Don Giacomo Stinghi: sull’omosessualità la chiesa faccia i conti con la storia
Articolo di Marco Zerbino tratto da Adista Notizie n.39 del 3 novembre, p.9
Da anni impegnato nel sociale, soprattutto nel campo della lotta alla droga, don Giacomo Stinghi è parroco della chiesa della Madonna della Tosse a Firenze. La sua comunità è frequentata da diversi fedeli che hanno scelto di non nascondere il proprio orientamento omosessuale e che partecipano a pieno titolo alla vita della parrocchia. In passato, la chiesa ha ospitato le veglie contro l’omofobia organizzate dal gruppo di omosessuali credenti fiorentini Kairòs (v. Adista n. 44 e 93/11 e Adista Notizie 20/12).
Insieme a don Alessandro Santoro, don Fabio Masi e suor Stefania Baldini, Stinghi è fra i firmatari delle due lettere indirizzate all’arcivescovo di Firenze con le quali i quattro religiosi hanno inteso sollevare, nelle ultime settimane, il tema dell’accesso delle persone omosessuali all’eucaristia.
Com’è nata, la prima volta, l’idea di scrivere all’arcivescovo?
Quando Toscana Oggi uscì con una paginata in cui venivano dette le solite cose sull’omosessualità, fu inizialmente don Santoro a venire da me, sostenendo che, come sacerdoti impegnati sul tema, dovevamo in qualche modo prendere una posizione. Quindi abbiamo coinvolto anche don Masi e suor Stefania Baldini, scrivendo una lettera che, in realtà, noi volevamo arrivasse all’arcivescovo e a Toscana Oggi prima che agli altri giornali, visto che ci interessava sollevare il problema a livello diocesano. Siccome però l’abbiamo fatta girare nelle nostre comunità per raccogliere le adesioni, che alla fine sono state 623, non poche, qualcuno l’ha data a Repubblica prima del tempo.
Dopo quella prima lettera qual è stata la risposta della curia?
Innanzitutto va detto che il testo è stato poi pubblicato per intero anche da Toscana Oggi, corredato tuttavia da due boxini. In uno dei due c’era un testo non firmato nel quale venivano di nuovo riproposte le tesi del Catechismo sull’omosessualità. Io personalmente, poi, sono anche andato dall’arcivescovo proponendogli un incontro con i membri del gruppo Kairòs, il gruppo di omosessuali credenti che ho ospitato più volte nella mia parrocchia. Betori, tuttavia, non ha mai risposto a quella proposta di incontro, mentre ha mandato una lettera a me personalmente nella quale ribadiva le posizioni di sempre.
Eppure una risposta a tutti voi, sia pure indiretta, il cardinale l’ha data parlando all’eremo di Lecceto…
Sì, io in quell’occasione ero presente ed era chiaro che il riferimento era a noi, anche se non ha fatto nomi. Si è trattato di una risposta piuttosto scontata, perché anche in questo caso ci ha risposto con il Catechismo. Ma, come abbiamo scritto anche nella seconda lettera, il Catechismo noi lo conosciamo già, non è quello il punto. Il punto è che volevamo suscitare un dibattito, un dialogo franco. Non solo e non tanto noi, quanto soprattutto le 623 persone che avevano firmato la prima lettera. Si tratta del suo popolo, una risposta, a loro, Betori dovrebbe darla. Invece sembra che l’atteggiamento finisca per essere sempre lo stesso: si lascia cadere, si fa finta di non aver visto.
E arriviamo così a questa seconda lettera…
Esatto. Stavolta, siccome in precedenza dalla Curia non era arrivata nessuna risposta, abbiamo deciso di mandare entrambi i testi a tutti i preti di Firenze e ai consigli pastorali. Anche in questo caso, però, per il momento non abbiamo avuto nessuna reazione. Corrono voci di sanzioni, visto anche che la messa celebrata da don Alessandro domenica scorsa ha avuto una certa eco. Devo dire che quella di chiamare la stampa in quel preciso momento è una scelta dalla quale io dissento, anche se mi riconosco pienamente nelle due lettere che abbiamo scritto insieme. Penso che quello che dovevamo dire lo abbiamo detto lì. Insomma, io avrei evitato…
Stavolta parlate apertamente di «obiezione di coscienza» al magistero in relazione alla somministrazione dei sacramenti agli omosessuali dichiarati. Come siete arrivati a questa scelta controcorrente? In genere si tende a far finta di niente…
Ma è proprio questo il punto! Si non caste, saltem caute. Noi tutti ci siamo formati a suon di massime come questa. Vuol dire, sostanzialmente: «Se non puoi essere casto, per lo meno fai attenzione”. Attenzione a che non si sappia in giro, ovviamente… Noi abbiamo voluto sollevare il problema in pubblico proprio perché non ci va giù questa ipocrisia, purtroppo ancora oggi molto diffusa all’interno della Chiesa. Le cose si possono fare, la comunione agli omosessuali e ai divorziati risposati la si dà, però non bisogna dirlo.
Cioè, invece di assumere il fatto che evidentemente c’è un problema, invece di parlarne apertamente, ancora una volta si fa finta di niente per salvare le apparenze. Noi, invece, che la comunione agli omosessuali e ai risposati la diamo da anni vogliamo poterlo dire, perché riteniamo che la Chiesa nel suo complesso sia chiamata ad una riflessione e a una crescita, su queste questioni.
Del resto, si tratta di norme anche di difficile applicazione. Se uno viene a messa e vuole fare la comunione, io che dovrei fare? Chiedergli prima se è omosessuale? Questi sono temi che vanno affrontati parlandone apertamente, non nascondendo la polvere sotto il tappeto.
Ma l’atteggiamento di mettere tutto a tacere per salvare le apparenze non è certo un fatto nuovo, per quanto riguarda le gerarchie…
Certo, ma è profondamente dannoso per la Chiesa stessa. Pensiamo a quanto sarebbe stato meglio se, sulla questione della pedofilia del clero, la Chiesa avesse affrontato apertamente e per tempo la questione, invece di far finta di niente per anni! Il punto è riconoscere che il magistero stesso è cambiato nel corso della storia, anche in relazione al progresso scientifico. Enrico Chiavacci tempo fa ha scritto un libro su Chiesa e omosessualità che esemplifica bene quello che è l’atteggiamento che ci dovrebbe guidare. Il sottotitolo era: “Cercare ancora…”.