Parole oltre, il cristianesimo come modo di agire
Articolo di Filippo La Porta pubblicato sul quotidiano Il riformista il 9 luglio 2021, pag.9
In paradiso Dante riesce a passare, con estrema sicurezza, gli esami teologali in quanto ci mostra come la fede, la speranza e la carità sono anzitutto qualcosa che lui vive e sperimenta ogni giorno. Se la teologia non coincide con una concreta esperienza si riduce a un sapere accademico, perdipiù supponente.
Roberto Righetto in “Parole oltre. I libri che i cattolici devono leggere” (Edizioni dell’Asino,2020, 255 pagine) assume il cristianesimo non tanto e solo come dottrina ma come «un certo modo di esistere dell’uomo» (Silvano Petrosino nella prefazione), un modo di pensare, agire e soffrire.
E per farlo si avventura in una personalissima escursione nel ‘900, proponendoci alcune figure intellettuali “eretiche” (non allineate), o rilette in modo eretico, alla ricerca del filo invisibile non di un pensiero cattolico ma di un pensiero “umanistico” (nel senso di un umanesimo critico, a volte dolente, malinconico).
Da Simone Weil a Franco Cassano, da lean Danielou a Rèmi Brague, da Camus a Kapuscinski, da Flannery O’Connor a Mircea Eliade, da Irène Nemirovsky a Amos Oz, da Guardini a Kundera, da Maritain a Pontiggia… Poi, dopo questi microritratti, la messa a fuoco, originale e rigorosa, di alcune parole chiave del nostro lessico: bontà, corpo, fragilità, inquietudine, nonviolenza, postmoderno, resurrezione, sessantotto, sofferenza…
Una enciclopedia portatile – a suo modo esaustiva, e mai pedante -, un prontuario etico per il nuovo millenio.
Quell’umanesimo, radicato nel cristianesimo e nel mondo classico, intrecciato con l’identità stessa dell’Europa, si potrebbe riassumere in alcuni caratteri di fondo: senso del limite e del mistero; idea che il mondo si presenta anzitutto come molteplicità, pluralità, dove il punto di Archimede è in relazione all’altro; necessità di amare sia gli umiliati, i falliti, i fatti a pezzi dalla vita (diceva Aldo Capitini), più vicini alla verità ultima della condizione umana, sia la bellezza del cosmo (Camus); una immagine della fede cristiana come gioia – prima di essere penitenza – proprio in quanto amore per la vita, per il corpo, per la carne (contro qualsiasi neognosticismo che svaluta la materia); l’esigenza di abbandonarsi con fiducia alla relazione, sapendo che non ci si salva mai da soli (contro i neopelagiani). Innumerevoli gli spunti e gli argomenti trattati, ed è certamente impossibile darne conto anche solo in un modo veloce. Forse è più interessante sottolineare non la coerenza dell’insieme ma le contraddizioni, le differenze, le piccole incrinature.
Gran parte della riflessione, ad esempio, ruota intorno alla questione della teodicea, della presenza enigmatica del male – la sua dismisura – in un mondo pur sempre creato da un Dio buono e onnipotente. E allora, benché si sia ipotizzata (Bonhoeffer) la paradossale, volontaria debolezza di Dio, la sua impotenza, il suo ritrarsi dal mondo per amore, allo scopo di fare esistere qualcosa di diverso da lui (Dio si compiace dell’autonomia delle creature), «non è possibile supporre che Dio sia imprigionato in un ritiro kenotico per tutto il tempo in cui dura la storia degli uomini».
Il suo “ritiro” – per un credente – non può essere permanente (si veda il teologo Emanuelle Durand), e in ogni caso preannuncia la vittoria finale sul male.
In tutto il libro scorre un punto di vista radicale su quella storia degli uomini, in particolare la storia che riguarda questa parte del globo: il teologo Italo Mancini «liquida l’avventura del pensiero occidentale» incapace di vincere la guerra e la logica del dominio. Vero, Simone Weil diceva nel 1943 che si poteva sconfiggere militarmente Hitler ma se non spazziamo via una idea di grandezza (modellata sulla forza) qualsiasi futuro adolescente si ritroverà ad ammirare Hitler!
Eppure al pensiero occidentale non riesco oggi a immaginare alternative credibili. Come scrive Brague, qui citato, «l’Europa emerge nel prolungato tentativo di vedersi attraverso gli occhi dell’altro». È la “secondarietà” del cristianesimo, erede della cultura ebraica e di quella greco-romana che ha permesso finora all’Europa di dar vita a varie fasi di Rinascenza, da quella carolingia del ‘300 al Rinascimento, all’illuminismo…
Entro la storia dell’Occidente, fatta di amore e di tenebra per parafrasare il grande Oz, affiora continuamente una logica di accoglienza e integrazione accanto a quella della sopraffazione. Nessun relativismo culturale può obliterare un dato del genere.
Vorrei concludere su un punto che ritengo decisivo. Il tema della purezza, lean Guitton combatte l’eresia catara che in nome della purezza radicale svaluta la materia e condanna la procreazione stessa (altra cosa sono gli asceti cristiani).
A ciò oppone giustamente la logica dell’incarnazione: nell’esistenza non ci capita mai «né solo di vivere né solo di soffrire, né di avere tutto né di avere nulla, ma di consumarsi e portarsi a compimento nella mescolanza del tutto e del nulla» (sembra quasi una parafrasi di Pascal). E ancora: «il puro non è l’incolore, l’inodore, l’aria condizionata, l’acqua minerale, il tessuto uniforme… la vera purezza si ottiene con una tensione». Già, se per puro intendiamo uniformità, asetticità, etc. allora la vita è costituzionalmente impura, contaminata, multiforme, e fortunatamente ha molti odori e sapori.
Perché si tratta di un punto decisivo? Perché questo discorso può diventare un comodo alibi, un passepartout per ogni opportunismo e comportamento moralmente aberrante (anche recentemente uno scrittore italiano osservava, un po’ sofisticamente, che cercare la purezza equivale a fare un torto a se stessi come creature complesse!).
Proviamo allora a riformularlo: un conto accettare l’impurità dell’esistenza, il suo essere ambivalente, impastata di bene e di male, di tutto e di nulla, il suo carattere tragico (che costringe al compromesso: ognuno ha le sue ragioni), e un altro conto aspirare all’ambiguità, autogiustificarsi in ogni scelta, assumere l’impuro come programma e giudicare la purezza solo una illusione!
Guitton parla infatti di purezza come tensione verso, ricerca, movimento incessante verso qualcosa di inappropriabile. Dante non smette di cercare la purezza – sempre balenante, misteriosa, effimera – ma non per questo fa un torto a sé come creatura complessa.