Adolescenza e violenza. Il bullismo omofobico
Dialogo di Katya Parente con il professor Giuseppe Burgio
Nostro gradito ospite è oggi Giuseppe Burgio, Professore Associato di Pedagogia Generale e Sociale all’Università di Enna “Kore” e Direttore del “CIRQUE-Centro Interuniversitario di Ricerca Queer”. Autore di molte pubblicazioni, tra cui quella su cui oggi ci soffermiamo “Adolescenza e violenza. Il bullismo omofobico come formazione alla maschilità” (Mimesis, 2012)
Prima di addentrarci nell’argomento specifico, ci può spiegare, brevemente, cos’è il bullismo?
Il bullismo è una forma di vittimizzazione di gruppo ai danni, perlopiù, di un/a singolo/a e che ha come teatro la scuola, ormai unico contesto sociale dove centinaia di coetanei/e possono trovarsi insieme e, di conseguenza, luogo principale della loro socialità. Il bullismo è solitamente studiato come un fenomeno unico, ma si articola in bullismo in presenza o cyberbullismo, diretto o indiretto, maschile o femminile, di tipo omofobico…
Perché scrivere un intero libro sul bullismo omofobico?
Quello omofobico è una dei tipi di bullismo più diffusi a scuola, e spesso raggiunge livelli di violenza preoccupanti. Colpisce giovani gay, lesbiche, bisessuali (ma anche persone semplicemente considerate tali perché non conformi al loro genere), che spesso hanno remore a denunciare la violenza (perché farlo attirerebbe l’attenzione sul proprio vissuto sessuale, sulla loro identità più intima).
Compagni e compagne hanno poi maggiore resistenza a intervenire in loro difesa, perché potrebbero rischiare di essere considerati LGB e vittimizzati essi stessi, e ciò aumenta l’isolamento di queste persone che, ancor prima del bullismo, subiscono già quel minority stress che è effetto degli stereotipi e dei pregiudizi sociali.
Infine, oltre a rappresentare un tipo peculiare di bullismo, esso costituisce la dimensione scolastica di quella più vasta omofobia che è molto diffusa nella società, nelle istituzioni (anche scolastiche), nei mass e social media…
Cos’ha di specifico il bullismo omofobico?
Questo bullismo ha una struttura complessa: esprime il rifiuto 1) dei rapporti sessuali e sentimentali tra uomini o tra donne; 2) della “passività” sessuale di un uomo (e lo schifo per la sessualità anale); 3) della relativizzazione della centralità del pene nei rapporti sessuali (con il conseguente odio del lesbismo); 4) della non netta differenziazione tra gli orientamenti sessuali (attaccando quindi i comportamenti bisessuali); e 5) dell’indifferenziazione (reale o percepita) tra i sessi e quindi del transessualismo (ma anche di un ragazzo considerato effeminato, o di una ragazza mascolina).
Esso andrebbe quindi più correttamente definito come bullismo omo-bi-transfobico. Questo dispositivo si trasforma poi facilmente in forme di violenza che, anche a scuola, sono sostenute e incoraggiate da un “sentire” diffuso e condiviso, che dice che queste vittime sono persone “sbagliate”, viziose, malate, perverse, peccatrici.
Lei afferma che il bullismo omofobico emerge come un modo per produrre (e sottolineare) la differenza tra eterosessuali e omosessuali. È dunque in qualche modo funzionale alla costruzione del proprio io?
Nel mio libro “Adolescenza violenza. Il bullismo omofobico come formazione alla maschilità” evidenzio come tale forma di vittimizzazione sia agita principalmente da maschi, e ai danni – soprattutto – di altri maschi. Ipotizzo quindi che esso sia funzionale alla costruzione dell’identità maschile in quella difficile fase di passaggio che è l’adolescenza.
Alcuni ragazzi, alle prese con la costruzione della propria soggettività maschile, anziché impegnarsi nei faticosi compiti di sviluppo, prendono una “scorciatoia”: mettono in scena una rappresentazione maschilista, esprimendo atteggiamenti di dominio su compagni che incarnano un diverso modello di maschilità, non aggressiva, non machista, o ai danni di ragazze che – in quanto non interessate agli uomini – non si prestano a sostenere adoranti il loro bisogno di riconoscimento virile.
In questo modo mettono in scena una maschilità che non si esprime in positivo, ma per negazione delle donne (misoginia) e per negazione delle forme di desiderio non eterosessuali (omofobia). Inoltre, i bulli ottengono in questo modo una serie di benefici concreti: 1) urlando “frocio” al compagno allontanano da sé il rischio di poter essere considerati tali, riuscendo a costruirsi una reputazione di virile aggressività tra i coetanei; 2) esprimere sentimenti omobitransfobici ha anche l’effetto psicologico di rassicurare sulla propria “normalità”; 3) tale forma di bullismo costruisce nel gruppo dei pari una gerarchia tra forme adeguate e forme non adeguate di maschilità (e indirettamente di femminilità), dettando le norme sociali del gruppo.
In che modo si può mandare in cortocircuito il bullismo (anche quello omofobico) e quali altre strategie sostitutive si possono mettere in atto?
Di solito gli interventi antibullismo “difendono” la vittima (vista come impotente, incapace di cambiare da sola la situazione) e “colpevolizzano” il bullo. E il termine omofobia fa poi pensare a un problema intrapsichico del singolo, piuttosto che a un problema sociale. Ciò può contribuire a spiegare il successo limitato che gli interventi antibullismo sembrano ottenere.
Il mio approccio, invece, cerca di indagare le cause (che individua nella difficile costruzione della soggettività maschile, per alcuni adolescenti, in una società maschilista) e non intende “punire” il bullo, piuttosto prevede un intervento che, oltre a sostenere le vittime LGBT del bullismo scolastico, si preoccupi di accompagnare tutti gli studenti verso una costruzione serena della maschilità, anzi delle maschilità al plurale, rassicurandoli nel loro percorso di crescita ed evitando che abbiano “bisogno” dell’omofobia (o della misoginia) per dirsi “veri” uomini e per essere riconosciuti tali.
Il movimento femminista e le conseguenti trasformazioni della società offrono infatti oggi alle ragazze un ventaglio di possibilità per il loro futuro, la crisi del patriarcato ha invece lasciato agli uomini la sensazione di aver perso terreno e potere, e ciò rende gli adolescenti di oggi privi di modelli alternativi a quelli tradizionali ormai in crisi, con il conseguente tentativo di alcuni di loro di voler “restaurare” il patriarcato (e con esso i propri privilegi) a tutti i costi, anche e soprattutto nelle sue connotazioni omobitransfobiche. Offrire modelli alternativi è allora compito educativo di noi adulti, sfida formativa urgente per la Scuola.
Scuola che, troppo spesso, risulta un’entità troppo chiusa in se stessa, occupata solo a infarcire di nozioni gli studenti. Ma la scuola dovrebbe essere (anche) altro: un luogo di ricerca e scoperta di sé, in cui si impara ad interagire con gli altri in modo pacifico e fruttuoso, un luogo in cui non ci dovrebbe essere spazio per la violenza, di qualunque tipo e chiunque ne sia vittima.