Caro Giovanardi c’è una famiglia anche per le coppie gay
Email inviataci da Antonio C.
Cari amici. Vorrei raccontare alcuni momenti della mia esperienza e condividere alcune riflessioni sul senso della famiglia. Sono un uomo omosessuale, 42 anni, siciliano. Non intendo, almeno questa volta, raccontarvi la mia storia, cui pure attribuisco un indubbio valore: non solo perché è la mia, ma anche perché credo possa costituire un esempio consolante dell’evoluzione morale della società negli ultimi decenni su questo tema.
Dico soltanto che non è stato facile creare intorno a me la libertà per vivere serenamente la mia identità: ho dovuto dialogare, in modo spesso sofferto, con la psicanalisi, con la fede cristiana (che ho mantenuto e purificato), con la società, soprattutto con la mia famiglia di origine, da cui sono stato e sono amato al di sopra di ogni umana comprensione.
Oggi sono un affermato professionista, attivo nel campo della critica letteraria, delle traduzioni, dell’insegnamento. Non mi ritengo perfetto, anzi…ma posso dire che godo di una solida stima per le mie qualità educative ed umane.
Da cinque anni vivo con il mio compagno (stiamo insieme da sei), ma questa non è la prima relazione importante della mia vita: negli anni passati, il legame con un altro uomo mi ha spinto persino a lasciare tutte le mie attività nella città dove risiedo per trasferirmi all’estero e stare con lui. Poi quella storia è finita e sono ritornato, riprendendo il corso del mio lavoro e della mia ricerca affettiva ed etica.
Ricerca che, come dicevo, non è stata soltanto mia. Le persone a me più vicine e più care (mia madre, mio padre, mio fratello) hanno condiviso il mio percorso e sofferto molto prima di giungere alla serenità di oggi: io e il mio compagno, pur senza alcuna forma di volgare esibizionismo, viviamo senza menzogne la nostra unione, frequentiamo in modo limpido le rispettive famiglie, dove riceviamo e diamo calore e sostegno, anche con i bambini che ne fanno parte. Così avviene anche con gli altri parenti (zii, cugini…), con gli amici e alcuni colleghi.
Siamo stimati e cercati, non solo da altri amici gay, ma anche e soprattutto da coppie eterosessuali e coniugali, spesso profondamente cattoliche, che ci invitano a casa loro o vengono nella nostra e non temono affatto che la nostra presenza possa rappresentare un pericolo per i loro figli. Riconosco che se non avessi vissuto ogni istante, bello o triste, della mia vita, le mie idee perderebbero tutto il loro vigore e il loro colore.
Che cosa è un famiglia? Qualche esempio. Mio padre ha perso il suo papà, vittima di un intervento chirurgico mal riuscito in tempo di guerra, alla tenera età di tre anni. Mia nonna ha fatto sacrifici immensi per allevare ed educare due gemelli, né si è mai risposata; ha semmai condiviso le fatiche domestiche e lavorative con sua madre, per cui mio padre e suo fratello sono cresciuti in una famiglia in cui le figure adulte erano quelle di due donne, cioè la loro mamma e la loro nonna.
Mio padre e mio zio sono diventati due uomini, si sono sposati, hanno dato vita a due splendide famiglie e le hanno curate e le curano tuttora con grande dedizione, passione e responsabilità. Il fatto di essere cresciuti, per disgrazia, senza una figura maschile in casa non ha inciso sulla loro identità affettiva e sessuale.
Mia madre ha un fratello, sposato da più di trent’anni con la stessa donna. Hanno tentato in tutti i modi di avere dei figli, ma né la natura né la scienza hanno saputo compiere questo miracolo. Insieme hanno affrontato varie difficoltà, economiche e di salute, e quando hanno potuto hanno anche dato una mano a parenti o amici che ne avevano bisogno. La mancanza di figli li esclude dalla definizione di famiglia?
Il mio compagno è il secondo di quattro figli, nati tutti da un uomo e una donna sposati civilmente e religiosamente. Questi signori, però, hanno vissuto una vita dolorosamente disordinata: hanno abbandonato le prime due creature alle cure di una zia, senza intervenire in alcun modo, materiale o morale, nella loro crescita.
