Tra spiritualità e psicanalisi: una riflessione sull’ego
Riflessioni del teologo John McNeill tratte da Adista Documenti del 14 Aprile 2012
Ho scelto di centrare questo mio discorso sulla relazione tra crescita psichica e crescita spirituale, basandomi principalmente sull’impegno di ormai 85 anni di vita a crescere più sano e maturo nella psiche e nello spirito.
Un presupposto fondamentale di questo discorso è che «la grazia costruisce sulla natura» o che, con le parole di sant’Ireneo, «la gloria di Dio è l’Uomo Vivente» (gloria Dei, Homo Vivens). (…).
Se è vero che la grazia di Dio può superare ogni trauma psichico e renderci santi, e che inoltre il modo usuale di agire di Dio è quello di costruire sul substrato della salute psichica, allora ciò che è bene psicologicamente sarà bene spiritualmente e viceversa. Chiaramente, un sistema di credenze che distrugge la salute psichica umana non può servire la gloria di Dio.
(…) Vorrei fare mio, ancora una volta, un famoso detto del saggista francese Montaigne: «Le parole sono tavole scivolose, disposte su una palude: bisogna camminarci sopra con leggerezza, passare rapidamente su di loro per timore di farle affondare sotto di noi». (…).
Il mio sarà uno slalom in mezzo a due prospettive radicalmente diverse come psicoterapia e spiritualità, senza cercare di integrarle o di ridurre una all’altra. Nella migliore delle ipotesi, posso sperare piuttosto di indicare alcuni elementi di continuità e discontinuità tra di esse. In entrambe le discipline, infatti, le parole sono usate per descrivere esperienze interiori che non possono essere oggettivate senza distorsioni.
Le due discipline, inoltre, possono usare la stessa parola con connotazioni del tutto opposte, come, per esempio, il termine “Ego”. Freud ci ha fornito due formulazioni che indicano la direzione e lo scopo della crescita psicoterapeutica: rendere conscio l’inconscio, o, più pienamente, «Wo Es war soll Ich werden», espressione che può essere tradotta letteralmente in «Là dove stava l’Es, ci dovrà essere l’Io», dove “Es” significa ciò che è impersonale e inconscio, mentre “Io” indica il “personale” e la coscienza. (…). Per spostarci in una prospettiva teologica e terminologica, noi “possiamo”, per la nostra libertà, essere co-creatori del nostro vero sé, in collaborazione con lo spirito divino che abita dentro di noi (…).
I traduttori originali delle opere di Freud in inglese hanno scelto di tradurre “Es” e “Ich” nelle parole latine “Id” ed “Ego”. L’Ego è diventato il nome di ogni autentico, libero, cosciente sé individuale, e rafforzare l’Ego dandogli il controllo sulle energie dell’“id” e del “Super-Io” è diventato l’obiettivo della terapia (…).
La parola “Ego”, nella maggior parte delle tradizioni spirituali, è tuttavia vicina al significato opposto.
Nella tradizione occidentale cristiana questa parola è stata usata per indicare la persona immatura, orgogliosa di sé, che non riconosce alcuna dipendenza dagli altri o dalla divinità. Nella tradizione orientale l’Ego fa spesso riferimento all’illusione di un sé “separato” presente sulla via dell’illuminazione. La crescita spirituale consiste, quindi, nel rompere questa illusione e vivere la nostra unità con l’universo.
Ma in entrambe le tradizioni spirituali, occidentale e orientale, un ego forte e sano, nel senso freudiano del termine, è, credo, indispensabile per avere una vita sana e matura a livello spirituale. Dobbiamo possedere saldamente il nostro Ego, prima di poter liberamente lasciarlo andare (o, meglio, permettergli di maturare e trasformarsi). (…).
Il titolo originale che avevo dato a questo discorso era “Toccare le radici più profonde”. (…). L’implicazione era che esistono nelle profondità della psiche umana risorse ancora maggiori di quelle che possono essere scandagliate da una psicologia del profondo puramente laica. Tali profondità di guarigione possono essere raggiunte solo attraverso una disciplina spirituale. La disciplina più efficace che ho scoperto a livello spirituale è la pratica centrata sulla preghiera. (…).
