Le persone LGBT+, i loro genitori e le chiese locali: un dialogo difficile
Intervento tenuto da Anna Battaglia, presidente AGEDO RAGUSA e volontaria de La Tenda di Gionata, al webinar “UNITI VERSO IL CAMBIAMENTO 2” (UTC 2 United towards the change 2) su “Un cambiamento possibile” il 9 dicembre 2021
Il mio confrontarmi con la realtà dell’omosessualità risale al 2002, quando mio figlio a vent’anni mi fece il dono di dirmi del suo orientamento affettivo, che mi portò ad iniziare un cammino, quello che io ho vissuto come una conversione, un disimparare per imparare con occhi nuovi e per scardinare i pregiudizi che a mia insaputa mi abitavano.
Chi meglio di mio figlio poteva dirmi della realtà delle persone dal differente orientamento affettivo, quale orizzonte si apriva davanti a me e quale possibilità mi veniva data per migliorarmi!
Così mi avvicinai ad Agedo Roma, quando andavo a trovare mio figlio, studente universitario alla Sapienza; per me che vivo a Ragusa, dove sembrava che non esistessero le persone omosessuali, era un’occasione per confrontarmi con altri genitori con figli LGBTI+.
Quella che mi guidava era la “verità” di mio figlio, nessun dubbio su quanto mi aveva rivelato. Mi stava chiedendo aiuto per essere accompagnato nello svelare al mondo chi era, un nuovo nascere di fronte alla società ed io dovevo ripartorirlo, lui usciva dall’armadio, non potevo entrarci io o farci restare lui.
Il silenzio in cui era stato costretto per tutti quegli anni e che lo asfissiava, doveva essere rotto, così anche per me divenne un imperativo sfaldare quel silenzio e nel 2008 cominciai il mio impegno nel sociale: realizzai un Punto ascolto di Agedo Nazionale a Ragusa.
Cosa mi creò invece, in questo cammino di scoperta, le maggiori difficoltà? Il mio essere credente.
La scoperta di un figlio, di una figlia LGBTI+ porta immancabilmente una madre, un padre credenti a confrontarsi con la propria fede. Quando seppi di mio figlio, la prima cosa che feci fu quella di parlarne con il mio padre spirituale, che lo conosceva da sempre.
Mio figlio mi aveva donato la sua verità, regalo immenso che mi aveva permesso di farlo venire alla luce, togliendolo dal buio dell’invisibilità per dare vigore alla sua vita, ugualmente degna della felicità che spetta ad ogni persona, così come io gli permettevo di essere sé stesso, anche la Chiesa detentrice del messaggio d’amore per eccellenza avrebbe dovuto concederglielo, questo pensavo.
Invece fui ferita da terribili parole di chiusura. Mio figlio era “sbagliato”, poteva continuare ad essere amato solo se soffocava il suo essere sé stesso e nel silenzio di tutta la famiglia vivesse la sua croce.
Il silenzio mi veniva gentilmente imposto.
Cominciò così una via crucis alla ricerca di un sacerdote che fosse capace di un vero ascolto, ma avvertivo sempre il disagio che la parola omosessualità creava e l’assoluta ignoranza in materia. Era sempre più difficile aprire un vero dialogo. Non potevo più accontentarmi delle risposte che trovano le loro radici nel catechismo e nella concreta non conoscenza di una realtà di vita da sempre silenziata e presto incapsulata nella teoria del gender.
Dibattuta nel contrasto insanabile tra il messaggio evangelico e il suo viverlo, capii che dovevo cercare altrove per potere mantenere e fare crescere la mia fede, perché non riuscivo più a sentirmi a casa nella mia parrocchia, non riuscivo ad ascoltare omelie da chi diceva che l’omosessualità è un abominio, una malattia da curare, che vedeva la persona omosessuale come un poveraccio di cui avere pietà, da perdonare se vive in castità.
Incontrai don Franco Barbero, cominciai a cercare i cammini delle Comunità di base, di credenti ai margini, mi inserii in Pax Cristi, – l’unica realtà presente nella mia città in cui si poteva parlare di omosessualità – che mi diede l’opportunità di conoscere sacerdoti che venivano da fuori diocesi, capaci di rispettoso e vero dialogo, resi la mia fede adulta, acquisii la consapevolezza che come battezzata ero popolo di Dio, imparai a poco a poco che di questa Chiesa continuavo a farne parte, sì perché come madre di una persona omosessuale anch’io mi sentivo messa fuori.
Nel 2018, dopo l’esperienza del Forum nazionale dei credenti LGBTI+ e dei loro genitori, mi inserii nella Tenda di Gionata e chiesi un colloquio con il vescovo per fargli conoscere questa realtà e fargli prendere visione dei documenti del Forum, facendo presente la mia disponibilità a contattare i parroci per sensibilizzarli su questi argomenti, ma mi fu consigliato di non “disturbare” i parroci, ma di rivolgermi ad un padre gesuita del Centro Sociale per creare un Punto Ascolto per credenti LGBTI+.
Uno spiraglio che permise di avere uno spazio dove riunirsi, ma anche una cappella dove poter celebrare le veglie di preghiera per le vittime dell’omotransfobia il 17 maggio di ogni anno, e soprattutto un padre gesuita disponibile all’ascolto e al farti sentire a casa, tutto confinato però al margine della diocesi, perché nelle parrocchie restava tutto come prima.
Sperimentavo, ancora una volta, un’apparente accoglienza in una chiesa ragusana che aveva schierato 53 Sentinelle in piedi, sostenute da movimenti di credenti cattolici molto attivi nel contrastare l’ideologia gender nel maggio 2015, movimenti che avevano contestato, nello stesso anno, la formazione per prevenire l’omotransfobia nei contesti educativi per docenti e genitori, avvenuta presso una scuola. E se da un lato Agedo Ragusa veniva invitata a far parte di varie associazioni cattoliche per organizzare convegni cittadini, dall’altro veniva proibito alla FUCI di partecipare con la propria sigla alla giornata contro l’omotransfobia nel 2018.
Mi rendo conto che ancora nel 2021 la chiesa ragusana in parte resta arroccata in un’idea antidiluviana dell’omosessualità, se durante un ulteriore tentativo di dialogo mi è stato detto che “si diventa omosessuali se si è abusati da piccoli”, ma soprattutto sono dispiaciuta per tutte quelle persone giovani e meno giovani che si sentono costrette nel silenzio e nella non visibilità, anche all’interno delle loro parrocchie.
La Chiesa soffre della stessa chiusura che porta ancora parecchi genitori a non accogliere figli e figlie LGBTI+, allontanandoli da casa, talora anche usando violenza fisica nei loro confronti, preferendo una tormentata e sofferta relazione con loro.
“Bisogna aver pazienza con questi preti” mi viene spesso detto. È vero, bisogna pazientare, ma in maniera ‘attiva’. Occorre farsi carico non di iniziative per ‘farci accettare‘, ma di un cammino di conversione e di ascolto. La paternità delle parole di Papa Francesco è un balsamo prezioso, ma rischia di trasformarsi nei paternalismi bigotti dei nostri preti, delle nostre associazioni che preferiscono all’incontro fraterno le formule della dottrina.
È una Chiesa di retroguardia, impaurita e scarica di profezia quella che, in molte occasioni, ci troviamo davanti. Rassegnarci è, tuttavia, venir meno a quell’appello alla Parola, che c’invita a rendere ragione della speranza che abita in noi.