La mia vita da ex-gay. Il calvario della terapia
Testimonianza di Gabriel Arana del 11 aprile 2012 tratta dal sito “The American Prospect” (Stati Uniti), liberamente tradotta da Adriano C.
All’inizio del mio primo anno di liceo, tornai a casa e trovai mia madre seduta sul suo letto; stava piangendo. Aveva spiato le mie e-mail e aveva scoperto un messaggio in cui confessavo di avere una cotta per un mio compagno di scuola, maschio. “Sei omosessuale?” mi chiese. Le confessai che era così. “L’ho sempre saputo. Fin da quando eri un ragazzino”. La sua rassegnazione non durò a lungo. Mia mamma è una risolutrice di problemi e il giorno dopo mi porse una pila di fogli che aveva stampato da Internet sul riorientamento, o terapia “ex-gay”. Li buttai via.
Ribattei che non capivo come, un colloquio in un ufficio di un terapeuta, avrebbe potuto farmi smettere di essere attratto dai ragazzi. Mia madre mi ha risposto chiedendomi se volevo una famiglia, poi buttò lì un ipotetico: “Se ci fosse una pillola che potresti prendere per diventare eterosessuale, la prenderesti?”. Ho dovuto ammettere che la vita sarebbe stata più semplice se fosse esistita una pastiglia così. Non avevo ancora meditato sul peso che avrebbe avuto nella mia vita il fatto che mi piacessero i ragazzi. In effetti, avevo sempre immaginato me stesso come un uomo di mezza età, sposato con una donna, e con un figlio e una figlia; non è quello che vorrebbero tutti d’altronde? “Lo stile di vita omosessuale porta alla solitudine” disse lei.
Mi parlò del Dr. Joseph Nicolosi, uno psicologo ospedaliero della California che era presidente della NARTH, l’Associazione Nazionale per la ricerca e la terapia contro l’omosessualità, la più grande organizzazione del paese per i professionisti che applicavano la terapia ex-gay. Mi disse che Nicolosi aveva curato centinaia di persone che erano poi state in grado di vivere una vita “normale”.
Lessi gli articoli che mia madre aveva recuperato dal cestino. C’erano interviste con i pazienti di Nicolosi, i quali raccontavano di come la terapia li avesse aiutati a superare la depressione e a farli sentire “a proprio agio con la loro mascolinità”. Le testimonianze sembravano sincere e i pazienti ne erano grati. Accettai di andare con mio padre a Los Angeles così prendemmo un aereo dalla nostra piccola città che sta sul confine tra l’Arizona e il Messico, per avere una consultazione iniziale.
La Clinica Psicologica San Tommaso d’Aquino era al tredicesimo piano di un moderno palazzo sul Ventura Boulevard, una delle vie principali della San Fernando Valley. L’ufficio ad angolo di Nicolosi avevaun tappeto verde smeraldo e librerie in mogano sui quali scaffali erano allineati libri i cui titoli erano ’Omosessualità: una libertà lontana’ e ‘L’omosessualità e la politica della verità’. Di mezza età con folti capelli neri brizzolati, Nicolosi è cresciuto a New York e parla con un lieve accento del Bronx. Brusco ma affabile, mi mise a mio agio.
Quando mio padre ed io lo incontrammo per la prima seduta, Nicolosi ci spiegò cosa intendesse per “cura”. Sebbene non avessi mai sentito una scintilla di eccitazione incontrando una donna che camminava per strada, progredendo nella terapia, la mia inclinazione omosessuale sarebbe diminuita. Forse avrei ancora avuto dei pensieri che mi facevano indugiare sugli uomini, ma non avrebbe più avuto il controllo su di me.
Il riconoscimento di Nicolosi, che il cambiamento non sarebbe stato assoluto, rese la teoria accettabile ai miei occhi. La sua fiducia nel risultato mi ridiede speranza. Prima di parlare con Nicolosi, mi ero rassegnato all’idea che, desiderabile o no, la mia vita si sarebbe dovuta adattare al fatto che io fossi omosessuale. Ma forse questo era qualcosa sul quale avrei potuto lavorare.
§Nella seconda metà dell’incontro, parlai da solo con Nicolosi. “Raccontami dei tuoi compagni di scuola” mi chiese. Gli dissi che avevo due amiche femmine. “Nessun amico maschio?” Ho dovuto ammettere che avevo sempre avuto problemi a relazionarmi con i ragazzi della mia età. Quando ero alle elementari, durante gli intervalli, preferivo aiutare l’insegnante a pulire l’aula invece che fare sport.
“Sei aperto alla terapia?” mi chiese Nicolosi “se pensi che non possa funzionare, puoi fermarti in qualsiasi momento”.
Accettai di iniziare le sessioni settimanali per telefono. Finito il nostro incontro faccia a faccia, mi unii ad alcuni suoi pazienti per la terapia di gruppo. Ero di gran lunga la persona più giovane presente. Gli altri uomini (quattro o cinque in tutto) erano sulla quarantina o cinquantina e parlavano della loro vita passata come “stile di vita omosessuale”, dicendo che avevano ottenuto solo infelicità.
