Il Libano, un paradiso imperfetto per i rifugiati LGBT
Articolo di Don Duncan tratto dal sito Salon.com (Stati Uniti) del 16 novembre 2012, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
I servizi segreti algerini aveva dato alla transessuale Randa Lamri un ultimatum: lasciare il Paese entro dieci giorni o rischiare la prigione e la diffamazione della sua famiglia. Lamri, come altri gay, lesbiche e transessuali perseguitati nella regione, guardava a Beirut come a un rifugio.
“Ero spaventata per la mia incolumità e per il futuro della mia famiglia” dice la trentanovenne Lamri, che è arrivata in Libano con un visto turistico e ha immediatamente fatto richiesta per un permesso di lavoro per potersi trattenere più a lungo.
Lamri è una dei fondatori di una associazione algerina clandestina per i diritti di lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali (LGBTI) chiamata Abu Nahas. Lo stile di vita di Lamri aveva cominciato ad attirare minacce di morte anonime da parte di gruppi islamisti e chiamate e visite frequenti, sul posto di lavoro e a casa, da parte delle autorità. Alla fine la pressione è diventata troppo forte per lei.
“Mio cognato mi ha detto che se fossi morta o andata in prigione e ne avessero saputo il motivo, la mia famiglia sarebbe caduta in disgrazia e lui avrebbe divorziato da mia sorella” dice Lamri davanti a un caffè in un locale nella parte orientale di Beirut. È alta, capelli lunghi e nerissimi, parla in un sussurro e qua e là ridacchia tra i denti.
Come le molte decine di persone LGBTI che sbarcano in Libano dal Medio Oriente e dall’Africa del Nord ogni anno, Lamri si è inserita in una rete di conoscenti, molti dei quali già conosciuti in Algeria tra gli attivisti. Sollevata di essere sfuggita ai pericoli che doveva affrontare nel suo Paese, Lamri si è inserita subito nella nuova libertà del Libano.
“Molto meglio stare qui che in Algeria” dice. “Là, vestirsi da donna può portarti in carcere, da tre mesi a tre anni. Qui non ci sono leggi contro il transessualismo.”
Molti rifugiati LGBTI devono partire dal loro Paese talmente in fretta che non hanno il tempo di aspettare due mesi per ottenere il visto per l’Europa o il Nordamerica. Così il Libano è per molti l’unica destinazione possibile. La procedura per il visto è più semplice (molti lo ottengono all’arrivo in aeroporto) e la capitale Beirut gode della fama di essere una città liberale e relativamente gay-friendly.
“Credo che il primo posto a cui pensano [se non possono andare in Europa o Nordamerica] sia Beirut, soprattutto perché ci sono strutture LGBT” dice Rasha Moumneh, ricercatrice di Human Rights Watch per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Ci sono organizzazioni LGBT, c’è l’Agenzia ONU per i Rifugiati, che è molto attenta alle esigenze dei rifugiati LGBT.”
Le “strutture LGBT” citate da Moumneh includono l’unica ONG LGBT apertamente attiva nella regione, Helem, e servizi come ReStart, una clinica che offre sostegno psicologico per i rifugiati che hanno vissuto condizioni traumatiche, un ufficio per rifugiati specializzato nelle esigenze specifiche e nelle vulnerabilità della comunità LGBTI, una vivace scena gay di bar, locali e nightclub. “Non pensavo che il Libano sarebbe diventato così liberale” dice Lamri, arrivata nel Paese nel 2009.
È difficile dire quanti tra gli LGBTI che lasciano il proprio Paese arrivano ogni anno in Libano. Temendo di essere rispediti a casa, molti si guardano dal registrarsi presso una ONG o presso la UNHCR. Molti tra coloro che si registrano offrono altre motivazioni per l’immigrazione, come la guerra e i conflitti interni per quanto riguarda gli iracheni e i siriani.
L’ufficio della UNHCR a Beirut afferma di occuparsi ogni anno di un paio di dozzine di persone che chiedono lo status di rifugiati per ragioni legate alla sessualità o al cambio di genere. I gruppi che si occupano dei diritti gay citano dati simili ma riconoscono che potrebbero essere solo la punta dell’iceberg. Alcuni attivisti affermano che il numero vero potrebbe essere il triplo di quello citato dalla UNHCR.