Il mio compagno mi racconta che, quando raramente andava a trovare i suoi genitori, con cui non coabitava, magari in alcuni week end, assisteva a scene orribili, come il padre violento che picchiava la madre ubriaca; il padre, a volte, lo conduceva con sé quando andava a trovare qualche amante.
Delle altre figlie, una è riuscita ad acquisire un proprio equilibrio solo lasciando quella casa e intraprendendo da sola un duro cammino per studiare, trovare un lavoro e sposarsi, lontano dalla Sicilia; e anche così, ha manifestato per anni alcuni ritardi psicofisici, conseguenza dei traumi vissuti negli anni più teneri.
Il mio compagno è cresciuto, invece, circondato dall’affetto e dalle cure della zia: ha studiato, ora ha un lavoro rispettabile e prestigioso e tutti lo stimano come una persona sensibile, educata ed affidabile. Una delle ragioni per cui lo amo è il suo alto senso della famiglia, della casa, del nido domestico, che certo non ha appreso dai genitori, ma dalla famiglia sostitutiva che Dio ha voluto che avesse.
Che cosa è una famiglia? Per definirla, bastano la differenza di genere, il riconoscimento legale, la cerimonia religiosa, la procreazione? Vorrei dire, soprattutto a persone come Carlo Giovanardi, che per fare una famiglia ci vogliono soprattutto due elementi: l’amore e la responsabilità. Amore non significa cieca soddisfazione degli istinti, mi auguro che lui sappia che questo vale anche per le coppie eterosessuali.
Certo, la passione e l’intimità fisica fanno parte dell’amore: ma un uomo e una donna che (più o meno occasionalmente) vanno a letto insieme non costituiscono una famiglia, e nemmeno un uomo e un uomo, o una donna e una donna. Amore significa impegnarsi ad essere fedeli e a portare avanti dei progetti.
Come omosessuale, negli anni in cui cercavo (a volte disperatamente, dissennatamente) il mio equilibrio, ho conosciuto e praticato la dissolutezza: un termine desueto, certo, tipico del lessico clericale, ma questa volta devo riconoscere che è il più appropriato, poiché vivere la sessualità in modo disordinato ed occasionale, senza amore, senza stabilità, non fa che disciogliere e disgregare (in latino, dissoluĕre) le energie fisiche e morali di una persona.
Ora, la stessa cosa può capitare e capita anche agli eterosessuali. Essere omosessuali non vuol dire necessariamente abbandonarsi ad ogni sorta di degrado, anche se c’è chi lo fa; essere eterosessuali non significa necessariamente abbandonarsi ad ogni sorta di degrado, anche se c’è chi lo fa.
La differenza non risiede nel corpo dell’amante, ma nel valore etico, relazionale, affettivo che si dà all’unione intima. Allo stesso modo, non è un puro fatto fisiologico (la differenza fra i sessi) che costituisce la famiglia, ma la scelta d’amore che accompagna e sostiene la vita quotidiana. Una coppia di adulti, uomini o donne che siano, quanto tempo riesce a dedicare all’eros ogni settimana?
Certo poco, nei confronti di tutti gli altri momenti di vita insieme, in cui si fa pure l’amore, ma lo si fa prendendosi cura dell’altro, sopportandosi e perdonandosi a vicenda, confortandolo nei momenti difficili, cucinando, stirando, pagando le bollette, pianificando le vacanze insieme, affrontando insieme la malattia o la scomparsa delle persone care, portando i pesi l’uno dell’altro.
Ecco che giungiamo al secondo punto: la responsabilità. Io sono responsabile del mio compagno, come lui lo è di me. Ognuno di noi due, in nome dell’amore che proviamo e che alimentiamo ogni giorno, è responsabile del benessere psicofisico dell’altro. Lo è non solo virtualmente, ma fattivamente, nella concretezza quotidiana dei gesti con cui ci diciamo “io per te ci sono”. Se avessi una compagna, o una moglie, che cosa ci sarebbe di diverso nel mio amore o nella mia responsabilità, o da parte sua?