Desideravano delle esistenze normali e soddisfacenti. Erano stanchi di frequentare club privati, dell’uso di droghe, della promiscuità, dei legami che non duravano; si lamentavano che la cultura omosessuale era ossessionata dai giovani. Se questo è ciò che significa essere omosessuale (e dato che essi erano più grandi di me di 30 anni e certamente lo sapevano), allora volevo essere normale anche io.
Lasciai l’ufficio con una copia del libro più recente di Nicolosi, “Guarire l’omosessualità”, e con un questionario che classificava le differenti emozioni in colonne di “vero” e “falso”. Nella colonna del “vero” classificava la mascolinità come “adeguata, alla pari” “sicuro, confidente, capace” e “a proprio agio nel proprio corpo”.
La colonna del “falso” prevedeva il non sentirsi adeguato e l’insicurezza, e il sentirsi scomodi nel proprio corpo. Mi sembrava fosse corretto. Ero stato preso in giro tutta la mia infanzia per essere effeminato, e per essere allampanato, un adolescente imbranato con una brutta pelle, certamente non mi sentivo a mio agio nel mio corpo.
Un altro volantino illustrava la “relazione triadica” che porta all’omosessualità, un padre passivo e distante, una madre troppo coinvolta ed un figlio sensibile. Io mi sentivo più vicino a mia madre che a mio padre. Ero timido. La storia sembrava quadrare, il che era confortante. Mi diede la fiducia di poter essere curato.
Secondo Nicolosi, l’identificazione con un genitore del sesso opposto è fuori dagli schemi dell’evoluzione biologica. Per questo motivo, era impossibile diventare integri attraverso le relazioni omosessuali. Io volevo essere integro.
Il 13 luglio del 1998 (lo stesso anno che iniziai la terapia) apparve sul New York Time un’inserzione a tutta pagina con la fotografia di una donna raggiante che aveva un vistoso anello di fidanzamento con diamanti . “Sono la prova che la verità ci rende liberi” proclamava. Questa donna, Anne Paulk, raccontava che le molestie subite durante l’adolescenza l’avevano condotta all’omosessualità, ma che era stata guarita dal potere di Gesù Cristo.
La campagna pubblicitaria costata 600,000 dollari (sponsorizzata da 15 organizzazioni religiose, incluse Christian Coalition, Family Research Council, e American Family Association) apparve per parecchie settimane su famose riviste e quotidiani come The Washington Post, USA Today, e Los Angeles Times. Robert Knight del movimento Family Research Council lo definì “lo sbarco in Normandia della Guerra culturale”.
Dato che c’erano poche voci che sfidavano le testimonianze, i giornalisti la considerarono una rivelazione. Newsweek pubblicò una simpatica storia di copertina sulla terapia del cambiamento, e i giornali nazionali e regionali fecero resoconti sugli “ex-omosessuali”. Per mia madre non è mai stato così facile trovare informazioni su come la teoria degli “ex-gay” era diventata il vessillo della guerra culturale dei diritti Cristiani.
L’annuncio pubblicitario venne pubblicato 23 anni dopo che l’Associazione Psichiatrica Americana (APA) aveva declassificato l’omosessualità dall’essere una malattia mentale. Come conseguenza di quella decisione, molte forme di riorientamento terapico vennero dismesse; per esempio alcune forme estreme di terapia di avversione come scariche elettriche o droghe che provocavano la nausea.
Un piccolo gruppo di terapisti continuò a praticare la terapia colloquiale che incoraggiava i pazienti a vedere l’omosessualità come un disordine mentale, ma sono rimasti ai margini fino al momento in cui la destra Cristiana non ha cominciato ad appoggiare la loro causa. Questa era una mossa politica calcolata.
Invece delle denunce di fuoco eterno lanciate dai pulpiti, i movimenti di ex-omosessuali consentivano alla legge Cristiana di appoggiarsi al lettino dello psicologo condannando l’omosessualià in un modo che sembrava pietoso e compassionevole. Il movimento “Focus on the Family” chiamò in causa il suo nuovo ministero ex-gay, Love Won Out, affinchè parlasse della guarigione e della cura per gli omosessuali.
Il movimento ex-omosessuali rivoltò retoricamente il diritto omosessuale contro se stesso: per quale motivo un ex-omosessuale non può essere in grado di poter esercitare la terapia e vivere la propria vita come vuole senza dover affrontare la discriminazione?
I due maggiori gruppi che propongono consulenza agli ex-omosessuali sono Exodus International, un’organizzazione Cristiana non-confessionale, e NARTH, la sua controparte laica. Se Exodus è lo spirito del movimento ex-gay, il NARTH è il suo cervello. Le organizzazioni condividono molti membri, Exodus ripete a pappagallo le teorie evolutive circa le attrazioni omosessuali che sono sostenute da NARTH.
Insieme al compianto Charles Socarides, uno psichiatra che guidò l’opposizione alla declassificazione dell’omosessualità da malattia mentale, Nicolosi ha fondato il NARTH nel 1992 definendolo una “organizzazione scientifica che offre speranza a coloro che lottano con un’omosessualità indesiderata”.
