Il gergo gay nell’italiano del novecento e contemporaneo
Dialogo di Katya Parente con il linguista Daniel De Lucia
Daniel De Lucia, l’ospite di oggi, è un giovane linguista con un curriculum di tutto rispetto. Vincitore del Premio Maria Baiocchi 2013 e del Premio Rebecca Benatoff 2014 per le start-up, ed è stato relatore in molti convegni. Ora, dopo un’esperienza come docente presso l’ateneo di Pescara, insegna, come precario, in diversi istituti superiori. Esperto di linguista lavanda, è qui con noi per parlare del suo libro “Il gergo gay italiano. Il Novecento e gli anni Duemila” (Edizioni Accademiche Italiane, 536 pagine)
Qual è l’idea sottostante al libro e come ti è venuta?
Il coming out resta una pratica in fondo ancora rara, anche se proporzionalmente più frequente che nel passato. Questo vuol dire che nella comunità omosessuale, bisessuale e transessuale sussistono via via condizioni sempre più serene, che trasformano il modo di considerare l’omosessualità, la bisessualità e la transessualità stesse.
Dalla depenalizzazione dell’omosessualità, cioè, si sono avviate progressivamente nei decenni condizioni che sociolinguisticamente sgretolano i paradigmi per considerare un gergo tale.
Il gergo gay, secondo questa prospettiva evolutiva in itinere, va teoricamente prospettandosi come qualcosa di ben distante da quanto era solo fino a qualche generazione fa, perché in primis non sussistono più i motivi in toto per comunicare in maniera criptica.
Questa nuova e innovativa condizione sta sussistendo con condizioni ostili, che spingono ancora alla segretezza, e un’altra dimensione, che spinge verso l’imborghesimento della comunità stessa. La trasformazione, ad esempio, di parole come “amico” per intendere il proprio partner di vita sta progressivamente accostandosi a parole comuni e normate, quali “fidanzato, l’ex, marito, compagno”, che non concepiscono più sfumature peculiari comunitarie.
L’intento sottostante, così, è stato quello di fare una fotografia di questa situazione all’interno della lingua italiana contemporanea, della comunità italofona contemporanea rispetto al passato e con una visione di probabilità verso il futuro.
Mi è sorta quando, leggendo “Pasto Nudo” di Burroughs per Adelphi, la traduttrice ha voluto specificare nei ringraziamenti che vi è stata una consulenza di due uomini omosessuali italiani per raffinare la traduzione dal testo inglese all’italiano.
Così, diventa evidente quanto non sia solo questione di militanza, ma della qualità editoriale stessa del testo scritto, tanto quanto di quello orale doppiato nel cinema e alla televisione.
Esistono lingue, come l’inglese e il francese, per le quali la degergalizzazione gay è già compiuta (basti pensare ai lemmi dei dizionari in uso per queste lingue), ma in ogni caso non bisogna certo dimenticare che l’inglese del Regno Unito non è quello della Nigeria, e a sua volta non c’è una storia civile parallela per la comunità omosessuale.
Capire tecnicamente a livello globale questo fenomeno significa dunque quantificare un autentico e concreto progresso in ambito di diritti civili, pena altrimenti una vana quanto vacua retorica.
Come hai fatto a documentarti?
La documentazione è scaturita, in primis, dalla letteratura tematica ludica, vale a dire quei testi di argomento e militanza omosessuale italiani, dozzinalmente venduti in un dato periodo storico, per poi magari non essere più editi, inspiegabilmente.
Questi testi appartengono ad una tradizione editoriale odierna di testi considerati scadenti dalla critica ufficiale, che non li elabora e non li considera più, ma sui quali la militanza gioca molto con le proprie prospettive di cambiamento sociale e culturale.
Il mio intento era quello, in origine, di permettere a questi testi di trovare una sponda accademica che li valorizzasse nella misura in cui a volte, a loro stessa insaputa, posseggono una mole di informazioni notevoli, da non cestinare. Informazioni interessanti, consistenti e rilevanti.