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“POSSEDERE” L’EGO
Sono entrato nel mondo della psicoterapia quando ho iniziato il programma di formazione alla Peale Blanton Graduate Institute di New York, nel 1976. (…). Ho iniziato la psicoterapia perché avevo appena fondato Dignity New York, un’organizzazione per lesbiche e gay cattolici, e avevo compreso immediatamente che non potevo aiutare gli altri senza prima aver tentato di guarire le mie ferite interiori.
(…) Ho avuto la fortuna di scegliere come mio psicoterapeuta Arnold Rachman, un brillante, acuto ed empatico terapeuta, altamente qualificato. (…). Non avevo idea di come fossi stato gravemente ferito durante la mia crescita: dalla morte di mia madre, dalla distanza emotiva di mio padre, dal trauma di crescere come un gay che odiava se stesso, dalla mia esperienza di prigioniero di guerra e dalla mia esposizione ad un modo patologico di vivere la religione. Con l’aiuto di Arnold e di altri esperti, sono stato in grado di portare la maggior parte di queste tematiche ad un grado di consapevolezza e di iniziare così il mio processo di guarigione, liberandomi, con l’aiuto di Dio, dalla morsa patologica che questi traumi esercitavano sulla mia vita. (…).
La prima e più profonda ferita nella mia vita psichica è stata provocata dalla morte di mia madre e dal ritiro emotivo di mio padre, quando avevo quattro anni. (…). Ho cominciato allora a sviluppare un’immagine di Dio soprattutto come oggetto di paura. «L’amore perfetto», ci dice Giovanni nella sua prima epistola, «scaccia ogni timore». Ma io ho vissuto l’esperienza di un terrore quasi paralizzante che scacciava tutto l’amore. (…).
Nel suo libro Psychotherapy and Growth: A Family Systems Perspective, Robert W. Beavers evidenzia la connessione diretta tra il tipo di genitorialità e il grado in cui le proprie convinzioni religiose sono sane o patologiche. Coloro che hanno avuto genitori buoni ed amorevoli saranno aperti ad un messaggio liberatorio d’amore da parte della loro religione, perché i genitori amorevoli rendono inoffensivi i veleni della religione e permettono al bambino di ricevere da essa solo i benefici. Al contrario, i bambini che non hanno adeguatamente sperimentato l’amore dei genitori tenderanno a sviluppare l’immagine di un Dio poco amorevole, cui obbedire per paura. (…).
Una parte del mio processo terapeutico è consistita nel portare ad una piena consapevolezza tutti i sistemi di credenze occulti, assieme ai sentimenti di paura, vergogna, senso di colpa e bassa autostima che li accompagnavano, in modo che potessero essere contrastati dai sani valori religiosi dell’Io cosciente. La mia preghiera preferita, in questa fase, era presa dalla II Domenica di Avvento: «Signore, rimuovi la cecità che mi impedisce di conoscerti, allevia la paura che mi nasconde il tuo volto».
La seconda ferita importante nella mia psiche ha avuto a che fare con la mia omosessualità. Crescere in una famiglia, in una Chiesa e in una cultura omofobe mi ha portato a interiorizzare l’omofobia, determinando una percezione del mio sé molto bassa. (…). A causa della mia omosessualità sono cresciuto pensando che ci fosse qualcosa di radicalmente sbagliato nel mio sé e che la mia unica speranza fosse quella di reprimerlo ed essere conforme alle aspettative della mia famiglia, della Chiesa e della cultura dominante.
Il primo risultato dell’odio verso il mio sé è stato, ancora una volta, quello dell’incapacità di avere fiducia in Dio e nell’universo: come avrei potuto, infatti, nutrire fiducia in un Dio che mi aveva creato in un modo tale che il mio desiderio di raggiungere l’amore risultasse intrinsecamente malvagio? (…). Hans Küng, nel suo libro Dio esiste?, afferma che il fondamento essenziale e il presupposto psicologico della fede è la fiducia. (…). Questa fiducia è la pietra angolare di una personalità psicologicamente sana, senza la quale una vita umana decente è impossibile. (…).
