Perchè vegliare per superare l’omotransfobia? Per trovare uno sguardo nuovo sugli altri
Riflessioni di Dea Santonico
Perché anche quest’anno una veglia per il superamento dell’omotransfobia? Cosa significa seguire il comandamento di Gesù, che accompagnerà le veglie: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12)? Come farlo con la ferita aperta in noi dal comunicato della CEI contro il ddl Zan e dal Responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede, che nega la benedizione alle coppie omosessuali? E di fronte all’ipocrisia di quei politici, che si dichiarano contro le discriminazioni e la violenza che colpiscono il mondo LGBT, ma che sono in realtà interessati e guidati solo dai sondaggi elettorali?
Decisamente impegnativo l’invito di Gesù, che si spinge oltre, fino all’amore per i nemici: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano” (Lc 6,27). Per cercare di far nostro il suo comandamento, la prima cosa da fare è capire come Gesù ha amato e cosa si intende per amore.
Mi aiuta in questa riflessione quello che scrive Giuseppe Barbaglio: “Il comandamento riguarda l’azione, un agire benefico, non si rivolge tanto al cuore, al quale non si comanda”.
Non tanto, quindi, una questione di sentimenti, piuttosto un amore che si traduce nel “fare del bene” a tutti e tutte, perfino ai nemici. Anche l’amore di Dio per tutte le sue creature, nessuna esclusa, si manifesta nell’azione: “Fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45).
Ma quel Dio che fa piovere e sorgere il sole sui giusti ed anche su coloro che commettono ingiustizie, generando discriminazioni, povertà, scarti umani e morte, è in contraddizione con il Dio di parte che troviamo nelle Scritture? Il Dio degli schiavi, dei poveri, dei disperati, degli scartati della terra?
Una risposta la possiamo cercare nella vita di Gesù, che di quel Dio è Parola, nel modo in cui lui ha amato i fratelli e le sorelle che ha incontrato nel suo cammino.
Gesù si è sempre schierato, senza se e senza ma, da una parte: quella che per la società del suo tempo era sbagliata. Dalla parte dei poveri, dei discriminati, degli impuri, delle donne: a loro, testimoni non credibili, che non potevano neanche testimoniare in tribunale, ha affidato l’annuncio della resurrezione. Andava a pranzo con i peccatori, e quel che è peggio, prima della loro conversione, del loro proposito di cambiare vita.
Ma Gesù non amava solo loro, amava anche i farisei e i maestri della legge, che, attenti a seguire tutte le regole, tenevano a distanza gli impuri, erigevano muri per non contagiarsi con la loro impurità. Per loro ha raccontato le più belle parabole. Però le sue parabole non erano belle favolette, come pensavo da piccola, qualche volta saranno arrivate come pugni nello stomaco: la parabola del samaritano era irricevibile per il dottore della legge, che improvvidamente gli aveva posto la domanda: “Chi è il mio prossimo?”. Prendere un samaritano a modello, era davvero troppo! No, non erano favolette: Gesù è stato crocifisso anche per le parabole che raccontava.
Li ha amati coloro che creavano barriere, che provocavano sofferenza, e lo facevano seguendo la dottrina e, quel che è peggio, nel nome di Dio, ma li ha amati in un altro modo: andandoli a scomodare. Il suo non era un amore alla “scurdammoce ‘o passato, chi ha avuto, ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato, ha dato”: gli oppressi erano oppressi, gli oppressori, oppressori. Nessuna confusione. Si è messo da una parte, e una sola, per salvare gli oppressi ed anche gli oppressori, proponendo loro un cammino di conversione. Con le parole che servivano. Anche dure. Questo significava per Gesù amarli e fare il loro bene.
Allora amare come Gesù ha fatto significa per noi schieraci senza titubanze dalla parte del mondo LGBT e di tutti i discriminati e le discriminate della terra, denunciare a voce alta il sistema che li opprime nella Società e nella Chiesa. Andarla a scomodare la nostra Chiesa, senza paure e senza timidezze, ogni volta che cede alla tentazione del potere, che fa esercizi di equilibrismo per non sbilanciarsi, coprendosi dietro al dire e non dire, pur di non riconoscere con semplicità e trasparenza gli errori commessi e il dolore che hanno provocato, soprattutto alle donne e al mondo LGBT. Le toglierebbe potere questo agli occhi dei potenti della terra, mettendo in discussione il potere di controllo sulle coscienze che la Chiesa esercita e per il quale i potenti la temono? Sì, ma Gesù non ci ha chiesto di metterci dalla parte dei potenti, né di occupare una posizione di potere, ha detto invece: “Il mio regno non è di questo mondo”.
Erigersi a tutori della tradizione da parte della gerarchia, per coprire un comportamento antievangelico, non è imputabile alla cattiva volontà delle singole persone, le quali sono piuttosto vittime, più o meno consapevoli, di un ingranaggio più grande di loro, che le porta istintivamente ad andare dalla parte che sentono più “sicura”. È di quell’ingranaggio che ci dobbiamo liberare, per lasciare spazio allo Spirito. Priva di potere, forte nello Spirito, la Chiesa sarebbe indomabile da ogni potere terreno.
Anche quest’anno veglieremo insieme per pregare con le vittime dell’omotransfobia, per farci coraggio e trovare la strada che ci conduca a quell’amore che significa fare il bene per chi soffre e per chi fa soffrire, rompendo gli ingranaggi che creano dolore e intrappolano gli uni e gli altri.
Quel Dio che “Fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”, creandoci, ha regalato il suo soffio a ciascuna delle sue creature. Fare il bene di coloro che incontriamo sul nostro cammino, qualunque sia la posizione che occupano o che non occupano nella Società e nella Chiesa, significa aiutarli a fare spazio, a tirar fuori quel soffio divino che si portano dentro.
Forse è sepolto sotto una montagna di ipocrisie, di incoerenze, che con qualche opportuna mistificazione ci raccontiamo in un altro modo, ma c’è e può salvarci. Veglieremo anche per questo, per trovare uno sguardo nuovo verso gli altri/e che ci permetta di vedere in loro quel pizzico di divino, che andrebbe perso se non sono loro ad esprimerlo.
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