Nel 1998, il gruppo ha tenuto una conferenza annuale, pubblicandola sul proprio giornale, nella quale offriva dei corsi a psichiatri, psicologi e consulenti. Nicolosi rimane tuttora il più eminente sostenitore del NARTH.
Non esistono statistiche affidabili su quanti pazienti abbiano ricevuto il trattamento ex-gay o su quanti terapeuti lo praticano, ma verso la fine degli anni ’90 e nei primi anni del 2000, questa terapia ha goduto di una legittimazione che non aveva mai avuto da quando l’APA aveva rimosso l’omosessualità dal suo manuale diagnostico. Exodus ha 83 sedi in 34 stati.
Il suo presidente, Alan Chambers, nel 2004 comunicò che egli conosceva “decine di migliaia di persone che erano riuscite ad avere un cambiamento nel loro orientamento sessuale”. Nicolosi apparve spesso in programmi televisivi come Oprah, 20/20, e Larry King Live. Che sia vero o no l’alleanza della destra Cristiana con i movimenti ex-gay ha costituito un D-day nella guerra culturale, ha sfidato con successo l’idea prevalente che la scelta migliore per le persone omosessuali fosse quella di accettare se stessi.
Dopo il nostro incontro iniziale, parlai con Nicolosi settimanalmente per telefono per più di tre anni, dall’età di 14 anni fino al mio diploma. Come un rabbino che insegna la Torah al suo discepolo, Nicolosi mi incoraggiava a interpretare la mia vita quotidiana attraverso la lente delle sue teorie.
In un libro di Nicolosi, ”Teoria riparativa dell’omosessualita maschile”, ho letto che cerca di posizionarsi come una figura paterna di sostegno, caratterizzando il tipo del suo rapporto con i pazienti in questa posizione perchè ritiene che questi non abbiano avuto mai un rapporto con il padre. Effettivamente anche io sono arrivato al punto di vederlo in questa luce.
Abbiamo soprattutto parlato di come venisse danneggiata la mia identità mascolina dal fatto di essere attratto dagli altri ragazzi. Nicolosi mi chiese delle mie cotte a scuola e di cosa mi piaceva di più di loro. Se la caratteristica era la corporatura di qualcuno, la bellezza, la popolarità o la confidenza, questa conversazione finiva sempre con una deviazione su degli interrogativi: Mi sarebbe piaciuto avere quella corporatura? Quale sarebbero stati i miei sentimenti se uno di questi ragazzi mi avesse abbracciato? Sarei stato contento di piacergli e di essere accettato?
Certo, desideravo essere come i compagni di classe che ammiravo; naturalmente, avrei voluto essere accettato e apprezzato da loro. Questo tipo di interrogatorio mi faceva sentire peggio. Nicolosi mi spiegò, seduta dopo seduta, che mi sentivo inadeguato perchè non avevo avuto sufficiente affermazione maschile durante la mia infanzia.
Cominciai a pensare che la mia attrazione per gli uomini fosse dovuta al mancato collegamento con mio padre. Ogni volta che mi sentivo offeso da qualche mio amico maschio (per aver trascurato di chiamarmi quando avrei voluto, per non avermi invitato ad una festa) stavo rivivendo il rifiuto seminale di mio padre. Parecchi ragazzi, mi venne spiegato, lasciano che queste cose gli scivolino addosso (come espressione della loro fiducia maschile) ma io venivo urtato da questi atteggiamenti perchè mi richiamava ad un trauma precedente.
I miei genitori rimasero sorpresi di come la terapia li riteneva in colpa per la mia condizione. In un primo momento Nicolosi aveva detto loro che non eravamo uno di quei casi che si adattano alla forma di “relazione triadica”; in altre parole che il mio orientamento sessuale non era dovuto ad una loro colpa. Successivamente fu chiaro che Nicolosi li riteneva responsabili, ed essi se ne tirarono fuori.
Continuavano a pagare per la terapia ma non si relazionavano più regolarmente con Nicolosi e non chiedevano di che cosa avessimo parlato. Ero felice di poter sfidare i miei genitori. Se la lamentela era che il mio coprifuoco non fosse lungo abbastanza per farmi rientrare tardi o che la mia paghetta non era sufficiente, mi sentivo abbastanza autorevole da poter sostenere che percepivo delle ingiustizie. Ogni occasione diventava la prova di come i miei genitori avevano fallito.
Mentre progredivo nella terapia, sentivo che stavo conoscendo meglio l’origine e la cause della mia inclinazione sessuale. Il problema era che queste pulsioni non andavano via. Dietro sollecito di Nicolosi, dissi alla mia migliore amica che dovevo allontanarmi da lei. Nicolosi invece mi incoraggiò a formare dei “veri vincoli non sessuali” con altri ragazzi. Mi mise in coppia con un altro dei suoi pazienti, Ryan Kendall, che aveva la mia età e viveva in Colorado. Ci parlavamo per telefono ogni pochi giorni.
