Quante bugie ci dicono sul ddl Zan e l’omotransfobia
Articolo di Chiara Saraceno* pubblicata sul quotidiano La Stampa il 5 maggio 2021, pag.21
Non è vero che il disegno di legge Zan autorizzerebbe a cambiare la propria appartenenza di sesso solo con un’autodichiarazione. Tanto meno autorizzerebbe interventi medici intesi a rallentare lo sviluppo sessuale di bambine/i che manifestano un’incertezza sulla propria identità sessuale.
O ancora non offre una soluzione alla questione se le atlete transessuali che da uomini sono diventate, anche legalmente, donne possano concorrere con atlete che sono state sempre donne, vista la diversa conformazione dell’apparato muscolare.
Sono questioni da affrontare seriamente e con cautela, perché riguardano la vita delle persone. Sono oggetto di un ampio dibattito a livello internazionale, con alcuni paesi che hanno preso direzioni diverse e contrapposte.
Ma, contrariamente a quanto sembrano suggerire molti oppositori della proposta di legge, incluse alcune femministe ed anche l’intervento di Marina Terragni su questo giornale ieri, non riguardano il disegno di legge Zan.
Questo si limita a dire che è penalmente punibile chi offende, aggredisce o discrimina qualcuno a motivo del suo sesso, o della sua adesione o meno alle modalità comportamentali e di rappresentazione di sé che sono convenzionalmente legate alla appartenenza di sesso, o per il suo orientamento sessuale, o per il fatto che rifiuta l’identità insieme personale e sociale che viene automaticamente collegata all’avere un corpo sessuato.
Senza fare una graduatoria dei rischi di vittimizzazione legati al sesso, mi sembra che chi rifiuta l’identità che gli sarebbe assegnata dal corpo è più esposto, quindi più vulnerabile, perciò più bisognoso di protezione — soprattutto, mi verrebbe da dire, se, o fino a che, il mutamento di sesso non è compiuto fino infondo, sul corpo e all’anagrafe.
Perché la transizione non è un atto puntuale che avviene dalla sera alla mattina, ma richiede tempo ed elaborazione, e la possibilità di ripensamenti. Perché, se la transizione non è ancora avvenuta compiutamente e non è confermata a livello anagrafico, la difformità tra lo statuto pubblico e quello che si sente di essere è resa pubblica ogni volta che deve mostrare i documenti.
Perché i mutamenti che il corpo attraversa e segnala nel lungo processo di transizione la rivelano al di là delle intenzioni. Non riesco a capire perché non si debba offrire esplicitamente protezione da attacchi e discriminazioni a chi non accetta il sesso che gli/le è capitato come destino, così come a chi ha un orientamento sessuale diverso da quello della maggioranza, oltre che alle donne che sono spesso aggredite e discriminate in base alloro sesso, a prescindere da loro orientamento sessuale e se stiano o meno in accordo con il proprio corpo sessuato?
Perché mai questa protezione, ed il diritto che essa riconosce a queste persone alla propria integrità e dignità, deve essere considerata un attacco vuoi alla libertà di pensiero, come ritengono alcuni, vuoi alla radicale differenza femminile, come denunciano alcune femministe (non risultano movimenti maschili che protestino contro chi, nato femmina, voglia invece assumere una identità di genere maschile)? E curioso che la rivendicazione della libertà di pensiero venga avanzata per contrastare una norma che punisce l’insulto e l’aggressione.
Ma è anche incomprensibile che tale norma venga contrastata in nome della salvaguardia della differenza sessuale. Non occorre essere d’accordo sulle distinzioni tra sesso, genere e identità di genere, sul concetto stesso di genere, o sulla coincidenza o meno tra corpo e identità per riconoscere a ciascuno/a il diritto a condurre la vita che ritiene buona per sé con il corpo sessuato che si trova ad avere, se non comporta nessun danno o imposizione ad altri, ma solo la richiesta del rispetto che è dovuto a ciascuno/a , che include anche il non dover subire insulti e discriminazioni.
Proprio le donne che hanno una lunga storia di aggressioni e discriminazioni ogni volta che hanno cercato di uscire dagli schemi imposti alloro sesso e alla identità sociale di genere che in base ad esso veniva loro assegnata, dovrebbero stare dalla parte di coloro che rivendicano, anche senza ricorrere ai ferri del chirurgo, il diritto di poter cercare di uscire dal dissidio che provano con il proprio corpo senza dover subire per questo il dileggio, quando non le aggressioni, di chi questo dissidio non lo prova, o ne ha paura.
* Chiara Saraceno è una delle sociologhe italiane di maggior fama riconosciuta per i suoi importanti studi sulla famiglia, sulla questione femminile, sulla povertà e le politiche sociali. Laureata in filosofia, ha insegnato sociologia della famiglia all’Università di Torino ed è stata direttrice del dipartimento di scienze sociali, del centro interdipartimentale di studi e ricerche delle donne e membro della commissione italiana di indagine sulla povertà e l’emarginazione. È anche professore di ricerca al Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni tra cui il saggio “L’equivoco della famiglia”, editrice Laterza, 208 pagine.