I tradizionalisti e la “lobby gay” davanti alla “Traditionis Custodes”
Riflessioni di Massimo Battaglio
A Torino c’è un giornale che si chiama “Lo Spiffero”. Ci scrivono un po’ tutti, dagli esponenti di Rifondazione Comunista al gruppo delle “Madamin” (che sostengono il candidato sindaco di destra). L’importante è che si lamentino. E tra i più lamentosi c’è uno di quei latinomani che ce l’hanno con papa Francesco. E’ addetto a criticare continuamente qualunque cosa capiti nella Chiesa locale, da lui giudicata troppo “progressista”.
Visto che in questi giorni non c’è niente da dire (Chi sono i no-vax? Cos’è la riforma della giustizia? Un assessore leghista spara su un marocchino, e allora? E il ddl Zan, questo sconosciuto?), il nostro trova tanto tempo per polemizzare sul motu proprio “Traditionis Custodes” e la sua applicazione in Piemonte.
Niente di male. Abbiamo sempre teorizzato una Chiesa che discute, fa tesoro delle opinioni e delle passioni di tutti e alla fine arriva a sintesi. Dunque, anche il parere dei latinomani è prezioso. Senonché, il suo articolo di oggi conclude così:
“Si dice che la lobby gay, ben presente nelle diocesi e nelle curie piemontesi, sia al settimo cielo poiché Traditionis Custodes li ripaga, con la sua durezza verso i tradizionalisti, delle «sofferenze» che devono sopportare in vista di una Chiesa finalmente al passo con i tempi”.
Ora: io conosco un solo “esponente” della “lobby gay” così “presente” nella diocesi torinese da essersi espresso in merito. Sono io. E quindi, sentendomi chiamato in causa, non mi resta che ribadire la mia posizione, non da liturgista ma da persona che va a messa, pienamente soddisfatta per il decreto di papa Francesco.
Mi basterebbero due parole: era ora. E non tanto perché vi vedo un colpo contro i tradizionalisti (anche) ma proprio perché, avendo assistito a qualcuna di queste liturgie d’antan (da piccolo in forma ordinaria e più di recente in una di queste conventicole nostalgiche), non posso che apprezzare l’operazione di pulizia che il Papa ha voluto compiere.
Gesù non parlava in latino
Se la messa è il rinnovarsi del sacrificio di Cristo annunciato con l’ultima cena e consumato sulla croce, è assurdo che si celebri in latino, perché Gesù, il latino, non lo parlava. Spezzò il pane rivolgendosi agli apostoli in dialetto aramaico; offrì i suoi ultimi gridi al padre nella stessa lingua. “Eloi lama sabachthani” non è latino, nè greco e nemmeno ebraico letterario: è proprio quel vernacolo che si parlava a Gerusalemme tra gente comune.
Dio assume le lingue del suo popolo. Non ha una lingua preferita. Anzi, nel giorno di Pentecoste, dona ai suoi la capacità di esprimersi nelle lingue dei popoli che incontreranno:
“Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio” (At 2,7-11).
Se, a un certo punto, la Chiesa decise di assumere il latino come lingua ufficiale, non fu perché sentiva il bisogno di possedere una lingua sacra ma perché riconosceva, nel latino, la qualità di lingua universale, capita più o meno da tutti. E non scelse la lingua più colta e più nobile sulla piazza (in quel caso avrebbe adottato il greco) ma piuttosto la più pratica: quella usata nel commercio e nella politica.
Dunque, i latinomani hanno torto due volte: per un motivo storico e uno simbolico. Il motivo storico è che la Chiesa non scelse una lingua magica ma una lingua comprensibile. Il motivo simbolico è che Gesù scelse di parlare la lingua madre dei suoi apostoli per significare che lo Spirito avrebbe dimorato proprio in loro, non in un luogo lontano da loro, e proprio di loro e della loro cultura si sarebbe servito.
La messa non è un rito magico
Il messale di S. Pio V, compilato a pochi anni dalla proclamazione del dogma della transustanziazione, aveva due grandi preoccupazioni: creare un rito uniforme per tutta la cattolicità e sottolineare, in ogni passaggio, il ripetersi del miracolo eucaristico. E va bene. Ma miracolo non è magia! Mi pare di aver capito che l’autore del miracolo è lo Spirito, non il “sacerdos magnus” che si lava tre volte le mani, compie trentatrè inchini e alla fine dà licenza a Nostro Signore di incarnarsi nel pane e nel vino.
Nè la trasustaziazione è l’unico miracolo che si verifica durante la messa. Mi sembra di ricordare che ce n’è un altro: quello per cui lo Spirito stesso discende nell’assemblea mediante la consumazione del suo corpo donato a ciascun fedele come segno di comunione. Nella celebrazione eucaristica si concretizza la parola di Gesù:
“Dove due o più sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro” (Mt 18,15-20).