È la fiducia che (…) ci permette di conoscere la gioia e l’estasi della creazione, della natura, dell’amicizia, dell’arte, della poesia, della musica, della danza, del lavoro vissuto in maniera non compulsiva, dello sport non competitivo, di una sessualità al servizio dell’amore.
Un’ulteriore ferita era legata poi all’interiorizzazione dell’omofobia. In ultima analisi, omofobia significa, credo, diffidare della dimensione femminile della psiche e reprimerla. A causa di essa, ho represso i miei sentimenti cercando di vivere tutto attraverso la mia dimensione intellettuale. Ciò ha gravemente compromesso la mia capacità di apertura alla vita spirituale. Dio ci parla in primo luogo attraverso il nostro cuore, vale a dire attraverso i nostri sentimenti. Come scrivevano i teologi medievali, «si può comprendere Dio con la mente? Mai! È possibile cogliere Dio con il cuore? Sempre!». Se veniamo tagliati fuori dai nostri sentimenti, non riusciamo a sentire ciò che Dio ci sta dicendo direttamente, attraverso le nostre esperienze, e per cercare di discernere ciò che Dio vuole da noi diventiamo dipendenti dalle voci esterne. Maurice Blondel ha scritto: «Il nostro Dio abita in noi e l’unico modo in cui possiamo diventare una cosa sola con Lui è quello di diventare tutt’uno con il nostro autentico sé». Poiché il mio sé autentico era un sé gay, il solo viaggio spirituale che potevo intraprendere era quello verso l’auto-accettazione, per cogliere appieno l’occasione che Dio potesse amare l’autentico me.
John Fortunato, nella sua opera più classica sulle spiritualità lesbiche e gay, Embracing the Exile: Healing Journeys of Gay Christians, parla della particolare necessità di una dimensione spirituale nella terapia di lesbiche e gay. Più essi diventano sani e accettano ed amano se stessi, più desiderano uscire allo scoperto. Ma, se lo fanno, devono aspettarsi un rifiuto e una più profonda esperienza di esilio in un mondo eterosessuale. Fortunato afferma che la crescita psicologica e spirituale di una persona gay o lesbica dipende dalla capacità di abbandonare il mito di voler trovare il proprio significato ultimo nelle strutture di questo mondo. Dobbiamo passare attraverso un processo di lutto e di rinuncia del nostro orizzonte di appartenenza e sostituirlo con un più profondo, personale, processo di crescita spirituale.
Ciò a cui le persone gay, in ultima analisi, devono rinunciare è l’ossessione del rifiuto e della necessità di affermare la propria interezza e amabilità: se non è possibile ottenere la conferma della nostra interezza e del nostro giusto posto nell’universo dalle persone e dal contesto, si deve guardare oltre. Non c’è altra scelta che arrivarci per qualche altra strada, attraverso un itinerario più profondo, un contesto più cosmico. (…). E si comincia a capire che cosa intendesse dire Gesù quando disse: «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36).
Il processo spirituale sta nell’accettare il nostro stato di esilio in questo mondo e nell’abbandonare il mito secondo cui possiamo trovare il nostro significato ultimo esclusivamente in questo mondo. Tutto ciò può portarci a conquistare una grande libertà spirituale. E questa libertà può aiutarci a vivere senza paura e in modo realmente autentico in questo mondo. (…).
A volte vorrei somigliare di più gli altri. Mi rendo conto dell’esistenza di una diversità, di una differente comprensione delle cose, di una certa propensione verso il poetico e lo spirituale che, se non eccezionale – e non lo è -, è tuttavia abbastanza forte da allontanarmi dagli altri. Né io esito a dire che ciò abbia un qualche rapporto con l’omosessualità. Le persone come me sembrano spesso avere queste caratteristiche: la ragione che ho ipotizzato è che sono più strettamente in sintonia con la propria “anima” di quanto avvenga di solito… (…). L’infelice esperienza che vivono in molti è quella di non essere in grado di relazionarsi in profondità con gli altri, ma essi non sono consapevoli che il loro problema è la mancanza di comunione con se stessi.
