I nostri primi quarant’anni. Come ho incrociato il cammino del Guado
Dialogo di Innocenzo Pontillo con Gianni Geraci del Guado di Milano
Hai 25 anni, sai che sei gay e credente ma non ne puoi parlarne con nessuno, perché vivi in un piccolissimo paese del sud. Perché sai che lì non c’è posto per te, perché i “froci” dalle tue parti non esistono e se esistono sono delle macchiette, non sono certo come te. Allora che fai? Per un po’ ti chiudi a riccio, reciti a soggetto, ma poi non ce la fai più.
Fu così che un giorno di ventitré anni fa, sfogliando un giornale scoprii che a Milano esistevano i gay cristiani del Guado, che avevano addirittura una sede e un numero di telefono dove, telefonando in giorni ben definiti, ti rispondevano e ti ascoltavano. E io, dopo averci pensato su un bel po’, alla fine decisi di provare a fare quel numero. Con mia sorpresa mi rispose, dall’altro capo del telefono, una voce che con fare tranquillo mi ascoltò pazientemente e mi invitò a non disperare e a “cercare ancora”.
Sarebbero passati altri dieci anni prima di poter conoscere personalmente il gruppo Guado di Milano, che nel 2020 compie quarant’anni di cammino essendo nato il 20 dicembre 1980. Ed è proprio durante un Pride che ho incontrato, mentre stringeva lo striscione dei cristiani omosessuali del Guado, a Gianni Geraci che, tanti anni prima, rispose alla mia telefonata alla sede del Guado .
Perciò in occasione dei quant’anni del Guado ho deciso chiedergli: “ma tu come hai incrociato il cammino del Guado?“
Diciamo che i miei incontri con il Guado sono stati due. La prima volta è stato nel 1988, quando ho deciso di partecipare a un incontro del sabato. Non mi ricordo nemmeno bene di cosa si parlasse. Ricordo invece di aver conosciuto subito don Goffredo Crema, il prete di Cremona che allora seguiva il gruppo.
In realtà avevo già provato ad andarci il mercoledì precedente, durante le serate dedicate all’accoglienza. Al telefono mi avevano spiegato che non c’era un citofono e al portone non c’era nessun campanello. Per entrare occorreva suonare un campanello che si trovava vicino a una delle finestre del seminterrato in cui c’era la sede del Guado in Via Pasteur 24.
Io sono arrivato ma non me la sentiva di abbassarmi a suonare quel benedetto campanello perché non volevo che nessuno mi vedesse mentre lo facevo. E così ho fatto avanti indietro tre o quattro volte nella speranza che la strada si svuotasse. Ma via Pasteur è molto lunga e quindi c’era sempre qualcuno che stava arrivando da uno dei due lati. Il risultato è che, dopo cinque o sei passaggi davanti a quella benedetta finestra ho deciso di tornarmene a casa.
All’epoca vivevo davvero male la mia omosessualità. Ero terrorizzato all’idea che qualcuno la scoprisse e soprattutto ero convinto che tutti gli omosessuali fossero dei maniaci.
Durante il mio primo incontro al Guado, comunque, mi sono commosso molto durante la messa celebrata nello scantinato da don Goffredo. Purtroppo quella parentesi mistica si è polverizzata dopo la messa, quando un uomo molto distinto si è avvicinato e mi ha fatto dei complimenti piuttosto espliciti.
In quel momento ho pensato che io, al Guado, non sarei tornato più, dando così retta al mio direttore spirituale che mi aveva detto che partecipare agli incontri di certi gruppi significava «mettersi in occasioni prossime di peccato». Ci sono tornato dopo qualche anno (credo che fosse il 1993), quando lo stesso direttore spirituale che mi aveva parlato delle «occasioni prossime di peccato» vedendomi molto in crisi mi ha detto che forse era il caso di confrontarmi con altre persone come me.
Il secondo incontro è stato molto più tranquillo, anche perché ho deciso di andarci il mercoledì sera, quando si rispondeva al telefono amico e si faceva accoglienza (il sabato non potevo più, perché avendo comprato nel frattempo una libreria, dovevo lavorare).
