Il giorno dopo la Giornata del coming out
Riflessioni di Massimo Battaglio
L’undici ottobre era la giornata del coming out, una scadenza importante nel calendario LGBT+. E’ il giorno in cui si celebra il diritto-dovere, da parte delle persone omosessuali, bisessuali, transessuali ecc, di affermare apertamente la loro esistenza, requisito propedeutico all’affermazione di qualunque diritto.
Non ho scritto nulla ma ho letto molto perché mi interessava soprattutto vedere come si sta evolvendo la questione: quali differenze di approccio ci sono tra i metodi e i modi di “venir fuori” della mia generazione (io ho 56 anni) e quelli dei giovani d’oggi.
La giornata del coming out, per quelli come me che cominciano a esser vecchi, era un appuntamento in cui ci si faceva forza, perchè c’era ancora bisogno di farsi forza. Nel raccontarci l’un l’altro come era stato il nostro coming out, venivano fuori espressioni da battaglia. Parlavamo della nostra “vittoria” o quasi “vendetta” nei fronti dei nostri genitori “bigotti”. La frase più ricorrente era “li ho stesi”, alla quale facevamo talvolta seguire storie di lunghi e faticosi riavvicinamenti e talvolta no. Il coming out, per molti di noi, era un taglio netto e volevamo ricordarlo così. In realtà, le cose avevano avuto quasi sempre contorni più sfumanti ma ci piaceva presentarci come persone coraggiose.
Oggi ho letto dichiarazioni completamente diverse:
“Nonna, sono gay”.”Mamma lo sa?” “Si, lo sanno un po’ tutti…”. “E perché non me l’hai detto prima?”
Mamma e nonna: “Pietro è gay”. “Me l’ha detto già il nonno, grazie!” “E chi gliel’ha detto?” “Zia Anna!”
Io e cugina: “sai, vedi, io..sono lesbica”. “Da mo che lo sapevo. Com è la patata?”
“Frate’ (14 anni), sono lesbica”. “Scusami se ti ho chiesto di ragazzi in tutti questi anni” .E mi abbraccia: ero nervosissima.
Personalmente, non mi piace ridurre il coming out, specialmente quello in famiglia, a uno scambio di battute guerresche cui fanno seguito scene isteriche e pianti o, all’opposto, abbracci e sorrisi e bottiglie di champagne che si stappano.
Il coming out, per qualunque genitore, anche il più progressista, è sempre una mazzata, nel bene e nel male, come tutte le cose inattese per le quali non ci si è preparati. Ed è del tutto comprensibile.
Uno cresce un ragazzo per quindici, sedici, diciotto anni proiettando inevitabilmente su di lui i propri modelli, e poi scopre all’improvviso che egli è completamente diverso da come se lo immaginava, che avrà una vita totalmente altra e che ha “tenuto nascosto” qualcosa di profondo e fondamentale. Nel migliore dei casi ci si domanda: perché non me lo ha mai detto? Aveva paura di me? Dove ho sbagliato per non meritarmi la sua fiducia?
Attenzione: non dico che il coming out sia un momento necessariamente tragico ma un gesto difficile, cioè complesso e faticoso, per chi lo compie e per chi lo riceve. Poi, le reazioni possono anche essere ironiche o strabordanti d’affetto, ma, soprattutto in questi casi, nascondono l’inquietudine di entrambe le parti.
Chi parla di coming out festosi o passati nell’indifferenza compie un atto identico a chi parlava di scontri e separazioni: idealizza i suoi desideri perché non ha ancora la capacità piena di accettare e valorizzare la realtà.
Ma ho continuato le mie letture e mi sono imbattuto nella testimonianza dell’Assessore all’Istruzione, Cultura e Politiche Giovanili della Città di Aosta, Samuele Tedesco. Anche Samuele è giovane (classe 1993) ma ha già avuto qualche occasione in più per riflettere su se stesso. Questo è il messaggio ufficiale che ha pubblicato per la giornata del coming out.
Voglio scrivere un qualcosa oggi perché, seppure son convinto che le “giornate” hanno sicuramente un valore simbolico, credo che il lavoro nei confronti del raggiungimento della piena uguaglianza giuridica e morale, così come la garanzia di una vita serena e senza paure, sia da fare quotidianamente.
E l’azione politica serve proprio a questo. C’è chi qualche giorno fa, in Consiglio Regionale, gridava allo scandalo nei confronti della comunità LGBT+ perché osa portare avanti un’azione politica, quella dell’abbattimento di pregiudizi, in particolare sulle scuole. Eppure, “chi ha paura dell’apertura al mondo”?
Sono diverse le emozioni e le sensazioni che ho provato quando ho osato dire il nome di un amore sin troppo spesso segregato, o quelle emozioni, quel dolore delle lacrime trattenute davanti agli insulti, alle minacce ricevute.
Le elezioni amministrative del 3 e del 4 ottobre sono state un’onda rainbow con l’elezione di tanti amici e tante amiche LGBT+ ovunque in Italia. Auguro a loro un buon mandato, convinto di come loro possano portare avanti, 365 giorni l’anno, una politica di uguaglianza e di benessere per tutt*.
Coming out come gesto politico; giornata del coming out come riconoscimento di un impegno politico che dura tutto l’anno. Questa è una cosa che credo anch’io. Se la politica è l’arte di risolvere insieme problemi comuni mettendo insieme le proprie risorse, il coming out è davvero una questione politica. Spesso è il primo atto politico di cui una persona LGBT+ è protagonista, magari inconsapevolmente. Infatti, nel dire “io sono omosessuale”, sottende: “adesso, io e te parliamo di omosessualità e non ti puoi tirare indietro”.
Il coming out diventa un gesto politico ancora più forte quando viene fatto di fronte a gente di chiesa. Perché allora, il sotteso della dichiarazione “io sono omosessuale” è ancora più importante. Diventa: “Cari amici, mi conoscete da sempre. Ma c’è una cosa di cui non vi ho ancora parlato e che adesso voglio mettere in comune. E vediamo se avete il coraggio di cambiare idea su di me applicandomi le vostre finte certezze”.
Bisognerebbe che ci imponessimo di celebrare la giornata del coming out in tutte le parrocchie.