“Non abbiate paura degli strani angeli di Betlemme!” (Lc 2,10)
Riflessioni bibliche tenute all’incontro del Progetto Ruah di Trieste da Ruggero Marchetti, pastore delle Chiese Valdese e Metodista di Trieste, il 15 dicembre 2012
“In quella stessa regione c’erano anche alcuni pastori. Essi passavano la notte all’aperto per fare la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro, la gloria del Signore li avvolse di luce ed essi ebbero una grande paura. L’angelo disse: “Non temete! Io vi porto una bella notizia che procurerà una grande gioia a tutto il popolo: oggi per voi, nella città di Davide, è nato il Salvatore, il Cristo, il Signore.
Lo riconoscerete così: troverete un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia. Subito apparvero con lui molti altri angeli. Essi lodavano Dio con questo canto: “Gloria a Dio in cielo e sulla terra pace per quelli che egli ama”.
Poi gli angeli si allontanarono dai pastori e se ne tornarono in cielo. Intanto i pastori dicevano gli uni agli altri: “Andiamo fino a Betlemme per vedere quel che è accaduto e che il Signore ci ha fatto sapere”.
Giunsero in fretta a Betlemme e là trovarono Maria, Giuseppe e il bambino che giaceva nella mangiatoia. Dopo averlo visto, fecero sapere ciò che avevano sentito di questo bambino.
Tutti quelli che ascoltarono i pastori si meravigliarono di quello che essi raccontavano. Maria, da parte sua, custodiva il ricordo di tutti questi fatti e li meditava dentro di sé. I pastori, sulla via del ritorno, lodavano Dio e lo ringraziavano per quel che avevano sentito e visto, perché tutto era avvenuto come l’angelo aveva loro detto. (Lc 2,8-20)
Questo è il testo che parla dei pastori di Betlemme, un testo che tutti conosciamo, il testo più scontato, più classico che ci possa essere se si pensa al Natale. È il “testo di Natale” per eccellenza. È il presepe poi, in fondo.
Nel libro “Versetti pericolosi” di padre Alberto Maggi, al primo capitolo, si accenna al fatto che questi pastori non erano affatto “i pastori del presepe”, queste figure un po’ poetiche.
Per noi i pastori sono sempre un po’ poetici: veniamo da una tradizione dell’Arcadia in Italia, per cui il pastore dietro alle pecore è sempre una cosa un po’ classica, un po’ romantica. In realtà – dice Maggi – i pastori nella Scrittura, soprattutto nell’epoca in cui si colloca il brano (I secolo), non erano affatto arcadici, anzi! Erano emarginati, pericolosi, figure negative.
C’è un salmo, il 121, che inizia dicendo: “Alzo gli occhi verso i monti: chi mi potrà aiutare? L’aiuto mi viene dal Signore che ha fatto cielo e terra”. Quell’alzare gli occhi ai monti non è, come spesso viene interpretato, un sollievo (uno guarda i monti, sopra i monti c’è il cielo, si arriva a sollevarsi, ad elevarsi al cielo…); in realtà c’era una grande paura.
Quel salmo è un canto di pellegrinaggio, è un pellegrino che dal proprio paese sta partendo per andare al Tempio a Gerusalemme, si trova a dover viaggiare solo e vede davanti a sé le montagne che dovrà attraversare per poter arrivare a Gerusalemme.
La strada lo porta lì, poi diventerà una mulattiera, un sentiero. E su quella strada c’era un serio pericolo di incontrare i pastori, e non sarebbe stato un incontro lieto perché erano briganti: ammazzavano e portavano via tutto! Bisognava proprio raccomandarsi al Signore.
Per un ebreo un incontro con dei pastori, lì dove vivevano, fuori dalle città, negli spazi aperti, era un pericolo perché questa gente era disperata. C’è un altro aspetto: scegliendo di fare i pastori (e probabilmente non potevano scegliere altro), si mettevano automaticamente al di fuori delle norme di “purità”. Per fare il pastore si doveva stare con il proprio gregge in campagna, e quando mangiavano non potevano mettersi a fare le loro abluzioni, che non servivano solo per l’igiene personale, ma erano fondamentali per la purezza.
