“Otto. Tutti siamo tutti”. Vite diverse, ma l’amore è lo stesso
Dialogo di Katya Parente con la scrittrice Roberta Calandra
Siamo esseri in qualche modo infiniti? Esiste la vita dopo la vita? Quali scherzi ci può giocare il tempo? Questi sono alcuni dei quesiti alla base del nuovo romanzo di Roberta Calandra, “Otto. Tutti siamo tutti”, Edizioni Croce, (2020, 272 pagine ) uscito da qualche mese.
Dopo “L’eredità di Anna Freud” (una delle madri della pedagogia novecentesca, oltretutto lesbica), Roberta Calandra ritorna in libreria con un nuovo lavoro tratto dallo spettacolo teatrale omonimo, la cui drammaturgia ha vinto il “Premio inediti Elsa Morante 2012”. Concentriamoci adesso sul libro, e partiamo subito con le domande a Roberta.
Qual è il fil rouge che collega le storie di “Otto”?
Il filo metaforico è una collana di perle che si spezza, dividendo i protagonisti di una storia con una morte, che li accompagna però a ritrovarsi nel secolo successivo e ad avere una nuova occasione di amore. Il filo psicologico-emozionale è l’amore passionale: quella scintilla illogica che ti fa sentire irrimediabilmente attratto verso qualcuno, senza conoscerne i motivi, e disponibile per questo a sfidare i tuoi limiti precostituiti.
Poi ci sono le grande trame della Storia, che li accompagna e li scompagna in frangenti complicati, creando ogni volta una forte pressione verso l’incontro come verso la separazione, questo perché credo che non si possa pensare a un’idea di libertà personale totalmente indipendente dai condizionamenti del proprio tempo, anche se ognuno di loro è a suo modo un gigante, che segna il limite di un tempo per accennarne un altro, quello che fa il Genio.
Senza svelare la trama, le storie sono, per un verso o per l’altro, decisamente queer. Perché questa scelta di racconti?
Possiamo felicemente svelare che “Otto” parte da una sorta di equazione matematica ovvero “Orlando per 4”. Sono dapprima un uomo e una donna, poi due uomini, poi due donne, poi un uomo e una donna scambiati rispetto alle posizioni di partenza. Due storie sono dunque omosessuali in senso letterale, le altre due scompigliano i criteri del genere, così che la bella rivoluzionaria sarà alla fine un ragazzone pieno di arroganza e di entusiasmo, e nessuno è meglio o peggio di qualcun altro.
Ovviamente ogni materia androgina mi affascina in modo particolare, probabilmente perché lo è anche la mia psiche, il mondo che abito, le persone che mi piacciono, le opere che mi seducono; ogni storia ha ragioni profonde nel cuore e nell’anima di chi le crea, o forse meglio, le intercetta nell’aria al tempo giusto e le ritrasmette al mondo.
Il sottotitolo dell’opera è “Tutti siamo tutti”. Ci puoi spiegare questa connessione? È solo spirituale o, come sembra a tratti, anche a livello fisico?
Che l’interconnessione sia la vera chiave di percezione della realtà che abitiamo è ormai un fatto certo. Lo è per la scienza, la religione, la psicologia, malgrado ogni cosa sembra spinga per dividerci e metterci l’uno contro l’altro, ma io voglio credere che siano i colpi di coda – stupidi e cattivi – di un modo di esistere che finirà: prova ad entrare in una stanza dove tutti sono tristi e arrabbiati, come ne esci? E lo stesso vale per il contrario.
Gli stati vitali sono trasmissibili, l’amore, in questo senso sì, quello generico è un grandissimo trascinatore di idee, eventi, cambiamenti. Poi il sottotitolo riguarda anche il fatto che spesso giudichiamo duramente qualcuno o qualcosa, per poi ritrovarci ad agire proprio in quel modo, in quel ruolo… i miei poveri protagonisti sono trascinati e condannati dalla Legge della Vita, del Karma, del Dharma, chiamala come vuoi, a conoscere tutto quello che hanno rifiutato in una “versione precedente”, e questo li fa evolvere.
In piccolo, quello che capita a ogni persona di buona volontà che sia disponibile a vivere sul serio, in una ricerca onesta, al di là dei luoghi comuni che i modelli sociali vorrebbero imporre per rassicurare, senza riuscirci.
Il libro è l’adattamento di una pièce teatrale. Che differenza c’è, se esiste, tra le due versioni?
L’idea nasce in realtà da una sceneggiatura cinematografica, ridotta poi per il teatro nel 2012 e felicemente rappresentata con la regia di Antonio Serrano presso il Teatro dei Conciatori e la Keats and Shelley House di Roma. L’Italia è un paese strano, non sai mai cosa potrebbe diventare qualcos’altro, dunque quando più di una persona – illustre, come non particolarmente tale – mi ha chiesto: “Perché non ne fai un romanzo?” ho pensato che non sbagliasse, che sarebbe stata quella la forma migliore, più piena per rendere tutte le sfumature, anche sottilmente ironiche e paradossali, che avevo in mente.
Ma il grande sogno è che “Otto” diventi un film, o anche un film tv in quattro parti, stile HBO; ma anche, perché no, una graphic novel o un musical: “Otto” ormai per me è una sorta di format universale, aperto, come l’universo quantico, a infinite possibilità.
Diversi media (palcoscenico, parole, segno grafico, schermo) per una storia ambiziosa, che ci prende per mano accompagnandoci in quattro periodi storici diversi, con protagonisti diversi, spinti tutti quanti da un’essenza che li accomuna: la natura umana.