Un’altra ferita profonda che ho dovuto affrontare in terapia è quella della mia esperienza di fante nella seconda guerra mondiale e dei sei mesi vissuti come prigioniero di guerra in Germania. Queste esperienze hanno compromesso la mia già bassa autostima. Provavo una totale inadeguatezza in relazione alle aspettative riposte su di me come soldato e gravemente demoralizzato dal terrore e dalla fame vissuti nel campo di prigionia. Eppure, anche in mezzo a quel dolore e a quel terrore, ho vissuto momenti di consapevolezza della presenza di Dio e dell’amore.
Un esempio di coraggio basato sulla fede mi ha colpito così profondamente da influenzare il resto della mia vita. Alcuni di noi prigionieri, provati dagli stenti, eravamo stati mandati in una fattoria a tagliare legna da ardere. Uno schiavo-operaio dell’Europa orientale stava lavorando vicino a me, mescolando un pastone per gli animali, che includeva patate e carote. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel cibo. Ed egli dovette cogliere la mia condizione di estremo bisogno, perché, appena la guardia distolse lo sguardo, prese dal pastone una patata e me la lanciò. Se la guardia se ne fosse accorta, l’operaio sarebbe stato quasi certamente ucciso. Nascosi la patata nella mia giacca e cercai di accennare un grazie: la sua unica risposta fu quella di fare il segno della croce. Quel segno della croce fu come un lampo in una notte buia. Ecco un uomo che era disposto a rischiare la propria vita per nutrire me, un estraneo, trovando nella sua fede religiosa il coraggio e la libertà dalla sua paura. La mia vocazione al sacerdozio è nata in quel momento. La mia preghiera costante, da allora, fu che Dio mi concedesse il coraggio di non essere governato dalla paura. (…). Sapevo che la mia vocazione avrebbe richiesto da me il coraggio di raggiungere e condividere la sofferenza degli altri. (…).
Se potessi ottenere con la grazia di Dio una profonda consapevolezza dell’amore di Dio nei miei confronti, potrei essere liberato dalla morsa che la paura ha avuto sulla mia vita. (…).
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PERMETTERE ALL’EGO DI TRASFORMARSI
(…) Nella nostra ricerca di auto-realizzazione, secondo Maurice Blondel, ci imbattiamo in una categoria di scelte umane e di azioni che sono allo stesso tempo “necessarie e impossibili”: necessarie se vogliamo raggiungere la piena realizzazione, ma impossibili con i soli mezzi umani. Si tratta di una contraddizione difficile da sanare. Siamo portati ad insistere sul fatto che, se queste scelte sono necessarie per la nostra realizzazione, devono poter essere realizzate mediante le sole capacità umane. E che, d’altro canto, se sono impossibili da raggiungere con mezzi umani, allora non possono essere necessarie. Nonostante tale contraddizione, questa categoria di azioni sorge spontanea all’interno della coscienza nel nostro sforzo di auto-realizzazione. L’unico modo per andare avanti, quando ci imbattiamo in questa contraddizione, è quello di aprirci ad una fonte, paradossalmente, immanente/trascendente di energia e potenza.
(…) L’elemento chiave di questa categoria del necessario ed impossibile è l’azione di amare. L’amore umano autentico è essenziale per la realizzazione umana, ma impossibile con i soli mezzi umani. Per questo la Scrittura ci dice: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,7-8).
(…) Molti analisti tradizionali tenderebbero ad identificare qualsiasi azione impossibile con mezzi umani solo come un’illusione e intenderebbero come loro compito terapeutico quello di liberare i propri pazienti da tali illusioni. (…). Pensiamo alle lettere dell’imperatore stoico Marco Aurelio ai suoi sudditi: «Cittadini, non innamoratevi, perché chi si innamora desidera l’immortalità, ma non è dato all’essere umano di essere immortale. Ricorda, essere umano, che, in un piccolo lasso di tempo, non sarai più niente, e in nessun luogo. Che ti sia di grande consolazione questo pensiero!».