Queste informazioni, che spesso è necessario reperire con sondaggi e altri mezzi accademici, hanno sempre la caratteristica di passare inosservate proprio in ambito accademico, poiché considerati dati scherzosi.
Questi dati “ludici e popolari” però sono, contemporaneamente alla loro dimensione giocosa, anche molto seri nella misura in cui comunque veicolano qualcosa di importante su persone, vite e società. Molto di questo materiale è commerciale e kitsch, stante però una bibliografia autorevole sull’argomento, come dev’essere per ogni studio accademico serio e che facesse da scheletro alla struttura del mio saggio.
Questo lavoro, in cui ho creduto molto, è durato quattro anni: ho avuto a disposizione parecchio materiale linguistico, spesso mai catalogato in modo appropriato. Catalogare un dato lessicale, per me, equivale a valorizzarlo, in quanto viene isolato dal suo contesto ed elevato infine ad un piano astratto, pronto per essere visto in un modo nuovo.
Che accoglienza ha avuto?
Il volume ha avuto un’accoglienza molto positiva. Ho ricevuto il premio Maria Baiocchi del Di Gay Project a Roma, mi hanno intervistato a RaiNews24 e sono anche apparso in uno sketch di Blob, il programma di satira di Rai3.
Ho fatto anche conferenze, congressi, relazioni e seminari a Palermo, Roma, Napoli, Chieti, Sulmona, Pescara, Milano per far conoscere l’argomento a livello nazionale, e non necessariamente ad un pubblico di addetti ai lavori.
Ho ricevuto complimenti da laureandi e dottorandi che mi hanno chiesto il permesso di citarmi nei loro elaborati, e questo mi ha fatto sicuramente molto piacere; ma credo che la cosa più singolare che mi è successa è stata assistere ad un diverbio su un forum in lingua tedesca nel quale, durante un’animata discussione – come spesso avviene sui social – venivo citato come fonte autorevole da uno dei contendenti.
Non ho più promosso molto il testo e l’argomento ultimamente, ma so che esiste e sussiste ancora molto interesse sull’argomento, specialmente tra laureandi e dottorandi, soprattutto per i paragrafi di antropologia linguistica dell’omosessualità che ho aggiunto al testo: si tratta di questioni linguistiche e storiche per niente note al pubblico nostrano, che spesso ne è incantato.
Ho così avuto modo di constatare che oggi sull’omosessualità, la transessualità e la bisessualità esista non tanto una discorsività assente o ostile, quanto estremamente politicizzata e ideologizzata, che maschera, reprime e censura nuovamente il mero racconto della realtà con tutti i suoi dati.
La mia speranza per il futuro è quella di vedere in futuro dibattere sulla dimensione peculiare che del mondo LGBT, come si evince dal mio libro, ha costituito punto di forza originale e caratteristico della società. Infatti il rischio odierno, a mio avviso, è quello di rincorrere una cosiddetta uguaglianza che reprima e disintegri delle peculiarità storiche della nostra comunità, e in genere degli altri gruppi marginali.
Cos’è la linguistica lavanda?
Il mio intento in origine è stato quello di portare in Italia, e in italiano, una scuola dedita agli studi di linguistica lavanda.
In Italia siamo fermi alla linguistica femminista degli anni Ottanta, che ha largamente dimostrato molte lacune, criticità e fallimenti.
Questo è accaduto sia nel nostro Paese che all’estero, dal momento che la linguistica femminista non punta a constatare ma a modellare il reale: la creazione di un termine femminile (ad esempio ministro/ministra) parte e finisce il proprio ragionamento nel presupposto che si possa cambiare la realtà cambiando le parole. Questo non è mai finora accaduto, nonostante siano passati almeno quarant’anni dai primi tentativi in tal senso.
Partendo da questo, che reputo un fallimento pratico, la linguistica lavanda vuole andare oltre, inglobando nella propria analisi le matrici dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e del ruolo sessuale. La linguistica lavanda non intende imporre alcun paradigma ideologico ma limitarsi a constatare quanto già è presente.