Un pastore non poteva rispettare queste norme nella condizione in cui era, e pertanto viveva in una condizione di continua impurità, a contatto con gli animali. C’era una doppia condizione per cui erano visti male: per motivi pratici e per la continua impurità. Avendo fatto questa scelta (probabilmente perché emarginati, già fuori legge), venivano mandati a custodire questi armenti affidati da persone ricche, praticavano abitualmente il furto, la rapina e l’omicidio e lo subivano spesso, perché c’era sempre qualcun altro che li attaccava per prendere il loro gregge.
Se fate caso in Luca c’è scritto che loro erano lì a fare la guardia al gregge di notte, non dormivano perché potevano arrivare altri. E facevano la guardia con la mano sul pugnale. Gente abituata a dare morte, a colpire e anche a correre il pericolo di essere uccisa, uomini duri. Questo fatto che i pastori rappresentassero una categoria impura in Israele non è così scontato.
La bellezza della Bibbia è il fatto che è il libro che più di ogni altro libro sia arrivato a noi dall’antichità racconta non solo del Dio vivente, ma anche dell’uomo vivente, della vita degli esseri umani. E lo fa raccontando la vita, le evoluzioni, le involuzioni, i progressi, il tornare indietro di un popolo, Israele. Un popolo che proprio perché vive lungo il tempo, cambia, come capita a tutti.
E cambia anche a livello della sua composizione, della sua compattezza: è una sociologia che varia continuamente in Israele.
Per esempio, un cambiamento importante va proprio in questo senso: all’inizio, nell’Esodo, troviamo un popolo di nomadi che si sposta con il suo gregge da una parte all’altra. Ed è un popolo di persone che vivono una sostanziale condizione di “parità sociale”: sono tutti ex schiavi, tutta gente che vive nelle tende, che vive dei propri animali, che vive probabilmente anche dei furti nei posti in cui passavano. Sostanzialmente, però, uomini liberi, molto legati fra di loro, fra cui non c’erano delle grosse differenze, formavano un’unità e questo avveniva anche nel rapporto con Dio.
Quante volte Dio si rivolge al popolo dando del “tu”: “tu, Israele, ascolta!”. Lo può fare perché sono, nel bene e nel male, un corpo unico, un’unità in cui non ci sono ricchi, non ci sono poveri, non c’è differenza. In fondo i dieci comandamenti (se li vediamo sotto quest’aspetto) sono il sogno di una comunità di uomini liberi, sono le condizioni che Dio da ad Israele (o che – in una lettura un po’ più laica – Israele si da) per vivere come un popolo di uomini liberi. Sono stati liberati dalla schiavitù e devono continuare ad esserlo.
Allora ci sono questi strani comandamenti, queste strane parole di cui l’ultimo (e di solito in una lista l’ultimo ha particolare importanza) è quello che vieta il malocchio, l’invidia, guardare l’altro con occhio cattivo per desiderare ciò che all’altro appartiene. Questo non deve accadere, non ha senso in questo popolo: tu sei libero dall’invidiare l’altro, dal desiderare quello che l’altro ha, perché tu hai quanto l’altro, perché tutti hanno (o non hanno) nella stessa misura. Il sogno di questo popolo di persone libere, uguali, però, non durerà a lungo.
Già la terra promessa, il fatto di vivere in Canaan (che diventa Israele), il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà significa che tu cominci ad avere il tuo campo, le tue cose, anche se – stando ai testi biblici – la divisione viene fatta sulla base alla volontà di Dio e ognuno ha il proprio appezzamento come un dono che Dio fa a quel clan familiare.
Esistevano tutta una serie di norme che facevano sì che quel terreno dovesse continuare ad appartenere a quella famiglia, non poteva essere dato ad altri. Se il terreno non aveva prodotto, erano costretti a chiedere un prestito e questo prestito arrivava al punto che si era costretti a cedere il terreno all’altro, dopo 50 anni il terreno tornava indietro. Non sapremo mai se questa regola sia stata applicata o no, però è indicativo che ci sia.