Ho trovato Roberto Crespi che mi ha messo subito a mio agio e ho continuato ad andare al Guado ogni mercoledì. Parlando del più e del meno ho saputo che in luglio ci sarebbe stato un campo su Fede e Omosessualità presso il centro ecumenico valdese di Agape e così ho deciso di iscrivermi. Da quel momento in poi posso dire che il Guado è diventato una seconda casa per me.
Cosa ti ha dato questo incontro
Dopo il campo di Agape del 1994 il Guado ha attraversato un momento di crisi dovuta al fatto che don Goffredo aveva deciso di far partire un gruppo a Cremona. La messa privata che il gruppo era abituato a celebrare presso la sua sede non si poteva più fare e questo ha fatto sì che parecchie persone lo lasciassero dicendo che: «Senza la messa il gruppo non è più un cattolico».
In più era appena diventato presidente Francesco,un ragazzo molto giovane che aveva rapporti piuttosto tesi con una buona parte dei soci storici che, invece, era piuttosto anziana. Incontrare il Gruppo del Guado in questa fase mi ha responsabilizzato e mi ha fatto capire che, se volevo che ci fosse un gruppo di omosessuali credenti a Milano, dovevo fare la mia parte perché il Guado continuasse la sua esperienza. Direi quindi che questo incontro mi ha insegnato a vivere con responsabilità la mia condizione di omosessuale credente.
Quali figure hai incontrato nel tuo cammino col Guado?
Sono tante le figure che ho incrociato nei tanti anni che ho frequentato al Guado. Mi limiterò a parlare di alcune persone che non ci sono più e di cui ho tanta nostalgia. Sarebbero parecchie. Ne ricordo tre.
La prima è Adriano Papaleo, un professore di matematica che aveva qualche anno più di me. Io, nei suoi confronti ero molto freddo: avevo paura che ci volesse provare. Con il tempo ho poi capito che la sua cordialità aveva un unico fine: quello di aiutare chi era nuovo ad ambientarsi in un gruppo piuttosto numeroso (all’epoca eravamo una cinquantina di soci) dove le dinamiche interpersonali erano già piuttosto consolidate e dove, quindi, una persona appena arrivata ci metteva un po’ di tempo per “sentirsi a casa“. Quando è morto e sono andato al suo funerale ho capito che avevo perso un amico e gli ho chiesto scusa per la diffidenza con cui l’avevo trattato nei primi mesi in cui frequentavo il Guado.
La seconda è Marino Bonino, una persona semplice, un fuochista che però aveva la schiettezza e la capacità di comunicare allegria di chi ama la vita. Purtroppo un tumore se l’è portato via in pochissimo tempo e ricordo ancora le parole del suo compagno Enrico (la loro relazione durava da più di vent’anni). Citando Giobbe, dopo il funerale, mi ha detto piangendo: «Dio me l’ha dato. Dio me l’ha tolto. Sia fatta la volontà del Signore». Ecco! Una testimonianza di fede così grande io l’ho vista poche altre volte.
La terza è invece Giacomo Riva, una persona molto fine con cui all’inizio ho avuto un rapporto burrascoso. Lui era davvero un “animale da salotto“: sapeva fare conversazione in maniera amabile parlando di argomenti leggeri per poi arrivare a discorsi più profondi con grande nonchalance.
Io che all’epoca ero un “piccolo talebano” molto fermo nelle mie opinioni non potevo sopportare questa sua capacità di stemperare i discorsi per evitare gli scontri. Una capacità che, in decenni di frequentazione, mi ha insegnato ad apprezzare e, soprattutto, a coltivare (tenendo conto che, con il mio carattere spigoloso, non diventerò mai una persona amabile come lui.
Come immagini il futuro del Guado alla luce del cammino in corso nella chiesa e nella società italiana?
Una cosa che spesso ripeto, parlando del Guado, è che «la qualità del nostro stare insieme dipende in larga parte dalle nostre qualità personali e dal modo in cui le investiamo nel gruppo». E nei quasi trent’anni di frequentazione del Guado ho assistito a parecchi cambiamenti.
