Enzo Bianchi, Bose e l’uccisione simbolica del suo fondatore
Riflessioni di Massimo Battaglio
Innanzitutto una premessa: perché occuparsi dei guai di Enzo Bianchi e della comunità di Bose su un portale dedicato al rapporto tra fede e persone lgbt? In una parola, direi: per una questione di gratitudine.
Per molti di noi, Bose è un luogo amico, in cui abbiamo trovato e continuiamo a trovare accoglienza e preparazione, due tesori rarissimi. E’ già difficile trovare comunità religiose che, sui nostri temi, abbiano voglia di andare oltre un’ipocrita tolleranza e si sforzino di mettersi sinceramente in ascolto. Ancora più raro è che si impegnino a rendersi accoglienti. Trovare anche la preparazione necessaria perché l’accoglienza non resti una pia intenzione, è quasi illusorio.
A Bose, c’è gente che studia sul serio, liberamente, senza preoccuparsi che le sue fonti siano nobilitate o meno dal timbro cattolico. Da Bose non escono giudizi contro il mondo ma tutt’al più critiche feconde, parole profetiche e liberanti.
D’altra parte, Bose ha sempre coltivato il valore dell’apertura, non solo intellettuale. Nasce come comunità ecumentica – non come monastero cattolico – in cui qualunque persona di buona volontà può portare il contributo del suo vissuto. Questo carisma porta due frutti opposti ma entrambi importanti. Da una parte, favorisce l’ingresso di tante persone che provengono dai margini della Chiesa. Dall’altra, permette anche il loro eventuale ritorno nel mondo, qualora realizzino che questa sia la loro reale vocazione.
Il secondo frutto è importante perché non è affatto scontato, in particolare per una persona omosessuale. Provo a spiegarmi. E’ abbastanza consueto che un ragazzo alle prese con la scoperta di una propria singolarità sessuale, provi il desiderio di avvicinarsi a un’esperienza monastica. Purtroppo però, è ben difficile che riesca a non farsi fagocitare. Ancora oggi, l’unica soluzione prospettata in certi ambienti per chi si fa portatore di una sessualità “non conforme”, è quella della repressione sessuale. Il monastero diventa così un falso rifugio, dal quale è impossibile uscire senza essere additati come falliti o traditori.
Bose non è del tutto esente da questo vizio ma almeno prevede percorsi sia in entrata che in uscita. Ho conosciuto persone che, chiaritesi con se stesse, hanno lasciato la comunità in tutta serenità. Si sono fatte una famiglia, arcobaleno o a tinta unita che fosse, e hanno mantenuto un legame proficuo e affettuoso con gli ex-fratelli. Ed è una cosa rara.
La gratitudine che io provo per Bose, ora non può che lasciarmi sgomento di fronte alla crisi culminata nella cacciata del suo fondatore, Enzo Bianchi.
Per chi non è addentro, provo a sintetizzare. Negli ultimi anni, Bose è molto cresciuta, come qualunque famiglia feconda. E la convivenza è stata sempre più difficile, proprio come in un’associazione che diventa sempre più numerosa. I nuovi fratelli portavano una cultura diversa da quella dei fondatori. Si è creato un conflitto generazionale. Inoltre, i continui attacchi esterni che arrivavano da chi non ne capiva l’originalità o ne provava invidia, hanno acuito i contrasti.
Con la rinuncia di Enzo Bianchi – per motivi di età – al rinnovo dell’incarico di priore, le tensioni si sono polarizzate e personalizzate. Da una parte, coloro che volevano preservare il carisma originario hanno continuato a fare riferimento all’ex priore. Dall’altra, il nuovo, Luciano Manicardi, anziché ricomporre le parti, ha sempre parteggiato per le nuove generazioni. La situazione è degenerata finché lo stesso Manicardi si è rivolto nientemeno che alla Santa Sede perché inviasse un mediatore esterno.
Il Vaticano ha incaricato a questo scopo una delegazione formata da due abati (un uomo e una donna), coordinati da un consultore della Congregazione per i religiosi, padre Amedeo Cencini.
La risoluzione caldeggiata da don Cencini e avallata dal Segretario di Stato Vaticano Parolin, è stata la più spietata che si potesse immaginare. Enzo Bianchi è stato allontanato dalla famiglia che aveva creato. Con lui, sono stati licenziati i tre monaci che gli erano più vicini. I quattro sono stati spediti in Toscana, in una casa in cui aveva sede una delle fraternità affiliate, che è stata sciolta.