È il giubileo: dopo 50 anni i debiti sono annullati e tutto torna come prima. Proprio perché c’è questo sogno, ogni nucleo familiare (perché in questo periodo non si concepisce l’individuo) ogni clan ha il suo terreno e lo deve mantenere, ogni clan è uguale a tutti gli altri.
Israele, però, non riuscirà a vivere questa condizione, perché c’è la tentazione (la Bibbia la presenta così) di essere come tutti gli altri popoli. Hai la tua terra, la tua indipendenza, allora vuoi avere il tuo re, la monarchia.
La cosa particolare e bella della Bibbia è che ci riporta sia il parere (che è quello maggioritario) di coloro che vedono nella monarchia come un dono di Dio, una nuova alleanza nell’alleanza di Dio col popolo (pensiamo a tutta la mistica legata a Davide e alla sua casa); e dall’altra parte la parola viene data anche a coloro che si oppongono a tutto questo (il discorso che fa Samuele quando vanno a chiedergli un re, cfr. 1Sam 8,1-22).
Un re significherà che prenderà i vostri figli, li porterà nella sua corte, non potranno stare a lavorare il vostro campo, voi diventerete poveri; insomma si creerà una società con ricchi, con una classe ricca e dominante e con altri poveri.
Ma gli anziani in Israele, i rappresentanti delle tribù continueranno a dire: “No, noi vogliamo essere come tutti gli altri popoli, vogliamo avere un re” ed avranno un re. Avranno un tempio (anche quello un cambiamento importante), un clero che si sviluppa. La parola “clero” significa proprio scelto, messo da parte. Si creerà una classe eletta, particolare. E quindi cominceranno a essere un popolo come tutti gli altri, con ricchi e poveri.
La cosa particolare è che poi con i profeti quelli che saranno considerati colpevoli sono i ricchi, non faranno altro che tuonare contro le ingiustizie che vengono commesse. Già lì comincia a crearsi una spaccatura all’interno popolo: si è creata a livello sociale e si crea anche a livello spirituale. Ci sono delle classi particolari che sono le più esposte al peccato. In questa prima fase della monarchia per i profeti sono i ricchi, i potenti. È strano, però è così.
Poi c’è l’esilio, proprio per la colpa di questi ricchi che commettono ingiustizie verso i più poveri. Al rientro dall’esilio la situazione cambia, non c’è più un regno, non c’è più uno stato indipendente, Israele è una piccola provincia di grandi imperi: la Persia, Alessandro Magno, la Siria, Roma. Allora c’è la necessità di mantenere la propria identità e si sviluppa tutta una serie di regole per mantenere la propria purità.
È in questo momento che il sabato assume un’importanza fondamentale, così come la circoncisione, e così via. Tutti devono seguire queste regole di purità, tutte devono metterle in pratica, anche perché c’è la consapevolezza che se Dio ha punito prima per il suo peccato, ora si deve stare attenti a non peccare più se no arriva qualche altro guaio!
Se vogliamo sperare che ci sia un’epoca nuova per noi, un nuovo regno (comincia in questo tempo la speranza legata al Messia) noi dobbiamo comportarci in un determinato modo.
Ma c’è chi non si comporta in quel determinato modo, come in ogni comunità umana. E questa gente comincia a essere messa all’indice, e questa volta il discorso è capovolto rispetto ai profeti: in questa comunità che si forma, in questo nuovo popolo (il giudaismo) è forte la presenza di influssi di popoli circostanti. C’è la sapienza, per esempio, che adesso è entrata.
E uno dei principi cardine della sapienza è la retribuzione, cioè se io sono buono e giusto Dio (le divinità, la sorte…) mi premierà. Il giusto è premiato, il peccatore è punito. Pensiamo per esempio agli amici di Giobbe che dicono: “Tu devi aver peccato se ti è capitato tutto questo, altrimenti non si spiega”.