La maggior parte delle nostre conversazioni erano banali. Parlavamo dei nostri rispettivi amici e di persone che non ci piacevano, raccontandoci di ogni lavoro scolastico e dei successi ottenuti. Spesso deviavamo dai discorsi approvati dal terapeuta, da quei discorsi pappa e ciccia che si supponeva ci avrebbero aiutato. Abbiamo flirtato, una nuova esperienza per me, non c’erano ragazzi apertamente gay nella mia scuola. Ryan ed io ci descrivemmo fisicamente l’un l’altro. Mi ha detto che aveva capelli e occhi castani, che era basso ma carino; io gli dissi che ero alto e magro (ma ho tralasciato di dirgli della mia brutta pelle). Ci siamo promessi di scambiarci delle foto, ma non lo facemmo mai.
“Cosa direbbe Nicolosi?” ci siamo chiesti. E’ diventato un tormentone, un riconoscimento del fatto che stavamo comportandoci male. Parte del vincolo che abbiamo sviluppato era sulla condivisione della nostra ribellione al terapista. Per me, aveva poco a che fare con l’opposizione alla terapia ex-gay, era piuttosto il brivido vertiginoso di sfidare l’autorità.
Ryan era convinto che il cambiamento fosse impossibile: “Nicolosi è un ciarlatano”, mi disse una volta. Malgrado le mie trasgressioni, io credevo ancora nella teoria di Nicolosi. Ma il mio rapporto con Ryan evidenziò un grande problema: mentre scoprivo come la mia relazione con i miei genitori avrebbe continuato a modellare la mia vita interiore, mi sentivo ancora attratto dagli uomini. Ho chattato con ragazzi più grandi in Internet e in alcune occasioni li ho anche incontrati.
Mi sono sentito in colpa per questo, ma ero abbastanza convinto che Nicolosi ammettesse che stavo “sperimentando”. Mi disse di stare molto attento nell’incontrare uomini conosciuti in Internet ma mi disse anche che non dovevo rimuginarci sopra e sentirmi in colpa. Mi disse che il mio comportamento sessuale aveva importanza secondaria. Se io comprendevo me stesso e avessi lavorato sulle relazioni con gli altri uomini, l’attrazione si sarebbe modificata. Dovevo solo essere paziente.
Più tardi durante il mio ultimo anno di liceo, Nicolosi ebbe un’ultima conversazione con i miei genitori e gli disse che il trattamento aveva avuto successo. “Vostro figlio non entrerà mai più nello stile di vita omosessuale” li assicurò.
Poche settimane più tardi la nostra governante mi sorprese con un ragazzo nel nostro cortile. Questò segnò il termine della mia terapia. I miei genitori erano convinti che il fallimento della terapia era dovuto al fatto che Nicolosi dava a loro la colpa invece che concentrarsi sul fatto che io ero stato preso in giro dai miei coetanei quando ero piccolo. Mi portarono da un altro terapista.
Ho avuto un solo incontro poi mi sono rifiutato di continuare. Sebbene accettassi la teoria di Nicolosi sul perchè alcune persone erano omosessuali, ero convinto anche che nessun discorso mi avrebbe potuto cambiare. Quando sono partito per Yale, mia madre mi diede un avvertimento: se avesse scoperto che ero entrato nello “stile di vita gay” non mi avrebbero più pagato l’università. “Ti amo abbastanza da impedirti di farti del male” mi disse.
Nel 2001, l’anno che cominciai l’università, il movimento degli ex-gay ricevettero un notevole impulso. Nel 1973, il professore della Columbia eminente psichiatra Robert Spitzer era riuscito nel tentativo di declassare l’omosessualità come malattia mentale.
Quattro anni dopo Stonewall, fu l’evento di riferimento per il movimento dei diritti degli omosessuali. Ma 28 anni dopo, rilasciò uno studio che affermava che fosse possible il cambiamento del proprio orientamento sessuale. Basandosi su 200 interviste con pazienti ex-omosessuali (il più grande campione mai raccolto) lo studio non ha alcuna rivendicazione sul tasso di successo della terapia ex-gay.
Ma Spitzer conclude che, almeno per un gruppo altamente selezionato di persone motivate, ha funzionato. Che, tradotto nella cultura più estesa fu: il padre della rivoluzione della classificazione e del trattamento dell’omosessualità, che non potrebbe essere essere visto come un imparziale crociato della teoria ex-gay, ha validato la terapia ex-gay.
Un articolo della Associated Press l’ha definito “esplosivo.” Nelle parole di un collega omosessuale di Spitzer, è stato come “lanciare una bomba nella comunità gay”. Per il movimento degli ex-gay è stata una manna dal cielo. Considerando che precedenti rapporti di successo apparvero in riviste non specializzate, o che vanitosamente vennero pagate per essere pubblicate su Psychological Reports, il rapporto di Spitzer venne invece pubblicato sul prestigioso Archives of Sexual Behavior.
Lo studio di Spitzer viene ancora riportato dalle organizzazioni come l’evidenza dell’efficacia della terapia ex-gay. Il rapporto fece infuriare i sostenitori dei diritti omosessuali e anche parecchi psichiatri, che ne condannavano la metodologia e la concezione.
I partecipanti al sondaggio erano stati indirizzati a Spitzer da gruppi di ex-gay come NARTH ed Exodus, ed avevano tutti gli interessi affinchè questi raccomandassero e validassero il proprio lavoro. Le dichiarazioni di cambiamento erano degli stessi partecipanti, e Spitzer non chiese mai ad un gruppo di controllo che le convalidasse in modo da fugare i dubbi sulla loro credibilità.