Quando sono arrivato la presenza di un prete come don Goffredo aveva messo al centro dell’esperienza del gruppo la celebrazione dell’Eucaristia nella nostra sede. Quando lui abbiamo dovuto reinventare il nostro modo di camminare insieme: da un lato abbiamo puntato sulla visibilità del gruppo al di fuori degli ambienti molto ristretti in cui era conosciuto, dall’altro si è valorizzata l’esperienza conviviale della cena comunitaria che è progressivamente diventata sempre più importante anche perché alcune persone che erano arrivate al gruppo avevano una professionalità legata al mondo della ristorazione.
Per parecchi anni, tra i nostri soci, c’erano persone che provenivano dal mondo dello spettacolo e questo, a un certo punto, ci ha portati ad avere un vero e proprio gruppo teatrale che ha vissuto il suo momento di apoteosi quando, in occasione del nostro ventesimo compleanno, si è esibito nell’auditorium dell’ex manicomio di Milano davanti a centinaia di persone.
Il cineforum che va avanti ormai da tanti anni è possibile solo perché c’è l’impegno di Luciano Ragusa (che è anche l’attuale presidente). I tanti momenti in cui ci siamo confrontati con l’arte sono merito di Roberto Crespi. La rete di relazioni che, come gruppo, abbiamo costruito è il risultato degli interessi che tante persone hanno condiviso all’interno del gruppo.
Fino a qualche tempo fa c’era un problema anagrafico, legato al fatto che chi aveva trent’anni nel 1980 adesso di anni ne ha settanta. La nascita, nel 2018, del gruppo giovani, è stato un segnale di speranza nel fatto che la nostra esperienza, forse continuerà ancora. Naturalmente questi giovani sono molto diversi dai vecchi soci: sono più attenti alla dimensione religiosa, per esempio, che vivono con più tranquillità e con meno conflitti.
Sembrano meno interessati, invece, al grosso dibattito che è in corso nel mondo LGBT+ sulla natura stessa delle “diversità sessuali” (il motivo potrebbe essere legato anche al fatto che questo dibattito è diventato molto frammentario e complicato da seguire).
Non so come sarà il Guado tra dieci anni. Il sogno finale è che i gruppi come il Guado, alla fine, cessino di esistere, perché essere visibilmente omosessuali nelle nostre comunità parrocchiali non è più un problema e perché l’affettività omosessuale è uno dei tanti aspetti di cui si parla nella vita delle parrocchie. Ma non so se si si arriverà mai a questo. Ancor meno so se io riuscirò a vedere questo.
Cosa consiglieresti a un cristiano LGBT che vive il conflitto di non riuscire a conciliare la fede e la sua omosessualità?
Direi le stesse cose che dicevo trent’anni fa e che sono poi le stesse cose che hanno aiutato me. Il primo consiglio è di leggere qualche libro che, alla luce della tradizione della chiesa, gli faccia capire due cose: la prima è che la fede non si riduce alla morale e che quindi ha senso viverla in pienezza anche quando non si è in grado di seguire le indicazioni morali che la chiesa dà; la seconda è che nel decidere cosa è giusto o cosa non è giusto fare il primo magistero che dobbiamo seguire è quello della nostra coscienza morale al cui giudizio, come insegna il Catechismo della Chiesa cattolica, «l’essere umano deve sempre obbedire» (CCC 1800).
Il secondo consiglio è di costruire una rete di amicizie in cui può condividere senza problemi anche la sua omosessualità. Non è assolutamente detto che questa rete debba essere composta solo da altri omosessuali credenti: può comprendere anche persone eterosessuali o persone che non hanno il dono della fede: la cosa importante è che ci sia la possibilità di una comprensione e di una condivisione a tutto tondo.
Il terzo consiglio che gli darei è quello di non smettere mai di pregare, privilegiando, nei limiti del possibile, la preghiera silenziosa di adorazione. Stando in silenzio davanti al Signore e chiedendogli di guarire dalla mia omosessualità (sì, tanti anni fa pensavo di dove guarire dalla mia omosessualità) mi sono accorto che, alla fine, sono davvero guarito non tanto dall’omosessualità, ma dai sensi di colpa con cui la vivevo.