Per questo motivo, noi non siamo una coppia, ma una famiglia. Lo siamo anche grazie a tutti coloro che ci hanno insegnato l’amore e la responsabilità. E lo siamo anche in un altro senso. Dire “coppia” (di fatto o di diritto) significa evocare una realtà esclusiva e duale, quasi chiusa in se stessa. Dire “famiglia”, invece, significa parlare di persone che vivono l’amore e la responsabilità non solo fra di loro, ma anche all’esterno, innervate in una rete di relazioni sane, costruttive e generose. Come vi dicevo prima, io e il mio compagno frequentiamo amici e parenti.
“Frequentiamo” vuol dire che partecipiamo della loro vita e loro partecipano della nostra; vuol dire gioire con loro, soffrire con loro, essere solidali e responsabili. Una zia del mio compagno ha da poco subito un’operazione chirurgica: per noi due è stato normale passare tutto il giorno in ospedale per seguire il decorso e sollevarle il morale. La nostra famiglia è fatta dello stesso tessuto buono di cui sono fatte le famiglie sane da cui proveniamo, in essa scorre la stessa energia, noi vogliamo essere dono per gli altri, esattamente come lo siamo fra di noi e altri lo sono stati e lo sono con noi.
Il padre del mio compagno è morto nel 2009, pochi giorni prima di Natale. Anche se ha lasciato dietro di sé un’eredità fatta di tristi ricordi e di grandi delusioni, il mio compagno era ugualmente sconvolto e addolorato, per cui la sera di Natale (eravamo invitati a casa di mio fratello con tutta la famiglia) lui non se la sentiva di uscire di casa, e mi ha pregato di andare io a cena, senza di lui.
Quando sono arrivato da mio fratello e ho spiegato loro la situazione, mio padre ha preso il telefono, lo ha chiamato, gli ha detto qualcosa che non so e non saprò mai, poi mi ha detto: io vado a prenderlo a casa, se vuoi vieni anche tu.
Incredulo, l’ho accompagnato; gli ho proposto di guidare io la macchina, ma mio padre ha detto di no, era compito suo. Arrivati a casa mia, volevo scendere dalla macchina per citofonare, ma mio padre mi ha preceduto e mi ha detto che dovevo restare in macchina, perché era compito suo (suo, cioè “del padre”) andare incontro al figlio… cioè al mio compagno, che intanto usciva commosso dal portone.
Mio padre gli è andato incontro, lo ha abbracciato e lo ha portato in macchina e abbiamo raggiunto tutta la famiglia. Questa cosa non l’ho mai raccontata a nessuno. Dice il Vangelo che il regno di Dio è simile ad un seme che all’inizio sembra insignificante, ma poi germoglia e diventa un grande albero, e gli uccelli fanno il nido fra i suoi rami.
Io interpreto la parabola così: l’amore (che cos’altro è il regno di Dio?) è tale solo se e solo quando si fa casa per gli altri, si fa accoglienza e dono. La mia famiglia lo ha fatto per me, io e il mio compagno vogliamo esserlo per gli altri. Perché non dobbiamo essere considerati famiglia? Ironicamente, se vado all’anagrafe e richiedo un certificato di “stato di famiglia”, mi viene consegnato un foglio in cui c’è scritto: a questo indirizzo risiede la seguente FAMIGLIA, e poi ci sono i nomi mio e del mio compagno, che ha trasferito la residenza da me ormai da diversi anni.
Che cosa chiedo, dunque? Vorrei che, almeno di fronte alla legge degli uomini, la mia famiglia sia riconosciuta e tutelata come tale. Alcuni, in modo non so se più stupido o più malvagio, affermano che in tal modo verrebbe “sdoganato” uno stile di comportamento nocivo per la società.
A costoro vorrei rispondere chiedendo in che cosa il mio/nostro stile di comportamento o la nostra scelta di vita sono dannosi per la società. Se lo fossero, saremmo perseguibili come autori di un reato, ma non trasgrediamo alcuna legge e nessuno viene ad arrestarci. Se fossimo un danno sociale, il quartiere popolare dove abitiamo (in Sicilia, terra di tradizioni ahimé anche mafiose e patriarcali) ci avrebbe reso la vita impossibile e ci avrebbe scacciato nel giro di un mese, ma nessuno mai ci ha arrecato il minimo disturbo.