La primavera scorsa, visitai Spitzer nellla sua casa a Princeton. Raggiunse la porta di casa con l’aiuto di un deambulatore. Spitzer soffre di morbo di Parkinson, è fragile ma ancora aurguto. “E’ una rottura” mi ha detto riguardo alla sua malattia. Gli confessai che Nicolosi mi chese di chiamarlo nel 2001 raccontandogli del mio successo nella terapia, ma che non l’ho mai chiamato. “Ho avuto parecchie difficoltà a trovare i partecipanti”, mi disse Spitzer. “In tutti quegli anni di terapia ex-gay, si potrebbe pensare che Nicolosi avesse potuto farmi avere molte più testimonianze di successi. Riuscì a farmi avere solo nove pazienti.”
“Com’è andata per te?” mi chiese. Gli ho detto che sono stato nascosto per un po’ di anni, più di quanti avrei voluto, poi ho accettato la mia sessualità. Alla fine del college, ho cominciato ad avere dei fidanzati costanti, e in febbraio dell’anno scorso (dieci anni dopo il mio ultimo incontro con Nicolosi) ho sposato il mio compagno.
Spitzer era disfatto dalla stanchezza sul tema della terapia ex-gay perchè era controversa (“Sono sempre stato attatto dale controversie”) ma era rimasto turbato dal modo in cui questo rapporto era stato accolto. Non intendeva suggerire che gli omosessuali dovevano seguire la terapia ex-gay, il suo obiettivo era quello di determinare se la sua contro-attendibilità (il fatto che nessuno aveva mai cambiato il proprio orientamento tramite la terapia) fosse vero.
Gli chiesi delle critiche che gli erano state rivolte. “Col senno di poi, devo ammettere che penso che le critiche siano in gran parte corrette” mi disse. “I risultati possono essere considerati elementi di prova di ciò che sostengono coloro che sono stati sottoposti alla teoria ex-gay, ma niente di più”. Disse di aver parlato con l’editore di Archives of Sexual Behavior per poter scrivere una ritrattazione, ma che l’editore declinò la proposta. (I successivi tentativi di contattare la rivista sono rimasti senza risposta).
Spitzer ammise di essere orgoglioso di aver contribuito a rimuovere l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali. Ora ottantenne e in pensione, temeva che lo studio del 2001 avrebbe infangato il suo retaggio e forse far del male ad altri. Mi disse che i tentativi falliti di liberarsi dalle attrazioni omosessuali “possono essere molto dannosi”. Tuttavia non ha dubbi sulla lotta sostenuta nel 1973 circa la declassificazione dell’omosessualità.
“Se non ci fosse stato Bob Spitzer, l’omosessualità probabilmente sarebbe stata rimossa comunque dalla lista delle disordini psichiatrici” disse “Ma non sarebbe avvenuta nel 1973”.
Spitzer cominciava a stancarsi e mi chiese quante altre domande avevo da porgli. Nessuna, gli risposi, a meno che non abbia qualcos’altro da aggiungere. Ce l’aveva. Vorresti stampare una ritrattazione del mio studio del 2001, “così non mi devo più preoccupare”?
Il movimento degli ex-gay ha fatto affidamento sullo studio di Spitzer come pietra miliare dell’evidenza che la terapia può funzionare.Il bisogno di questa evidenza era divenuta pressante nei primi anni del 2000, quando una squadra di blogger dei diritti degli omosessuali cominciò a tenere sotto osservazione il movimento, pronti ad esporre qualsiasi accenno di ipocrisia. C’era parecchio materiale.
John Paulk, fondatore di Love Won Out, presidente del consiglio di Exodus International, e sposato con Anne Paulk, è stato visto e fotografato in un bar omosessuale di Washington, D.C. Richard Cohen, il fondatoredi PFOX (Parents and Friends of Ex-Gays and Gays-Parenti e amici di ex-gay e gay) che è l’equivalente-opposto del PFLAG (Parenti, famiglie e amici di lesbiche e gay), venne espulso dall’ American Counseling Association per violazioni all’etica. Michael Johnston, fondatore di “National Coming Out of Homosexuality Day,” fu riconosciuto colpevole di aver infettato di HIV alcuni uomini incontrati in Internet con i quali aveva fatto sesso senza protezione.
Un membro scientifico del consigno di NARTH accese molte polemiche per aver dichiarato che era stata una cosa positiva la schiavitù dei neri, poichè aveva permesso loro di sfuggire dal’Africa “selvaggia”. Poco dopo il consiglio di NARTH rimosse Nicolosi, che era ancora presidente. Nel 2010 venne rivelato che il il segretario esecutivo del NARTH, Abba Goldberg, era un truffatore che era stato rinchiuso in prigione per 18 mesi.