Gli amici dicono questo non perché si preoccupano di Giobbe, ma si preoccupano della loro sorte, perché se siamo dinanzi a un Dio che non segue queste regole, allora anche noi siamo in pericolo, noi che ci consideriamo brave persone al riparo dai guai.
E quindi è necessario riaffermare con forza questo discorso della retribuzione. Quella che prima dai profeti era vista come un pericolo (la ricchezza che allontanava da Dio) questa volta viene vista come la benedizione di Dio (se sei ricco e ti va tutto bene è perché Dio ti ha benedetto).
Se tu sei così ricco da non dover andare a lavorare, da avere le tue greggi e da avere altri non pii come te che te le vanno a guardare (i pastori), tu hai il tempo di metterti a casa, di leggere la scrittura, di imparare tutte le norme, di metterle in pratica e sarai sempre più giusto, sempre più a posto, Dio ti benedirà sempre di più e tutto andrà per il meglio.
C’è una sorta di imborghesimento della fede in questo periodo. E nascono queste categorie che vanno contro quest’ordine perduto e cominciano a essere messe all’indice, anche perché vengono viste come quelle che effettivamente mettono in pericolo il progetto di Dio per il suo popolo.
I farisei si impegnavano in maniera attentissima a seguire tutte le norme di Dio e della legge perché pensavano che in questo modo il Regno di Dio sarebbe arrivato prima sulla terra.
Tutti quelli che non facevano come loro mettevano nei guai anche loro, annullavano i loro sforzi. A questo punto l’unità di questo popolo di cui abbiamo parlato all’inizio è saltata via completamente. La parola “fariseo” vuol dire “separato”, i farisei sono quelli che si separano dagli altri che invece non seguono queste norme, e che rivedicano per sé il fatto di essere il popolo di Dio, non gli altri.
E quindi il pubblicano che per fare soldi accetta di imporre le tasse per conto dei padroni pagani fa parte di queste categorie, così come i pastori, le prostitute… Si creano queste categorie impure di per sé.
Basta appartenere a queste categorie e sei fuori dal popolo di Dio, dalla comunità. I pastori sono allora questo, fuori dal popolo di Dio. Questa è l’evoluzione, la storia degli uomini che la Bibbia racconta.
Poi però c’è la storia di Dio! E allora veniamo al nostro testo. I pastori sono nella campagna, vegliano sul gregge (perché bisogna stare attenti!) e all’improvviso “un angelo del Signore si presentò a loro, la gloria del Signore li avvolse di luce ed essi ebbero una grande paura. L’angelo disse: ‘Non temete!’”. Sono esattamente le stesse parole (“ebbero una grande paura” e “non temete”) che troveremo alla fine del Vangelo con le donne al sepolcro.
La stessa apparizione angelica, la paura che sempre l’apparizione di un angelo suscita e le parole dell’angelo che cercano di incoraggiare. Può sembrare strano quest’accostamento: i rudi pastori pronti ad ammazzare etc. etc. e queste povere donne spaurite che reagiscono tutti nello stesso modo. Questo ci dà un’indicazione (i pastori come le donne) che riprenderemo dopo.
Questo racconto inizia nel senso del “rovesciamento”, ed è tutto un rovesciamento. Noi siamo abituati a leggerlo, ma in realtà è tutto rovesciato: quelli che facevano paura (‘Alzo gli occhi verso i monti: chi mi potrà aiutare se io incontro questi?!?’) sono quelli che hanno paura, sono quelli a cui bisogna dire “non temete!”.
E – secondo rovesciamento – questa gente, che è la più lontana da Dio secondo i pii del popolo di Israele, sono coloro che Dio sceglie per rivelare questo avvenimento che è al centro della fede. È una grande opera di Dio, paragonabile alla creazione, all’esodo, a poco altro. “Io vi porto una bella notizia che procurerà una grande gioia a tutto il popolo: oggi per voi, nella città di Davide, è nato il Salvatore, il Cristo, il Signore”.