Io credo che un comportamento socialmente, oltre che moralmente, dannoso sia quello che fornisce alla società modelli distruttivi: la disonestà, l’ignoranza, la prevaricazione, lo sfruttamento dei deboli, gli abusi sui bambini e sulle donne, la volgarità, la droga. Credo che molti politici, eterosessuali e difensori della famiglia tradizionale, siano in questo senso socialmente nocivi, anche per la loro piena, quando non
ostentata, visibilità.
Ma se due persone vivono il loro quotidiano cercando l’armonia fra di loro e con gli altri, sono socialmente oltre che moralmente costruttive, indipendentemente dal fatto di essere di sesso diverso o eguale. Nel Liceo dove insegno cerco ogni giorno di agire secondo questi valori e quindi di trasmetterli agli allievi, oltre alle discipline di cui sono competente. Un (o una) omosessuale può essere un buon insegnante?
Ma certo: io non devo influenzare la vita intima dei miei allievi, devo piuttosto educarli ai valori di accoglienza e al rispetto della persona umana che costituiscono l’anima della nostra civiltà e della nostra Costituzione. Forse alcuni avrebbero paura di sapere che un omosessuale è insegnante dei loro figli: ma ancora una volta, il problema non sta nell’orientamento sessuale.
Se io non ho raggiunto un mio equilibrio psicologico, posso rappresentare un grave problema per gli allievi, e posso essere un potenziale molestatore di ragazze così come di ragazzi. Ci sono molti casi di pedofilia anche da parte di persone eterosessuali.
Ma se io ho raggiunto un mio personale equilibrio e vivo serenamente e nel privato la mia vita affettiva, il mio orientamento sessuale non può né deve pregiudicare la mia professionalità -che infatti è riconosciuta, in Italia e all’estero.
Per questo ritengo che l’unico provvedimento valido sarebbe non quello delle “unioni civili”, ma quello del matrimonio anche per gli omosessuali. Quanti equivoci su questo! Quante volte ho sentito dire “vogliono i diritti senza i doveri”! Ma se io voglio sposarmi con il mio compagno, è proprio perché desidero assumermi nei suoi confronti i doveri di assistenza, fedeltà e sostegno che il codice civile attribuisce agli sposi eterosessuali! Diverso sarebbe il caso del matrimonio religioso.
Per me, che sono cristiano, il matrimonio religioso è un sacramento: è cioè una effusione di Grazia santificante concessa all’uomo e alla donna che non solo si amano (sul piano umano), ma intendono proiettare questo loro amore all’interno dell’Amore Trinitario e farsi quindi icona delle Persone Divine, anche nel meraviglioso compito di propagare la vita.
Capisco bene che questa vocazione, teologicamente intesa, non spetta all’amore omosessuale; ma non capisco perché questo debba comportare ipso facto il disprezzo e la condanna per l’amore omosessuale, che, se inteso e vissuto correttamente, è amore, quindi partecipa della stessa sostanza divina e meriterebbe per questo almeno una forma di benedizione.
Non mi risulta che nei Paesi del mondo in cui già esistono forme di unione civile o anche religiosa per le coppie omosessuali si siano registrati un calo verticale dei matrimoni o della natalità e, per converso, una “epidemia” di omosessualità. Leggi contro l’omofobia e a favore delle unioni omosessuali non accrescerebbero il numero delle persone omosessuali, poiché non si diventa omosessuali per via delle leggi, ma per un intimo e connaturato orientamento psicofisico della persona.
La popolazione omosessuale rappresenta sempre e comunque il 5% circa del totale, e nessun eterosessuale (uomo o donna) sarebbe, credo, disposto a “cambiare squadra” se ci fossero leggi favorevoli. Semmai, tali leggi aiuterebbero gli omosessuali a vivere più serenamente la loro condizione. Ovviamente, in Italia il processo è ostacolato da una secolare mentalità di machismo oltre che da una sciagurata connivenza fra potere politico e potere religioso.