Per maggior cattiveria, è stato vietato ai quattro di mantenere qualsivoglia rapporto con gli ex-confratelli. Si è addirittura proibito loro di fare riferimento a Bose nei loro indirizzi, nei siti internet e persino sui cartelli stradali. Una roba che ricorda le sentenze di Bernardo Gui ne “Il Nome della Rosa“.
Provvedimenti di questa pesantezza vengono presi, di solito, quando si verificano fatti veramente gravi, di rilevanza penale e di pubblico scandalo. Non esiste memoria di una comunità così maltrattata semplicemente per questioni di litigiosità interna. Perché allora proprio a Bose?
Alcuni commentatori hanno sostenuto che, sul priorato biellese, si sia abbattuta una scure pronta da tempo. Tesi credibile poiché Bose, con la sua libertà, il suo restare fuori dagli schemi e il suo coraggio di denunciare cose scomode, si è attirata negli anni l’ira di molti. La stessa profonda cultura dei fratelli di Enzo Bianchi ha sempre suscitato parecchie invidie. Invidie acuite dal fatto che il numero di novizi accolti negli anni è ben superiore a quello di qualunque seminario diocesano.
Altre personalità intervenute nel dibattito hanno sottolineato (a mio parere, con ragione) che Cencini sia stato il “visitatore” più sbagliato che si potesse individuare. Sembra in effetti che l’inviato vaticano abbia avuto, come principale preoccupazione, non quella di ricomporre le parti ma di dimostrare i propri teoremi, peraltro, piuttosto curiosi.
Forte dei propri studi di psicologia (nemmeno molto aggiornati), padre Amedeo si è già distinto altre volte per l’applicazione rigososa – e quasi pedante – delle teorie freudiane, alle dinamiche delle comunità religiose. Egli teorizza – e ha ripetutamente scritto – che, per raggiungere una maturità, una fraternità ha bisogno di passare per la “uccisione simbolica” del fondatore. In questo è contestato da tutto il consesso degli psicologi ma lui continua, ogni volta che è chiamato in causa, ad applicare la sua dottrina.
Il nostro caso dimostra in realtà una cosa sola: quanto sia sbagliato e penoso buttare tutto sullo psicologico senza tenere conto di tutta la complessità di ogni singola situazione.
Di più, padre Cencini sembra uno di quegli psicologi “vecchia maniera”, che fanno risalire tutto al sesso. In un suo recente scritto sulle dinamiche dei nuovi monasteri, parla dei difetti dei fondatori con queste parole:
“A volte [sono] non solo poco ispirati, ma con tratti seri di immaturità psichica e spirituale, specie nell’area del potere e della sessualità, che li ha portati a gravi comportamenti con relativi abusi della loro posizione e delle persone loro affidate”.
Sono accuse enormi. Ma se si passa a parlare in particolare di omosessualità, Cencini ci fornisce un saggio perfetto della sua incapacità di aggiornamento. In uno scritto espressamente dedicato, afferma quanto segue:
“É necessario sapere, in concreto, se si tratta di qualcosa che affonda le sue radici nella prima infanzia e nel rapporto di mancata identificazione col genitore dello stesso sesso (=omosessualità strutturale), oppure se la tendenza è legata ad uno scompenso o a un blocco (arresto) evolutivo nel passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza (e sarebbe, in tal caso, omosessualità non strutturale, con miglior prognosi)”.
I lettori di Gionata non hanno bisogno di spiegazioni per riconoscere, nella tesi del sacerdote-psicologo, affermazioni tipiche dei primi psichiatri dell’ottocento. Ed è sconcertante che un inviato della Santa Sede che si attarda in speculazioni così antiquate.
Spero, insieme a tanti, che l’ottuagenario ex-priore abbia ancora la forza e lo spirito di volare al di sopra delle condanne. Attendo i suoi prossimi scritti. Desidero ancora i suoi interventi radiofonici o televisivi, le sue parole che guardano avanti sospinte dal Vangelo. E mi auguro che Bose sappia fare tesoro della disgrazia che sta passando e torni a essere fedele soprattutto a se stessa.
Nella regola della comunità, si legge così:
“Fratello, sorella, uno solo deve essere il fine per cui scegli di vivere in questa comunità: vivere radicalmente l’Evangelo. L’Evangelo sarà la regola, assoluta e suprema”.
E più avanti:
“L’Evangelo resta per te, per gli altri, per la comunità intera la sola legislazione ispiratrice di decisioni. Se tu puoi invocarlo contro una decisione della comunità, è tuo dovere assoluto farlo”.