La lavanda è colore che deriva dalla fusione del rosa e del celeste, colori cioè che per ideologia di genere sono considerati rispettivamente colori del femminile e del maschile: la linguistica lavanda intende raccontare una gamma di umanità che si muove entro questi due limiti, e non viene raccontata da nessuno di questi due estremi, femminismo incluso.
La nozione di linguistica lavanda è dovuta all’antropologo americano William Leaps, che in Italia resta ancora oggi praticamente sconosciuto. Fino ad ora la discorsività femminista è stata così dominante in termini accademici da schiacciare ciò che accadeva al di là dei suoi confini, soprattutto all’estero: parlo della linguistica lavanda e degli intellettuali maschi che se ne occupavano. Mi riferisco in particolare a Judith Butler, che ha coniato la nozione di queer.
A mio avviso, dunque, la linguistica lavanda ha così l’intento non tanto di modellare la realtà, quanto di constatare: non imporre ma proporre. È quanto il femminismo sostiene, a torto, di avere fatto. La linguistica lavanda coinvolge quindi l’antropologia, la sociolinguistica, la traduttologia, la linguistica, la storia e altre discipline umanistiche, molto più concrete delle loro sorelle quali la filosofia e la letteratura.
Questa disciplina riesce nell’intento di documentare senza ideologizzare una mole di dati sia in entrata che in uscita: ad esempio non esclude la gergalità omofoba, ma la monitora considerandola, ad esempio, come nuova forma gergale odierna.
L’omofobia infatti, non è destinata ad estinguersi ma a reprimersi, quindi a diventare clandestina. Secondo i dati della linguistica lavanda, l’omofobo medio imparerà, nei migliori dei casi, a non esprimere pubblicamente ostilità, ma a condividerla in ambienti privati.
Credi che il gergo gay sia una sorta di unificatore della comunità queer? Da una specie di linguaggio cifrato ad un tratto orgogliosamente distintivo?
Sì, lo credo fermamente. A maggior ragione se si pensa che oggi non si vuole più in alcuna maniera considerarlo tale. Ad esempio, ricordo quando ironizzai con un militante parlando al femminile, e lui mi rispose che lui era uomo, e dovevo usare con lui il maschile. Scompariva così l'(auto)ironia che il femminile dava al nostro discorso: fu un evento per me rivelatore. Evidentemente c’era il timore di distinguersi dagli altri, sottovalutando il contesto ironico e dando troppa rilevanza alla categoria di appartenenza.
Ad oggi credo si possa individuare una teoria che si trasforma pericolosamente in dogma stritolando qualsiasi forma di dubbio, base della libertà intellettuale che dovrebbe essere un tratto distintivo della comunità LGBT, ma che purtroppo non lo è affatto. Se un’idea si trasforma in dogma attraverso la sua ripetizione ossessiva, la libertà dell’individuo non è stata ancora realmente conquistata.
Quanto più una persona omosessuale, bisessuale e transessuale si fa fuorviare da questo dogma, tanto più è ancora schiavo di un’ostilità omofoba interiorizzata. Credo sia qualcosa di inquietante, che impedisce qualsiasi speranza di evoluzione autentica per la comunità.
La libertà quindi non è l’esaltazione – fase esistenziale necessaria, ma transitoria -, bensì il comprendere questi meccanismi per neutralizzarli. È la conoscenza dei fenomeni, quindi, che ci rende liberi, e non l’esaltazione della conoscenza stessa. Il gergo gay è qualcosa di distintivo, ma l’omofobia ha avuto tanto successo da portare moltissim* di noi a vergognarci di qualcosa che ci appartiene. D’altronde il coraggio passa sempre per la differenza, e il coraggio è solo per le persone libere.
Grazie al linguaggio conosciamo il mondo, e noi stessi, riflettiamo sulla realtà che ci circonda. La linguistica lavanda diventa allora un importante strumento a disposizione della comunità LGBTQ, e non solo. Grazie a Daniel, questa disciplina pressoché sconosciuta in ambito italiano si sta facendo strada.