Malika e le icone mediatiche che poi si sgretolano
Riflessioni di Massimo Battaglio
Tocca che anche noi si dica due parole su Malika.
Punto primo: ha 22 anni. Sfido qualunque ventiduenne odierno a gestire 150.000 € (tale è la somma delle donazioni che ha ricevuto) in modo più oculato di come abbia fatto lei. In cinque mesi, ha affrontato l’esperienza tremenda di essere cacciata di casa perché lesbica, trovarsi per la strada nel mezzo di una pandemia, dover ricostruire la propria vita avendo alle spalle solo inesperienza e tanta giusta rabbia. E tutto da sola perché, per più di tre mesi, nessuno si è accorto di lei. Poi, verso metà aprile, si sono accesi gli occhi morbosi della tv e dei social: di chi si sforzava di dimostrare che non era successo niente e di chi fiutava l’occasione per trasformarla in una macchina da audience. Roba da impazzire.
Così è sbocciata anche la solidarietà e Malika è riuscita a pianificare spese necessarie mostrando anche un grande giudizio: non solo vestiti – che non aveva più perché erano rimasti dalla madre – ma l’avvocato, lo psicologo, il dentista. E l’affitto. Saggiamente, non ha comprato una casa, rendendosi conto di essere ben lontana dalla stabilità che richiede un immobile di proprietà (chissà dove abiterà domani). Si è portata avanti pagando la pigione per un anno. In questo sembra aver onorato pienamente chi l’ha aiutata.
E’ vero: ha comprato una mercedes da 17.000 € e non una panda. Di nuovo: sfido chiunque si trovi in tasca un sacco di soldi ma nessuna certezza del domani, a comprare un catorcio da pochi spiccioli che sarà da cambiare tra pochi anni, quando, magari, i denari saranno finiti. Ha semplicemente mostrato maturità.
Poi ha comprato anche un cane di razza. E qui ha cominciato a mostrare i primi cedimenti. Il buon senso e la fermezza iniziavano a esaurirsi. Sì perché i cani non si comprano. Anche i ragazzini sanno che esistono i canili. E una ragazza che si è trovata per strada dovrebbe fare di tutto per evitare che nessuno soffra il suo stesso dolore, neanche un cane.
Infine, si è messa a raccontare un sacco di balle, chissà se consapevolmente o meno, su donazioni che non ha ancora fatto, fondazioni che non ha ancora fondato, personaggi autorevoli che non ha ancora contattato. In questo, Malika ha pienamente dimostrato di aver bisogno non di riflettori ma di qualcuno che la guidi passo per passo e parola per parola.
Attenzione: non era affatto obbligata a devolvere in beneficenza i soldi ricevuti, nemmeno per un dovere di riconoscenza. Soprattutto, non era tenuta a farlo in fretta, prima di aver calcolato perfettamente la somma da trattenere per sé. Ma di nuovo: ha ventidue anni e nessuna esperienza associativa. E la promessa di devolvere “il surplus” le è stata praticamente estorta, alimentando appetiti e accendendo riflettori sempre più accecanti.
Ora il problema è grave. Da una parte ci sono i giornali di destra che finalmente gongolano con qualche ragione; dall’altra, coloro che si sono sentiti traditi (spesso mostrando un moralismo inaccettabile).
Ci accorgiamo di aver costruito un’icona dell’omofobia e adesso ci si squaglia in mano. Emergono le fragilità umane, la complicatezza del quotidiano, l’ingenuità e persino i vezzi. Emerge la persona, quella vera, e si sgretola il suo monumento.
E d’altro canto, stiamo assistendo al finalino di un’operazione di solidarietà un po’ troppo spontanea e ridotta a elemosina (tanta, copiosa, irresponsabile elemosina): soldi versati direttamente a una persona, ancorché molto giovane, anziché a un’associazione seria che se ne prenda cura. Perché siamo arrivati a questo delirio?
La prossima volta, andiamoci piano, prima di intronizzare una ragazzina. Il caso di Malika che ora passa per una smorfiosa rischia di coinvolgere negativamente tutte le altre 1309 vittime di omofobia che abbiamo registrato in questi nove anni (per non parlare delle migliaia di quelle che sono rimaste anonime): chi le prenderà ancora sul serio? Chi sarà ancora disposto a donare qualcosa per la lotta contro l’omofobia?
C’è il pericolo, pazzesco, che si diffonda l’idea che, chi denuncia un atto omofobo, lo faccia per soldi. E sarebbe un’idea mostruosa. Ma ripeto: il problema non è l’icona ma chi l’ha dipinta.