Alcuni terapisti associati a NARTH ed Exodus vennero accusati di molestie sessuali ai propri clienti o di aver intrapreso delle pratiche di terapia piuttosto discutibili. Tra questi Alan Downing, il terapista guida di JONAH (Jews Offering New Alternatives to Homosexuality), che faceva spogliare i propri pazienti e li obbligata a toccarsi di fronte ad uno specchio; Christopher Austin membro di NARTH, che è stato condannato per “violazione di legge, intenzionale e consapevole, causa di penetrazione” di un cliente; Mike Jones un affiliato di Exodus, che ha chiesto ad un paziente di togliersi la camicia e di fare delle flessioni per lui.
Il movimento ha anche sofferto di parecchie defezioni di alto-profilo. John Evans, che aveva fondato il primo ministero ex-gay fuori San Francisco, rinunciò alle teorie di cambiamento quando un amico si suicidò per non esser riuscito a divenire eterosessuale. L’ex-gay Peterson Toscano, che è stato coinvolto nel movimento per 17 anni, ha fondato Beyond Ex-Gay, una comunità on-line per gli “ex-gay sopravvissuti”. Nel 2007, Michael Bussee cofondatore di Exodus chiese scusa per il suo ruolo avuto nell’iniziare l’organizzazione.
Come risposta alla rinascita di una terapia ex-gay, le principali organizzazioni professionali hanno preso delle posizioni più rigide. Dal 2007 al 2009, la American Psychological Association condusse una revisione di tutta la letteratura sugli sforzi di cambiare l’orientamento sessuale. Judith Glassgold, presidente del gruppo di lavoro che ha condotto la ricerca, sostiene che il gruppo non ha trovato evidenze scientifiche circa i buoni risultati della terapia ex-gay.
In realtà, si scoprì che si corre il rischio che i pazienti diventino ansiosi, depressi e talvolta suicidi. “Produce false speranze, il che potrebbe essere devastante” dice la Glassgold. “Concentrandosi sulla psicopatologia dell’omosessualità, viene danneggiata l’auto-stima e la considerazione di sè”. La APA ora chiede ai propri membri di non impegnarsi in queste pratiche.
Negli ultimi anni anche Exodus ha cominciato a mostrare delle crepe nel suo sostegno alla terapia ex-gay. L’organizzazione ha ammorbidito la sua retorica incoraggiando i propri ministeri a promuovere il celibato piuttosto che il cambiamento, in modo da poter vivere coerentemente con i propri valori religiosi. Il gruppo non recita più “Libertà dall’omosessualità” (il suo motto) ma racconta della nobiltà di continuare a lottare contro le attrazioni omosessuali.
Exodus ha anche cominciato a prendere le distanze da NARTH. Nel settembre del 2011, Exodus ha rimosso dal proprio sito web tutti i riferimenti ai libri e agli articoli di Nicolosi. In gennaio, il presidente di Exodus Alan Chambers ha parlato ad un incontro di Gay Christian Network. Quando gli è stato chiesto circa la possibilità che le persone omosessuali cambino il loro orientamento sessuale, Chambers (che dichiarava tempo fa si conoscere centinaia di casi di successo) ha detto che il “99,9 percento” delle persone che hanno tentato di liberarsi dell’attrazione omosessuale aveva fallito.
Ci sono altri segnali di declino. La partecipazione a Love Won Out la conferenza di Focus on the Family, il raduno maggiore del movimento, è scesa drasticamente. Focus on the Family recentemente ha venduto Love Won Out a Exodus. Gli attivisti ex-gay non fanno più presenza agli eventi della destra religiosa. Venti anni dopo la fondazione di NARTH, il movimento ha perso il proprio smalto.
Ho conosciuto diversi pazienti di Nicolosi ed altri che hanno subito la terapia di membri del NARTH. Ne ho visto uno occasionalmente ad una conferenza e ho interagito con lui nella blogosfera, fa parte di una rete informale di ex-gay che si sono ritirati. Il più conosciuto forse è Daniel Gonzales, che scrive sul sito web “Box Turtle Bulletin”.
Nicolosi aveva chiesto anche a Daniel di partecipare allo studio di Spitzer. Quando Daniel finì la terapia, pensò di aver aver acquisito informazioni preziose sulla sua condizione ma alla fine rinunciò a resistere alle sue pulsioni omosessuali. “Ho sprecato un anno e mezzo della mia vita nella terapia” dice.
“Per molti anni le cose dette da Nicolosi sulle relazioni omosessuali hanno continuato a perseguitarmi”. Le sue relazioni con gli uomini continuavano a fallire perchè era convinto, come gli diceva Nicolosi, che sarebbero cadute a pezzi nel momento in cui cominciava a sentirsi a proprio agio con loro, in pace con la propria mascolinità.
Le idee di Nicolosi furono più ossessionanti per me. I primi due anni in università, sono state la base di come mi vedevo: un lebbroso senza speranza di cura. Stavo coperto ma avevo comunque incontri sessuali con compagni di corso. Diventavo sempre più depresso ma non andavo alla consulenza della salute mentale perchè temevo che qualche terapista avrebbe avvisato i miei genitori sul mio “stile di vita” omosessuale.
Pianificai cosa fare se i miei genitori avessero deciso di interrompere il finanziamento dei miei studi. Sarei rimasto all’università e avrei trovato un lavoro. Avrei cercato di ottenere una borsa di studio dalla Point Foundation, la quale provvede degli aiuti finanziari a ragazzi omosessuali che sono stati rinnegati dai propri genitori. Non sarei più tornato in Arizona, Non avrei più incontrato un terapista ex-gay.