Periodicamente i numeri aumentano vertiginosamente, in occasione di sviluppi politici in altri Paesi che costringono alla fuga membri della comunità LGBTI. Una campagna coordinata in Iraq nel 2009, diretta soprattutto contro gli uomini gay, diretta dalla milizia sciita Esercito del Mahdi e da quella sunnita di Al Qaeda in Mesopotamia, pretendeva la testa di centinaia di persone. Era aperta la caccia ai gay iracheni, o alle persone sospettate di essere gay, nel tentativo di “pulire” la moralità dell’Iraq “corrotta” dall’influenza straniera introdotta dall’invasione americana del 2003.
Un rapporto di Human Rights Watch elenca la litania di minacce e torture subite dagli iracheni – persone bruciate vive, impiccate in pubblico, decapitazioni, castrazioni, stupri, ani chiusi con la colla. La campagna fece fuggire centinaia di persone, molte a Beirut.
Hamida, un ventenne gay iracheno che vive a Beirut, era partito già prima della campagna di violenza omofobica del 2009; non tornerà probabilmente mai a casa. La sua famiglia si trasferì in Siria nel 2006 dopo che il suo fratello di undici anni venne rapito da una banda e liberato dietro un riscatto di 60.000 dollari. Hamida (non è il suo nome vero) all’epoca andava ancora al liceo, che finì a Damasco, ma il pagamento del riscatto impedì alla famiglia di mandarlo a Londra a studiare come previsto. Ora studia moda e design a Beirut.
“In Siria non ci si sente sicuri. C’è la polizia segreta che ti controlla” dice nel suo appartamento nel quartiere occidentale di Hamra. “In Iraq pensano che Beirut sia come l’Europa e hanno della città questa immagine di perfezione. Beirut è sicuramente meglio ma non è gran che.”
Hamida, che sfoggia uno sgargiante abbigliamento urbano e una nervosa pettinatura asimmetrica, viene regolarmente insultato per strada a causa del suo look. “Ma come si veste? È un uomo o una donna?” lo deridono alcuni. Altri spendono meno parole: “Frocio”, “Immondizia” o “Ti inculo”.
Da parte sua anche Randa Lamri ha subito simili insulti e in una occasione hanno tentato di stuprarla in un autobus semivuoto.
“Subisco lo stesso livello di molestie da parte degli uomini di qualsiasi donna libanese” dice Lamri. “All’inizio cercano di flirtare, ma quando capiscono che sono una transessuale la barriera di finto rispetto per le donne viene rimossa e diventano molto, molto rudi e aggressivi.”
Molti rifugiati LGBTI che arrivano in Libano tornano successivamente a casa o vengono sistemati in un Paese terzo dalla UNHCR. Ma quelli che rimangono più a lungo cominciano a capire che il Libano non corrisponde al paradiso liberale che si erano immaginati.
“[I rifugiati LGBTI] pensano che in Libano ci sia più libertà, più vita gay, che la gente non li giudichi. Pensano sia OK essere gay in Libano ma la realtà è diversa” dice Mahady Charafeddin, membro dell’ONG Helem e addetto alla protezione dei dati alla Fondazione Araba per la Libertà e l’Eguaglianza (AFE), una ONG che sensibilizza le organizzazioni umanitarie alle esigenze delle persone LGBTI.
“Per tirare avanti [i rifugiati LGBTI] prendono qualsiasi lavoro e talvolta vengono sfruttati per sesso, con il protettore che li minaccia di denuncia se non lavorano per lui. Alcuni vengono arrestati perché senza documenti.”
Lamri venne arrestata dai servizi segreti libanesi nel 2009 con il pretesto che aveva la stessa identità di una persona che stavano cercando di arrestare. Figura ancora come maschio sui documenti. I servizi segreti verificarono che non era la persona che stavano cercando entro 24 ore ma poi la Sûreté Générale, l’agenzia libanese dell’immigrazione, la tenne in cella per 55 giorni per immigrazione irregolare.