“La buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà”, ma il popolo l’avrà dopo! Per adesso questa notizia è per voi! Il Salvatore è nato “per voi”, dice l’angelo ai pastori, per gli ultimi per i quali ci si aspettava che nascesse: anche questo è un altro rovesciamento! Questo Salvatore, il Messia tanto atteso, sarà un bambino avvolto in fasce, coricato in una mangiatoia: quanto di più fragile, di più povero, di più miserabile ci possa essere.
Tra l’altro noi abbiamo oggi dell’infanzia un’idea che è completamente diversa da quella che avevano nell’antichità. Oggi nelle famiglie in cui arriva un figlio, il bambino è subito al centro dell’attenzione, diventa la “star” della casa. In questo periodo non era così, con la mortalità infantile che c’era non esisteva nulla della poesia che abbiamo noi riguardo ai bambini.
Finché il maschio non arrivava all’età in cui poteva leggere la Scrittura (12 anni circa) non valeva niente, era zero. C’è questo Salvatore che è un bambino di povera gente. L’annuncio di questo bambino che era il contrario che uno poteva immaginare viene fatto agli ultimi ai quali si poteva immaginare fosse fatto, a questi pastori. E viene presentato come un annuncio “per voi”. Perché “per voi”? Perché qui c’è Dio.
Poi c’è il coro degli angeli: “Gloria a Dio in cielo e sulla terra pace per quelli che egli ama”. Non “agli uomini di buona volontà”, guai a tradurlo così, com’è stato fatto dalla Vulgata, perché altrimenti questo è un Dio che premia i buoni!
Se Dio fosse quello che porta il suo annuncio agli uomini di buona volontà, sarebbe andato dai farisei, perché lì c’era la gente di buona volontà, che si impegnava a fare quello che doveva fare.
No, pace in terra alle persone che Egli ama, o “gradisce”. Tutto è legato (ed è il paradosso che sempre abbiamo davanti a Dio) al gradimento di Dio che prescinde da te, completamente. È Dio che sceglie, non sei tu. E qui sceglie gli ultimi che nessuno avrebbe scelto. Ha scelto una strada che è diversa da quella che chiunque avrebbe percorso per manifestarsi agli uomini. E sceglie subito, all’inizio, le ultime persone che si sarebbero scelte.
Il coro degli angeli canta questo gloria e poi se ne va, sparisce. Questi pastori hanno sentito nominare la città del re Davide, Betlemme, e decidono di andare lì a vedere, e partono. Ma non vanno solo a vedere, vanno a fare qualcos’altro.
In genere ci si fa poco caso, ma i fenomeni miracolosi, i prodigi finiscono qui con i pastori. Dopo, nel racconto di Luca, non succede nulla di straordinario: un ragazzino è nato, questi pastori arrivano, dicono quello che hanno visto, la gente rimane meravigliata, li ascolta, Maria ci ripensa e custodisce tutto nel proprio cuore.
Non c’è il minimo angioletto lì, non c’è nessuno, è tutto nella norma più assoluta. Il fenomeno celeste è solo coi pastori, poi non c’è più niente. Il presepe ha – secondo me – due difetti: da un lato mettere insieme ai pastori gli angeli sulla grotta e in realtà non ci sono perchè erano da un’altra parte prima e se ne erano già andati, e dall’altro perché cerca di fare un immagine di Dio, ma Dio è il vivente, Dio agisce, Dio fa. Se tu lo immobilizzi in una statua esprime esattamente il contrario di ciò che Dio è. L’immagine di Dio nella Bibbia è il vento, la Rùah!
Il vento è vento, si muove, lo senti, non lo vedi, non lo afferri, ma ti afferra lui, soprattutto qui a Trieste! Quella è un’immagine di Dio: la forza, la vitalità di Dio, il movimento, la dinamicità. Non si può esprimere in una immagine.
Qui in Luca tutto è movimento: c’era il censimento prima e Maria e Giuseppe si devono muovere verso Betlemme, e poi con loro si muovono tutti per questo censimento; poi ci sono questi pastori che si muovono e dall’alto scendono giù e poi se ne ritornano su. Tutto è movimento!