Ho passato ore davanti alla finestra della mia stanza al terzo piano, chiedendomi se buttandomi giù sarei morto o sarei solo rimasto paralizzato. Sono riuscito ad avere una ricetta per dei sedativi e ho pensato di prendere l’intero flacone poi di appollaiarmi sul cornicione finchè non avessi avuto la certezza di farla finita.
Non sono sicuro di come mi venissero certe idee. Forse era la pressione accademica combinata all’aumento del conflitto tra i miei ideali e il mio comportamento. Nella primavera del secondo anno, le disparate parti di me che tentavo di tenere unite si sono staccate l’una dall’altra; la parte di me che pensava che essere omosessuale fosse sbagliato, la parte di me che andava a letto comunque con altri uomini, la parte di me che lasciavo vedere e la parte di me che soffriva in silenzio. Per due notti riuscii a dormire 20 minuti in tutto, ero consumato dalla disperazione. Guardavo le bottigliette di medicinale con eccitamento preoccupante. Ho raggiunto il punto di aver più paura di me che del fatto di cosa sarebbe accaduto se fossi stato omosessuale.
Rendendomi conto di come ero vicino alla impulsiva decisione di uccidermi, mi recai all’ufficio del rettore dell’università e confessai di avere istinti suicidi. Mi accompagnò al Dipartimento Universitario della Salute e venni internato nell’ospedale psichiatrico di Yale. Durante il colloquio di ammissione, ho avuto un attacco di panico e ho scritto al consulente una nota a mano che diceva”Qualunque cosa accada, per favore non mandatemi via da qui”. Ho firmato con il mio nome completo e l’ho datato. Più di tutto, temevo mi avrebbero mandato a casa.
La mia prima note in ospedale è stata cupa e fredda. Ricordo che guardavo fuori dalla finestra della camera che condividevo con uno schizofrenico. La neve copriva il terreno, giù nel cortile interno. Ero inquieto, presi una pila di riviste nella zona comune e mi misi a sfogliare le pagine, guardando gli uomini degli annunci di moda. Strappai le pubblicità e li misi in una cartelletta trasparente. Mi sdraiai sul letto e tenevo stretta al petto la cartellina, mormorando: “E’ tutto OK, è tutto OK, è tutto OK.
Sono dovuto ritornare per forza a casa per un anno, prima di fare ritorno nuovamente a scuola. A quel punto mio padre, che venne a prendermi in aereo da New Heaven il giorno che mi ero fatto internare, si rese conto che la terapia (e le pressioni che mia madre faceva su di me) non mi facevano assolutamente bene. “Preferisco avere un figlio omosessuale che un figlio morto” disse.
La mia esperienza era arrivata ad un punto di svolta. Sebbene ci siano voluti anni di consulenza per distruggere le idee che avevo appreso durante la terapia con Nicolosi, per la prima volta incontrai dei professionisti che affermavano che la mia sessualità era a posto e per la prima volta cominciai a pensare che essere omosessuale non fosse sbagliato.
Ryan, il mio compagno di terapia, è stato colpito ancor più profondamente. Due anni fa ho trovato il suo nome in interviste e trascrizioni della causa contro il divieto dei matrimoni omosessuali in California, la Proposition 8, in cui testimoniava i danni che la terapia di Nicolelosi gli aveva causato. Successivamente strinsi amicizia con lui su Facebook.
Ci siamo recentemente incontrati di persona in un ristorante del West Side di Manhattan. Erano passati 12 anni da quando ci eravamo sentiti l’ultima volta al telefono. A 28 anni, Ryan si era trasferito a New York da Denver per iniziare i suoi studi universitari alla Columbia. Era uguale alle foto caricate su Facebook, robusto e basso, con la testa rasata e grandi occhi marroni.
Ryan iniziò un procedimento legale contro i suoi genitori all’età di 16 anni per sfuggire alla terapia, denunciandoli per gli abusi e l’abbandono. Fu all’epoca in cui perdemmo i contatti tra di noi. Abbandonò la scuola superiore e saltuariamente viveva con amici, poi con suo fratello fino a che non lo cacciarono di casa. Spesso Ryan non aveva fissa dimora. Ebbe una serie di lavoretti a breve termine e per un periodo ha spacciato droga leggera per raggranellare soldi, ma per la maggior parte del tempo era al verde. Per mangiare, qualche volta ha riempito un carrello con prodotti alimentari e poi è scappato fuori dal supermercato senza pagare. “Ero fuori controllo” mi disse “Si era guastato qualche cosa dentro di me. Tentavo di autodistruggermi perchè avevo interiorizzato tutta l’omofobia dalla terapia”.
Quando cambiarono le cose per lui? Qualche anno dopo, mi disse, che riuscì ad avere un lavoro di supporto amministrativo nel Dipartimento della Polizia di Denver. E’ stato allora che cominciò ad essere coinvolto nelle cause sui diritti omosessuali. “La causa della Prop. 8 è stata la prima volta in cui della gente credeva in me” mi ha detto “Ero circondato da persone intelligenti, da gente importante, ed essi contavano su di me”.