Attenzione: la Chiesa è e deve essere libera di predicare il suo messaggio. Ciò che, come cittadino, non tollero, è quando determinati politici concludono scellerati patti di convenienza con il Vaticano, impegnandosi a seguirne i dettami in cambio di sostegno elettorale, e non per intima convinzione.
Ne sono prova gli scandali in cui si trova coinvolto l’ultimo governo, fondato su una maggioranza che apparentemente afferma di sostenere la “famiglia tradizionale”, ma che ha praticato comportamenti pubblici e privati del tutto difformi da questi apparenti valori.
Ancora non ho ben capito chi, fra i politici e la Chiesa Italiana, sia il cliente e chi la prostituta. Come cittadino, mi comporto onestamente, pago le tasse, pratico e diffondo valori come la solidarietà e la legalità: per questo mi aspetto dalla Repubblica scelte laiche che trattino nello stesso modo
tutti, credenti e non credenti, giovani e vecchi, uomini e donne, eterosessuali ed omosessuali. È quindi improprio usare, come ha fatto il sig. Giovanardi, il termine “sdoganare”. Si sdoganano le merci ferme alla frontiera.
Io non sono una merce, sono una persona. Se avrete avuto la pazienza e il buon cuore di leggere fin qui, vi ringrazio: avrete ormai capito che queste per me sono cose importanti, e che assai di rado ho l’occasione di parlarne. Vorrei spendere solo alcune riflessioni finali sul problema dei figli e delle adozioni.
Sono cresciuto in una famiglia tradizionale, eterosessuale e assai stabile (i miei stanno insieme da 43 anni): sono quindi convinto che famiglie come questa, ispirate all’amore e alla responsabilità, siano il contesto migliore per una crescita sana dei figli.
Lo dico anche da educatore: vedo ogni giorno che i ragazzi che provengono da famiglie poco stabili o poco serene fanno più fatica a crescere e a studiare. Sono quindi convinto che il diritto DEL figlio a crescere in un ambiente completo ed equilibrato sia assolutamente prioritario e valga più del “diritto al figlio” millantato da diverse coppie o da diversi singles; questo “diritto al figlio” mi sa di egoismo e di immaturità, e per questo non approvo le strane “acrobazie genetiche” (banca del seme, utero in affitto etc…) di cui si servono alcune persone (che tuttavia rispetto come tali).
Un bambino non è un prodotto sintetico da costruire in laboratorio, sono quindi contrario a creare una vita di proposito. C’è però una grande obiezione. Immaginiamo che la vita del bambino o della bambina non vada creata artificialmente, perché già esiste: ci sono migliaia di bambini messi al mondo e poi abbandonati in contesti di degrado, in cui li attendono la fame, le malattie, lo sfruttamento, gli abusi di ogni genere (reclutamento militare o criminale, prostituzione, traffico di organi…).
A questo punto l’alternativa è: questa vita già esiste; la lasciamo dov’è o le diamo una famiglia, composta anche da due uomini o da due donne, in cui potrà conoscere il calore del cibo e di un letto, il Natale e i compleanni, l’istruzione e le cure mediche, l’affetto e l’educazione? Chi nega a questi bambini, italiani o stranieri, la possibilità di essere adottati anche da famiglie omosessuali, oltre che eterosessuali, si assume in pieno la responsabilità della loro tragica sorte.
Per questo dico no alle “acrobazie genetiche”, ma sì alle adozioni, purché le famiglie siano attentamente selezionate e seguite, come già peraltro avviene nel caso delle coppie eterosessuali: infatti, non tutte vengono riconosciute idonee per adottare. Un’ulteriore prova del fatto che non basta essere maschio e femmina e sposati per allevare ed educare dei figli.
Che dirvi? Grazie, grazie di cuore. Spero che leggiate questa lettera e che ve ne giunga la sofferta e autentica genesi personale. Spero di cuore che almeno queste idee, che non sono soltanto mie, alimentino un sereno e proficuo dibattito su questo tema, che è anche la vita mia e di molti altri, cui vorrei, con le mie parole, dare voce.
Grazie di cuore