Il problema chiave del Libano è che il governo non riconosce lo status di rifugiato. Il Libano non ha mai ratificato la Convenzione dei rifugiati del 1951, che definisce chi è un rifugiato e quali sono i suoi diritti. Il rompicapo sta nel fatto che la UNHCR assegna lo status di rifugiato ai casi appropriati che si presentano a Beirut ma il governo non riconosce ufficialmente questo status. Mentre il governo e la UNHCR hanno raggiunto una sorta di accordo informale che permette all’Agenzia di esercitare una certa protezione, molti rifugiati si ritrovano vittime della mancanza di una posizione regolare di fronte allo Stato libanese.
“Moltissimi rifugiati e richiedenti asilo finiscono per scontare lunghe detenzioni al di fuori della legge perché è scaduto il termine del visto o sono entrati illegalmente” dice David Welin, ufficiale della UNHCR a Beirut. “Noi prestiamo molta attenzione a questi casi [perché] vediamo che in tutto il mondo sono altamente a rischio di violenza e abuso sessuale [all’interno delle prigioni].”
Il trasferimento in un Paese terzo è un processo che può richiedere fino a due anni ma in caso di forte rischio, come quando un rifugiato LGBTI è detenuto, può essere accelerato. Welin cita l’esempio di un transessuale siriano risistemato nel giro di 48 ore.
“La persona era in carcere, detenuta dalle autorità libanesi” dice Welin. “Siamo sempre attenti ai detenuti, qualunque sia la loro situazione, ma spesso con le persone LGBTI lo siamo in modo particolare.”
Il 2009 viene solitamente visto dagli attivisti per i diritti umani di Beirut come una specie di anno d’oro per i provvedimenti di assistenza a favore dei rifugiati LGBTI. Chi arrivava a Beirut riceveva dalle ONG aiuti per la casa e lo stipendio, aiuto psicologico e sanitario. La UNHCR e le sue partner ONG organizzavano operazioni per trasferire molti di essi.
Per un breve periodo la realtà di Beirut ha in qualche modo coinciso con il sogno idealizzato della città che avevano i rifugiati intrappolati nei loro Paesi. Ma a partire dal 2009 il miraggio è gradualmente svanito. I fondi sono stati diminuiti o diretti a beneficio degli LGBTI libanesi invece che dei rifugiati. I programmi specializzati sono stati interrotti e ora c’è molto poco a disposizione per le esigenze dei rifugiati LGBTI. La stella di Beirut rifugio degli LGBTI della regione è in fase calante e sta venendo eclissata da una stella crescente: la Giordania.
Come il Libano, la Giordania non ha ratificato la Convenzione dei rifugiati del 1951 ma ha firmato un Memorandum d’intesa con la UNHCR nel 1998 in accordo con i princìpi base della protezione internazionale, come la definizione di rifugiato e gli obblighi che la Giordania ha verso di essi.
“[In proporzione i servizi sono molti di più] in Giordania perché dal 2003 hanno dovuto far fronte all’urto dei rifugiati iracheni” dice Rasha Moumneh di Human Rights Watch. “Penso che la maggior parte [dei rifugiati LGBTI] andrà in Giordania. L’esperienza di stare qui è stata un po’ difficile [per loro].”
La Fondazione Araba per la Libertà e l’Eguaglianza sta sempre più concentrando il suo lavoro di sensibilizzazione alle tematiche LGBTI in Giordania. “La Giordania sta diventando un centro di raccolta” dice Mahady Charaffedin.
Randa Lamri spera che il suo periodo da rifugiata finisca presto. Ha fatto richiesta di trasferimento attraverso la UNHCR e ha recentemente avuto un colloquio con l’ambasciata degli Stati Uniti con la speranza di trasferirsi là. La sua famiglia crede che ora abiti a Londra e Lamri mantiene i contatti solo una zia via email. È riluttante a far sapere alla sua famiglia dove vive veramente perché teme ancora il potere dei servizi segreti algerini.
Ha un ragazzo libanese che lei chiama il suo “fidanzato” ma che si è trasferito presso la sua famiglia in Michigan. Il suo sogno è stabilirsi negli USA e stare con lui. Nel frattempo, dice, deve semplicemente stringere i denti. “Il mio sorriso è un segno di vittoria” dice “un segno che andrò avanti. E infatti andrò avanti.”
Testo originale: Beirut, an imperfect haven for LGBT refugees