Potrei dire che: essere a Yale fu la prima volta in cui mi sentii avvalorare da gente intelligente e importante. Chiesi a Ryan cosa avrebbe voluto dire a Nicolosi se fosse stato a tavola con noi.
“Gli chiederei perchè non la smette”.
Poteva essere d’aiuto sapere cosa avrebbe detto Nicolosi a me, o a Daniel, o a Ryan. Credeva forse che avessimo fallito? Credeva forse di aver fallito lui stesso? Ha ascoltato le storie dei suoi ex-pazienti che hanno cambiato il loro pensiero e che sono state caricate su YouTube e nella blogosfera? Decisi di chiamarlo e di scoprirlo.
Ero preoccupato di parlare ancora con Nicolosi, temevo che la conversazione mi avrebbe riportato indietro. Mi conosceva, come adolescente, meglio dei miei genitori e dei miei amici.
Quando riuscii a parlare con Nicolosi la prima volta al telefono, mi disse che si ricordava bene di me e che era sorpreso che io “fossi ritornato nella direzione omosessuale. Sembravi davvero avere in pugno la situazione”. La conversazione è stata breve. Era con dei clienti per cui decidemmo di parlare dopo pochi giorni con più calma.
Lo chiamai e gli dissi che stavo registrando la conversazione. “La sto registrando anche io” scherzò “sai, nel caso dicessi ‘Nicolosi ha detto che gli omosessuali sono strani tipi malati e sono pervertiti e andranno tutti all’inferno’”.
Ridacchiai. Era come lo ricordavo: irriverente, caloroso. Mi disse che aveva pensato a me fin dalla prima chiamata. Gli chiesi come mai, perchè pensava che io “avessi in pugno la situazione”, non avevo mai avuto un cambiamento del mio orientamento sessuale.
Nicolosi mi disse che le sue tecniche si erano sviluppate: ora i suoi pazienti si focalizzavano di più sui momenti di attrazione sessuale invece che parlare genericamente delle cause dell’omosessualità. La terapia, mi disse, è diventata più efficace. Ma, parte della ragione che su di me aveva fallito, disse, è per il fatto che ero rimasto bloccato: non c’erano uomini coi quali avrei potuto creare dei legami, e i miei genitori non mi capivano. Era la stessa cosa che mi aveva detto durante il mio periodo all’università.
Che dice delle persone che non rientrano nel suo modello? “Dopo quasi 30 anni di lavoro, posso dire di non aver mai incontrato un solo omosessuale che abbia avuto una relazione affettuosa e rispettosa con il proprio padre” dice. L’avevo già sentito prima.
Mentre parla, penso a tutti i suoi discorsi di capire la condizione omosessuale, come ci si sente ad essere omosessuale al di là dell’esperienza di Nicolosi. Per lui, il cambianto di orientamento sessuale in una persona è una faccenda ipotetica. Non l’ha mai vissuto sulla propria pelle. Solo i suoi pazienti hanno dovuto affrontare il fallimento delle sue idee.
Cito Ryan che accusa Nicolosi di aver distrutto la sua famiglia. Nicolosi dice che non si ricorda di Ryan. Ma è sulla difensiva nel prendere qualsiasi posizione di responsabilità. “In merito a tutti questi riguardi circa il fatto che io abba arrecato danno alla gente, dov’è il danno? Attualmente stiamo curando 137 persone. In oltre 30 anni, non pensi che ci sarebbe una marea di persone che è stata danneggiata?”
Gli chiesi cosa si ricordava di me. “Posso visualizzare un ragazzino nella sua cameretta di una piccola città” mi dice. “Tu desideravi parlare della tua solitudine, dei ragazzi a scuola: non avevi nessun amico. Desideravi disperatamente uscirne.”
Stava cercando di farmi uscire di farmi parlare con lui apertamente. Egli è il terapeuta e io sono ancora una volta il suo paziente. Sono reticente. Gli dissi che non abitavo più in Arizona.
“E io ti incoraggio, vero?” mi chiese. “Onestamente, Gabriel, spero che tu non mi veda come qualcuno che ti ha fatto stare peggio, qualcuno che non ti ha mai forzato a fare o a credere qualcosa su di te che non volevi.”
E’ vero che mentre ero in terapia, non mi sentivo costretto a credere nella sua terapia. Non sono mai stato costretto a credere nella sua teoria. Il danno è arrivato dopo, come una esposizione nucleare, quando ho realizzato che il mio orientamento sessuale non sarebbe cambiato. Avrei potuto raccontare a Nicolosi dei mei istinti suicidi, il mio periodo in manicomio.
Avrei potuto raccontargli che i miei genitori ancora non mi comprendono ma che sono cresciuto ora è ho messo più di un cuscinetto di salvataggio nella mia vita. Avrei potuto dirgli che ho sposato un uomo. Ma sapevo che non sarebbe servito a niente: sono cambiato nel momento in cui ho lasciato la terapia, ma Nicolosi non è mai cambiato.
Per anni ho condiviso i miei sentimenti più intimi con lui. Ora voglio tenermeli per me.
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Testo Originale: My So-Called Ex-Gay Life