Essere lesbica. Il mio coming out a piccoli passi
Testimonianza di Lindsay Amer* pubblicata sul sito My Kid is Gay (Stati Uniti), liberamente tradotta da Chiara Benelli
Per me non c’è stato un singolo, decisivo momento nel mio processo di coming out. Sono uscita dall’anonimato un passettino alla volta, fino a quando, un bel giorno, ho realizzato che il percorso era compiuto: solo allora mi sono dichiarata, apertamente e volontariamente. Il mio è stato un percorso graduale verso la decisione di smetterla di mentire e di vivere finalmente la mia vita con sincerità.
Prima di iniziare col mio racconto, è doveroso che io riconosca l’immensa fortuna che ho di essere circondata da amici e familiari tolleranti e accoglienti (o almeno così, è la maggior parte di loro). Sono cresciuta a New York, la città forse più diversificata (leggasi: la più omosessuale) del mondo, e alla mia famiglia, culturalmente ebrea ma scarsamente osservante, non gliene poteva fregare di meno di quale genere fossero le persone con cui mi frequentavo.
Il mio coming out non ha mai dovuto fare i conti con la paura che qualcuno di importante nella mia vita potesse non sostenere le mie scelte: il conflitto sussisteva esclusivamente tra me stessa e i miei pregiudizi interiorizzati da eterosessuale. La mia esperienza è uno degli incredibili miracoli di cui mi considero grata ogni giorno. Ciò detto, il mio conflitto interiore era ancora molto reale.
Al liceo ho vissuto in prima persona il tipico stereotipo della cotta per l’amica del cuore. È stato molto doloroso, contorto e colmo di angoscia adolescenziale, non tanto per la mia palese omosessualità quanto piuttosto perché, in linea con lo stereotipo di cui sopra, lei era innamorata di un ragazzo. Si chiamava Wednesday [Mercoledì], giuro che è la verità.
Eravamo compagne di stanza al campus teatrale pre-college di Boston, è stata la prima ragazza a cui abbia mai dato un bacio; giocavamo a obbligo o verità e all’improvviso, in un remoto angolino della mia coscienza si accese subito una lampadina: “lesbica”. Oggi è una mia cara amica, ma ci sono voluti molto tempo e molte premure per superarla. Allora, dire che ero confusa sarebbe stato un eufemismo bello e buono.
Una sera, scoraggiata perché lei non aveva risposto a un mio messaggio, in preda a uno di quei tipici pensieri che si fanno sotto la doccia, mi venne l’istinto di confessare a mia madre la mia bisessualità. Ero convinta che Wednesday avrebbe raggiunto di corsa il telefono per convincermi a non farlo, per avvertirmi che me ne sarei pentita.
Inutile dire che il mio piano geniale fallì miseramente. La risposta al mio messaggio effettivamente arrivò, ma le conseguenze furono assai più reali di quanto mi aspettassi. Feci sedere mia madre sul letto, le dissi che ero bisessuale e quello che seguì fu uno strano silenzio. Non sapeva cosa dire, e lo stesso valeva per me.
Il mio consiglio è di non farlo. Io non ero pronta a dichiarami, l’ho fatto per le ragioni sbagliate e non avrei dovuto. È stato un gesto impulsivo, e mia madre non aveva idea di cosa fare. Nulla andò secondo le mie aspettative, fu un momento strano e imbarazzante, impacciato e confuso; tutti aggettivi che non combaciano affatto col rapporto che ho con lei. Era un territorio completamente inesplorato.
Non avevo riflettuto abbastanza dopo quella confessione iniziale, e lei non sapeva quali prossime mosse prevedesse il copione. Ci volle del tempo prima che le parole venissero naturali tra noi. Quando Lance Black vinse l’Oscar alla migliore sceneggiatura per Milk, quell’anno e lo dedicò ai giovani LGBT, colsi dal divano lo sguardo d’intesa che mi lanciò, ma malgrado tutte le buone intenzioni, provavo ancora un insopportabile senso di vergogna e imbarazzo.
Dopo aver fatto coming out con pochi eletti, mi gettai a capofitto a guardare The L Word e poi partii per il college, ancora confusa, ma tutto sommato entusiasta di poter reiniziare da zero. In quel periodo rimasi fedele alla mia identità bisessuale. Prendevo parte a (discutibili) feste di confraternite e bravate teatrali stracolme di ragazzi bianchi non dichiarati. Cominciai a dichiararmi pubblicamente bisessuale, mi sembrava giusto ormai. Mi inventai una tecnica per flirtare con i ragazzi e poi tirarmi prontamente indietro appena prima di andare al sodo.
Poi iniziai il corso di studi di genere, io mi collocavo allo stadio 4 della scala di Kinsey (prevalentemente omosessuale, ma con tendenze eterosessuali), e iniziai ad accarezzare l’idea che potessi essere un po’ più omosessuale di quanto pensassi.
