membro del Gruppo di Riflessione e proposta dell’Associazione Viandanti.
** Il 13 marzo ricorre il settimo anniversario dell’elezione di Francesco a Vescovo di Roma. Sette anni intensi durante i quali il papa ha cercato di pilotare la barca di Pietro verso nuove sponde perché stiamo vivendo un “cambiamento d’epoca” che pone “seri interrogativi riguardo all’identità della nostra fede”, perché “non siamo più in un regime di cristianità” e c’è bisogno di un “cambiamento di mentalità” non solo pastorale. Il percorso di riforma intrapreso con vigore da Bergoglio è stato continuamente segnato da polemiche e da un’opposizione a volte scomposta, entrambe hanno riempito le cronache proiettando un’ombra sul senso e perfino sull’ortodossia degli interventi riformatori. (La rete) Viandanti, cogliendo l’occasione della ricorrenza, vorrebbe proporre, con una serie di contributi ponderati, una lettura che attraversi il settennato per cogliere, al di là delle polemiche, il senso profondo del cambiamento della conversione, della riforma, che la Chiesa sta vivendo. In modo simbolico iniziamo con il tema della liturgia: al Concilio la Costituzione sulla liturgia fu il primo documento approvato dalla grande assemblea.