Se nasce il Signore, non c’è nulla che può rimanere fermo perché lui muove tutto! Immobilizzare tutto questo nelle figure del presepe non rende questo! Dà un tono un po’ troppo poetico, smielato, che non è quello del testo.
Questi pastori vanno a vedere il bambino per trovarlo. E non succede nulla, non ci sono gli angeli, i cori celesti, nessuna apparizione. Però c’è ugualmente il brivido: prima è di paura, qui è di meraviglia, di stupore; è questo che fa da collegamento tra la prima e la seconda parte. Ma da cosa viene questo brivido?
Non dal fatto che un piccolo è nato, perché questa è la cosa più normale che ci sia al mondo; il brivido lo portano i pastori perché sono loro che raccontano chi è quel bambino, perché loro sono gli unici che lo sanno (gliel’ha detto l’angelo, gli altri non lo sanno!).
Dal racconto sembra che neanche Maria lo sappia bene chi è suo figlio, e Giuseppe ancora meno. In moltissimi quadri il povero Giuseppe se ne sta da una parte e sembra pensare: “Ma che sta capitando? Io non ci sto capendo niente!”.
Coloro che portano l’annuncio di chi è quel bambino sono i pastori, che allora sono gli “inviati da Dio”. E come si dice inviato? Angelo! Allora i soli veri angeli del presepe non sono quelli con le ali, biondi, con le arpe, sono questi disgraziati di pastori!
Loro portano questo annuncio, lo raccontano. Questi pastori non portano a Betlemme il formaggio, gli agnelli del presepe, bensì portano la gloria che li ha abbagliati, e le parole dell’angelo sul bambino, e le note del canto del gloria a Dio e pace agli uomini che Dio ama.
Adesso queste note non ci sono più, le portano loro, le portano nel cuore, nel sorriso, negli occhi e le comunicano alle persone che incontrano. E le persone, per primi i due genitori, rimangono stupiti di questo fatto. Ed è in questo punto che Maria sa chi è suo figlio veramente, gliel’hanno detto questi strani angeli di Betlemme, i pastori.
Concludiamo riagganciandoci alle donne alla tomba. C’è un collegamento fra le donne e questi pastori che è sottolineato dalle stesse formule: l’apparizione angelica, la paura, “non temete”. I due momenti essenziali di Gesù, la nascita e la risurrezione, sono affidati a degli emarginati, i pastori da un lato e le donne dall’altro.
Talmente emarginate queste donne che poi se voi avete presente 1 Corinzi 15, il grande capitolo sulla risurrezione, quando Paolo fa l’elenco dei testimoni della risurrezione comincia con Cefa-Pietro, e le donne (che sono le prime testimoni secondo tutti i vangeli) spariscono completamente. Perché? Perché Paolo è un misogino e le odia?
Forse anche questo, però non è essenzialmente questo; è che lui lì sta parlando di chi può dare la testimonianza della risurrezione, e la testimonianza delle donne non era ammessa in tribunale, allora non ne parla per questo motivo. Altre emarginate. Il Signore sceglie questi due gruppi, queste due categorie: gli uni come i portatori del vangelo dell’incarnazione, le altre della risurrezione.
C’è una storia degli uomini, una nostra storia che procede secondo un andare avanti, un andare indietro, un modificare, un cambiare, rapporti di forza, di pregiudizio.
Però c’è la storia di Dio che sceglie dei modi di fare, delle persone che sono completamente al di fuori di quelle che sceglieremmo noi. Il Natale è anche questo, e a Natale gli angeli sono proprio questi: i pastori.
* Il 15 dicembre si è tenuto il secondo incontro dell’anno del Progetto Ruah. L’incontro, in preparazione alla festa del Natale, centrato sulla riflessione dal titolo “Non abbiate paura degli strani angeli di Betlemme!” (cfr. Lc 2,10), continuando il tema dell’anno “Accoglienza della diversità alla scuola di Gesù”. Questo è il report della riflessione biblica, guidata da Ruggero Marchetti, pastore delle Chiese Valdese e Metodista di Trieste.