Le unioni civili e i cattolici LGBT a cinque anni dalla legge Cirinnà
Articolo di Gianni Geraci* pubblicato sul quindicinale Adista Segni Nuovi n° 21 del 5 giugno 2021, pp.8-9
Il 29 aprile 2018 io e il mio compagno ci siamo uniti civilmente e abbiamo formalizzato, da un punto di vista giuridico, una relazione che durava ormai da quindici anni.
Nel fare quel passo, in quanto cattolico, sapevo di dover considerare con attenzione ciò che la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva scritto nelle Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali del 3 giugno 2003.
In quel documento, non solo viene espresso un giudizio negativo sulla relazione che c’è tra me e il mio compagno (cfr. 4), ma si afferma che leggi analoghe a quella di cui mi sarei avvalso avrebbero comportato «l’approvazione o la legalizzazione del male» (cfr. 5).
Cercando di capire meglio il senso di quella condanna ho scoperto che dietro c’è una riflessione molto profonda fatta da Giovanni Paolo II che, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale della Sacra Rota, era arrivato alla conclusione che «è incongrua la pretesa di attribuire una realtà coniugale all’unione fra persone dello stesso sesso» (cfr. Discorso agli officiali e agli avvocati del Tribunale della Rota romana, 21/1/99, 5). Così ho dovuto chiedermi se le cose stanno davvero così.
Per farlo ho riletto con attenzione quel discorso. Mi sono così accorto che Giovanni Paolo II, parlando delle caratteristiche che conferiscono a una relazione tra due persone quella dimensione “coniugale” che è la premessa di qualunque riconoscimento, mette in guardia i suoi interlocutori rispetto al rischio di «cadere nel facile equivoco, per cui talora si confonde un vago sentimento o anche una forte attrazione psicofisica con l’amore effettivo dell’altro, sostanziato di sincero desiderio del suo bene, che si traduce in impegno concreto per realizzarlo» (cfr. Giovanni Paolo II, cit. 3); osserva che «il semplice sentimento legato alla mutevolezza dell’animo umano; la sola reciproca attrazione poi, spesso derivante soprattutto da spinte irrazionali e talora aberranti, non può avere stabilità ed è quindi facilmente, se non fatalmente, esposta a estinguersi».
Il papa conclude che: «L’amor coniugalis non è solo né soprattutto sentimento; è invece essenzialmente un impegno verso l’altra persona, impegno che si assume con un preciso atto di volontà. Proprio ciò qualifica tale amor rendendolo coniugalis» (Ibidem).
In sostanza ci dice che l’amore coniugale comporta un impegno reciproco che dura nel tempo, e che ha come fine ultimo la ricerca del bene dell’altro. Un bene che viene cercato e perseguito non solo quando questo può portare soddisfazioni più o meno effimere, ma anche quando comporta dei pesi di cui farsi carico e delle difficoltà da affrontare. L’amore su cui si fondano le relazioni diventa quindi amor coniugalis quando non ha più la sua ragion d’essere nella soddisfazione egoistica dei propri bisogni, ma quando si trasforma in una responsabilità nei confronti del bene del partner e del bene superiore della relazione che c’è con lui.
In parole povere si può dire che l’amore diventa davvero coniugalis se, e solo se, è un amore “responsabile”, ovvero un amore che “risponde” al bisogno di bene che scopriamo nell’altro e che non si lascia condizionare dall’estro del momento. Queste riflessioni mi hanno portato a concludere che quello che c’è tra Luigi e me è davvero un amore coniugale e che, quindi, le parole di condanna usate dalla CDFnel 2003 non ci riguardano.
Altrimenti, quando all’inizio del 2016, sono stato ricoverato per più di un mese in ospedale, lui non mi sarebbe stato vicino. E non si sarebbe comportato allo stesso modo quando, otto anni prima, un infarto aveva cambiato in maniera radicale le prospettive della mia vita. Lo stesso è capitato quando mia mamma è morta.
Lo stesso è capitato quando è morto suo papà. Lo stesso è capitato quando lui ha perso il lavoro e lo stesso è capitato quando la stessa cosa è capitata a me. In tutte queste circostanze siamo rimasti vicini e quella vicinanza che è durata nel tempo non si basava certo su un «vago sentimento» o su una «forte attrazione psicofisica» ma sull’impegno preciso assunto l’uno nei confronti dell’altro di aiutarci e di sostenerci nei momenti di difficoltà.
Per questi motivi, quando, grazie alla legge Cirinnà, mi sono unito civilmente, ero sicuro della bontà di quella scelta. Sapevo che la “coniugalità” del nostro amore contava molto di più delle parole di condanna usate dalla CDF nel 2003.
Sapevo che contava di più dell’allarme lanciato da Benedetto XVI quando scriveva che «la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale» (Messaggio per la XXVI Giornata mondiale della pace, 4).
Sapevo che contava più dell’allarme lanciato dal Consiglio permanente della CEI, quando, nel 2007, scriveva: «Riteniamo la legalizzazione delle unioni di fatto inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo (…) Si toglierebbe, infatti, al patto matrimoniale la sua unicità, che sola giustifica i diritti che sono propri dei coniugi e che appartengono soltanto a loro (…). Un problema ancor più grave sarebbe rappresentato dalla legalizzazione delle unioni di persone dello stesso sesso, perché, in questo caso, si negherebbe la differenza sessuale, che è insuperabile».
E i cinque anni passati da quando, nel maggio del 2016, è stata approvata la legge che ha permesso a me e a Luigi di unirci civilmente dimostrano che quelle parole erano più il frutto di una paura ingiustificata che il risultato di un’analisi lucida della realtà.
Le catastrofi paventate da quanti si opponevano alla sua approvazione non si sono verificate, l’«utero in affitto » contro cui strillavano molti esponenti della destra italiana non è ancora legale, visto che adesso viene citato a sproposito come possibile conseguenza dell’approvazione del DdL Zan contro l’omotransfobia; anche il tanto citato quanto inesistente «complotto del gender» non ha provocato nulla, visto che viene evocato per impedire qualunque forma di riconoscimento giuridico del vissuto delle persone omosessuali e transessuali; in compenso Tony Anatrella, il monsignore francese che per primo l’aveva descritto nei suoi articoli, ha perso molta della sua autorevolezza in Vaticano dopo che è stato accusato di aver abusato sessualmente di alcuni suoi pazienti; addirittura, poco più di sei mesi fa, abbiamo scoperto che, mentre in Italia i vescovi si scagliavano contro il riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali, in Argentina l’attuale papa, secondo quanto ha detto in un’intervista del 2019, si era battuto per creare «una legge di convivenza civile» che coprisse legalmente le unioni tra persone dello stesso sesso.
E forse, un giorno, un papa dirà della legge Cirinnà le stesse cose che nel 1962 il card. Montini disse sulla breccia di Porta Pia, quando definì “frutto della provvidenza” il processo che aveva portato alla fine di quel potere temporale di papi per la cui difesa, si erano spesi così strenuamente Pio IX e i suoi collaboratori.
Non sarebbe la prima volta e, di sicuro, non sarà nemmeno l’ultima.
* Gianni Geraci è fondatore dell’Associazione Il Guado, Milano, è uno storico attivista cattolico dei diritti della comunità LGBT.