Al contrario, il messaggio cristiano invita sempre ad innamorarsi, a vivere nell’amore, perché l’amore partecipa del divino e di ciò che è immortale per sua stessa natura. Sebastian Moore ha scritto un bel libro intitolato Jesus the liberator of desire. «Quello che noi impariamo da Cristo», scrive Moore, «è la differenza tra la liberazione dal desiderio (quest’ultimo identificato con l’insaziabile sete di auto-promozione dell’ego) e la liberazione del desiderio dalle catene del proprio consueto modo di essere se stessi. Si presentano qui due opinioni contrarie di ascetismo. La visione convenzionale è che esso significa negare noi stessi e le cose che vogliamo. Una visione più esigente e sconcertante è che ascetismo vuol dire far cadere le cose che non vogliamo più, ammettere a noi stessi che non le vogliamo, dando così al nostro viaggio, alla nostra storia, la possibilità di andare avanti». Dire che siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio significa che c’è un desiderio necessario nel cuore umano che cerca l’intimità con Dio per raggiungere una partecipazione alla vita divina. (…).
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LA MIA VITA SPIRITUALE OGGI
Vorrei concludere dicendo qualche parola sulla mia vita spirituale oggi. Ho ormai 85 anni. Ogni decennio della mia vita è stato più felice e più pacifico di quello precedente. Ogni decennio ha portato con sé una maggiore intimità con un Dio di misericordia e di amore e una maggiore fiducia nell’amore di Dio per me. Mentre il mio corpo invecchia, il mio spirito diventa più giovane. So che questo è un dono di Dio di cui sono grato.
Mentre gli anni della mia vita trascorrevano, il mio modo di pregare ha subito un cambiamento radicale: da una preghiera “di testa”, fatta di parole, di concetti, di processi mentali, ad una preghiera del cuore. Dio mi ha dato la grazia di essere sempre consapevole del desiderio insito nel mio cuore di una maggiore intimità con lui. La mia consapevolezza di Dio si basa su ciò di cui mi sento privato, su quello che mi serve e non ho ancora, su ciò che anelo, su ciò di cui ho fame e sete e non ho ancora raggiunto.
Privazione è un concetto paradossale. I filosofi definiscono privazione come “l’assenza di quello che dovrebbe esserci”. Privazione è quindi l’esperienza di “assenza in presenza” o di “presenza in assenza”. (…). Mi piace pensare sia come un pezzo mancante in un puzzle. Se lo vedo, so che è quello, perché vi è un solo pezzo che si inserisce nello spazio vuoto nel mio cuore. «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore non sarà mai in pace finché non riposa in Te!».
La mia conoscenza personale di Dio ha poco a che fare con una dimensione intellettuale. I grandi mistici raccomandano nella preghiera che dovremmo svuotare la mente di pensieri e concetti e immergerla nella nube della non-conoscenza. La mia conoscenza di Dio viene dalla fame e dalla sete che è in me. (…).
La mia vita di preghiera consiste, quindi, nell’essere costantemente in contatto con quella fame e quella sete, (…) per consacrarla convertendola intenzionalmente in preghiera. (…). Ho chiesto continuamente a Dio di venire a incontrare la privazione profonda dentro di me. Io sono come un deserto in attesa che arrivi la pioggia. Di conseguenza, la mia preghiera è continua.
(…) Sono consapevole del fatto che essere in contatto con questo desiderio è già una sorta di consapevolezza di Dio attraverso la privazione. Questa consapevolezza è dono di Dio e promessa. Tutti gli altri momenti di intimità nella mia vita – quella familiare, quella che nasce dall’amicizia, quella con il mio compagno degli ultimi quarantacinque anni, Charlie – sono anticipazioni di quella intimità finale. L’unica intimità che può in ultima analisi soddisfare le mie esigenze e riempire il mio cuore è l’intimità con Dio. (…). La più difficile lotta spirituale, per me, è il tentativo di porre il centro di me stesso in Dio e nell’amore di Dio contro la fame vorace del mio ego di farsi il centro dell’universo.