L’estate dopo il mio secondo anno ottenni una borsa di studio per andare a Londra, a studiare nuovi metodi per proporre a un pubblico giovane complesse problematiche sociali attraverso il teatro. Rimasi tre mesi completamente sola in un paese straniero, e così decisi di condurre di nascosto il mio esperimento pratico di ricerca. La domanda alla base di questo mio esperimento era la seguente: com’è essere omosessuale?
Per scoprirlo, misi in valigia tutte le mie camicie di flanella, cercai i pochi bar per lesbiche ancora in piedi a SoHo (r.i.p., CandyBar), mi segnai alcuni articoli letti su Autostraddle [blog LGBT e femminista, n.d.r.], strinsi amicizia con donne straniere queer alle 4 del mattino e mi frequentai brevemente con una cappellaia belga molto carina.
Ero piuttosto sola e odiavo il mio alloggio in subaffitto, ma tutto sommato stavo bene, mi sentivo libera, indipendente e, contro ogni aspettativa, tutt’altro che spaventata. Scoprii che mi piaceva essere lesbica, mi veniva facile e naturale, ma soprattutto mi piaceva che mi piacessero le donne.
Tornai negli Stati Uniti con una ritrovata fiducia in me stessa e nella mia sessualità, un bel po’ di esperienza sui viaggi in solitaria e un sacco di gadget gay direttamente dal World Pride di Londra. Esposi tutta orgogliosa una bandiera arcobaleno in camera da letto, nel mio primo appartamento, così che i miei genitori la vedessero quando mi venivano a trovare, e questo è quanto.
Per me è questo il momento che mi porto nel cuore del mio “coming out”. È il momento in cui ho deciso di dare un taglio a tutte le bugie, al perenne nascondermi. È stato allora che ho smesso di preoccuparmi di cosa pensasse la gente. È stato allora che misi finalmente piede fuori da quel silenzio in cui mi ero confinata per troppo tempo.
Pochi mesi dopo ho iniziato a frequentare la mia prima ragazza, ho scelto gli studi di genere come disciplina di studio secondaria del mio percorso accademico e ho annunciato senza alcuna vergogna che mi piacevano le donne. Mi tolsi un bel peso; ora quel che mi serviva era solo un po’ di pratica.
Dal college in poi, la mia identità queer è cresciuta con me. Ci sono arrivata con un po’ di ritardo, assumendola come un’etichetta intersezionale e teorica, che meglio si adattava alle mie tendenze alla giustizia sociale e alle mie idee sul genere. Ma la cosa che ancora non è cambiata è il coming out; ogni giorno. Ormai sono diventata quasi un’esperta.
Il mio aspetto è molto queer, coi miei capelli rasati e col mio ciuffo spiovente, i miei tatuaggi, i miei occhiali da hipster e il mio guardaroba di camice button-down (nel frattempo, le stampe hanno scalzato la mia collezione di flanella); mi è molto d’aiuto, devo dire. Scelgo accuratamente quali stereotipi sulle lesbiche incarnare e parlo ampiamente delle mie ex e della cultura queer con persone estranee alla cerchia LGBTQ+.
Lascio che il mio lavoro di giustizia sociale parli per me nel mio curriculum, e elargisco spesso consigli ai nuovi colleghi, così da non lasciare spazio a domande varie. Credo che il solo parlarne sia imbarazzante. Lascio che sia la mia immagine a raccontare la mia storia quando non voglio essere io a farlo, perché francamente può essere snervante.
Realizzo contenuti queer per bambini con l’obiettivo di non costringere mai più i giovani a vivere in un mondo in cui sia necessario fare coming out ogni santa volta che si incontrano persone nuove, che si trova un nuovo lavoro, o molto semplicemente, che si mette piede fuori casa. Gli etero non devono mica uscire allo scoperto, perché noi sì? Facciamo coming out solo per smentire un preconcetto sociale che ci cuciamo addosso l’un l’altro.
Vorrei vivere in un mondo senza preconcetti. Un giorno il coming out sarà un lontano ricordo del passato, ma fino ad allora aggiungerò la mia storia alle migliaia di altre storie, e nel frattempo esorterò sempre tutti a vivere la propria verità. Vi renderà molto più felici.
* Lindsay è un’artista newyorkese che realizza opere queer per bambini! Guardate su YouTube il suo ultimo progetto, Queer Kid Stuff, una serie LGBTQ+ educativa per bambini. Lindsay è fondatrice e codirettrice artistica della Bluelaces Theater Company e crea opere multisensoriali per persone cond disabilità sensoriale. Si è laureata in teatro (e diplomata in studi di genere) alla Northwestern University e ha conseguito un master in teatro e performance alla Queen Mary University di Londra. Se non è totalmente assorbita dall’età adulta, probabilmente sta complottando per rovesciare il patriarcato mentre suona il suo ukulele.
Testo originale: Coming Out in Baby Steps