Tra i sostenitori del rito antico invece, uno degli argomenti portati a difesa dei sacri inchini è proprio “quell’aura di magia”.
Bene, cari latinomani: la magia, ce la vedete voi. Mia nonna, quando assisteva all’unico tipo di messa che aveva a disposizione, alla magia, non ha mai pensato. E meno male, perché, ricordo, la magia è sempre stata condannata da tutti i concili, compreso quello di Trento.
La messa non è teatro
Un altro pesante retaggio storico del messale tridentino (che non è affatto il “messale di sempre” ma una sintesi, anche piuttosto datata, di diversi usi liturgici diffusi nel tempo e nello spazio) è a mio avviso la sua teatralità. E in effetti, esso fu concepito all’alba del periodo barocco, quando si viveva un legame fortissimo tra la realtà e la sua rappresentazione.
Molte parti e molti gesti ivi proposti sono tipicamente barocchi e adottano il linguaggio della metafora e dell’iperbole. Per esempio, i paramenti sacerdotali non hanno nulla di sostanzialmente comune colle vesti degli antichi ma ne sono una traduzione scenica. Lo stesso vale per la forma dell’altare, che non c’entra niente con la mensa dei primi cristiani ma somiglia più a un’ara pagana. Anche la lettura della Parola di Dio diventa, col messale tridentino, più un gesto commemorativo, che un momento di ascolto collettivo, prolungato e attualizzato.
Oggi, tutto ciò è insopportabile. E non tanto perché ci muoviamo in un universo simbolico diverso ma perché sappiamo che non tutto è rappresentabile, che rappresentare una cosa non vuol dire renderla vera e che il teatro non è che finzione.
Andare a messa per assistere alla mimesi di un prete che si finge Gesù Cristo, per noi uomini del ventunesimo secolo, ha qualcosa di blasfemo.
La messa è Parola in azione
Ho fatto un breve conteggio delle letture proposte con il nuovo e col vecchio rito. Oggi, data la scansione triennale del ciclo festivo e biennale di quello feriale, chi frequenta le sole messe di precetto può ascoltare circa 700 letture. Frequentando tutti i giorni, si arriva a 1300. Col rito dei latinomani, che prevedeva sempre due letture distribuite in un solo anno liturgico, 700 era il massimo mentre il minimo precipitava a 120. Gran parte del Nuovo Testamento e quasi tutto il Vecchio restavano oscuri per la gran maggioranza dei fedeli.
Come può definirsi “fondata sulla Parola” una Chiesa che, della Parola, ha un concetto quasi decorativo?
I latinomani sostengono che la messa è anche adorazione e silenzio. Il che, secondo me, è vero solo fino a un certo punto, in quanto il termine “comunità orante” (che non è postmoderno ma piuttosto antico) non è sinonimo di “comunità adorante” (anzi!). Ma in ogni caso, il silenzio si ottiene evitando il nostro rumore, non togliendo la parola a Dio!
Per converso, la risposta alla Parola di Dio non può ridursi a un’intenzioncina silenziosa che ciascuno dice “nel proprio cuore” (cioè facendosi i fatti propri e pensando, quando va bene, alla fidanzata).
L’assemblea, che è corpo di Cristo, deve esprimersi, presentando a Dio “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi” (GS1). E deve farlo con tutti i mezzi a propria disposizione: il canto, la varietà delle offerte, la preghiera dei fedeli.
Se ai latinomani non piacciono le intenzioni di preghiera di plastica che vanno tristemente di moda oggi, si sforzino di comporne di migliori, non di abolirle. Esse sono parte essenziale della Cena del Signore. Abolirle per cinquecento anni in nome della perfezione del rito è stato un grave errore.
Cosa c’entra tutto ciò con la “lobby gay”?
Ah non lo so. Non l’ho mica tirata fuori io. Anzi: conosco fior fior di gay appassionatissimi non solo alla messa ma anche dei vespri in latino (oltre che alle battute di “Il Diavolo Veste Prada”).
Ci liitgo spesso e la cosa mi diverte tantissimo. Il che dimostra che il tradizionalismo in sé non è nemmeno appannaggio dei conservatori e dei reazionari. Ci sono anche latinomani di ampie vedute, per quanto mi paiano un po’ schizzofrenici.
Chi provoca alla comunità lgbt le maggiori “sofferenze” non sono mica gli adoratori del tempo che fu. Anzi: alla scontatezza delle loro posizioni, abbiamo fatto la tara, il che ci lascia dormire sonni tranquilli.
Chi ci inquieta, e spesso ci delude, sono piuttosto quei cattolici finto-progressisti, tutto social, tutto battute in giovanilese, che non fanno altro che riproporre vino vecchio in otri nuovi. O peggio ancora, ci deludono quelli che si mostrano avanti in tutto (per esempio nelle materie dell’ecologia, della globalizzazione e dell’eguaglianza sociale), salvo poi condannare noi per controbilanciare il loro progressismo.
Questi sì, che ci fanno male.