Una riflessione teologica sul Covid 19. L’orizzonte della “lamentazione”
Riflessioni del gesuita Gerry O’Hanlon SJ pubblicate sul mensile Working Notes (irlanda), Vol. 34, fascicolo 87, ottobre 2020, pp.49-57, parte quarta
Per i cristiani è la figura di Gesù a rivelare chi è Dio. Lungi dall’essere distante e per niente coinvolto, Gesù ci mostra che Dio è con noi. Questo è, letteralmente, il titolo che gli danno le storie natalizie raccolte nei Vangeli: Emmanuele – Dio-con-noi. I cristiani professano che Dio acquista una forma umana (Incarnazione) in Gesù. Egli è “come noi in tutto tranne i nel peccato”. Attraverso la sofferenza, Gesù solidarizza con noi. Ci presenta la misericordia di Dio in forma corporale. Ed è una persona che muore, fondamentalmente, per problemi respiratori.
Gli eventi del Venerdì Santo hanno un significato nuovo da quando siamo perseguitati da questo virus. Alla sua famiglia e ai suoi amici venne negata anche la possibilità di piangerlo; le autorità intervengono nella deposizione del suo cadavere. Le donne che scoprono la tomba vuota, dopotutto, stavano andando di nascosto alla tomba per cercare di onorarne il corpo in modo culturalmente appropriato.
Dopo la sua morte i suoi seguaci arrivarono a credere che difficilmente la persona affascinante, misteriosa, e molto umana che avevano conosciuto ed amato così tanto sarebbe stata resuscitata dal potere di Dio; che la sua vita, sofferenza e morte erano state talmente significative ed importanti da suggellare definitivamente il piano di salvezza di Dio per l’umanità e per tutta la creazione (un nuovo cielo e una nuova terra); che, di fatto, lui era Dio e che Dio stesso, ad un livello più alto, fosse trinitario, Padre, Figlio e Spirito Santo.
Solo anni più tardi, i suoi seguaci furono noti come cristiani, in parte perché erano sorpresi da questa svolta degli eventi come lo saremmo stati noi. L’intera storia intellettuale delle Chiese cristiane si sviluppa da affermazioni che possono essere espresse in una manciata di parole ma richiedono millenni per essere sviscerate.
I tentativi di dare un senso a tutto questo costituiscono la tradizione cristiana, dai tempi Marco e Paolo e del Nuovo Testamento fino al giorno d’oggi. Uno di questi tentativi l’ha fatto il teologo cattolico svizzero Hans Urs von Balthasar. Balthasar sostiene che in Gesù si incontrano diversi filoni della ricerca intellettuale dell’umanità.
La ricerca greca classica dell’unità dei trascendentali dell’Essere – ciò che è bello è buono ed è anche vero – è messa in stretta connessione con la nozione ebraica di gloria (kabod, doxa). Egli mostra anche come, a volte, nella tradizione ebraica, gloria significhi qualcosa di impressionante, potente e splendido.
Che ciò che è glorioso è ciò che ci sopraffà, suscitando il nostro rispetto, il nostro timore e la nostra adorazione. La gloria caratterizza quell’esperienza che molti di noi hanno provato nei momenti più preziosi della propria vita quando ci rendiamo conto, con un sentimento vicino alla paura, che ci troviamo su un terreno in qualche modo sacro, in un tempo e in uno spazio separati dall’esistenza ordinaria.
La concezione cristiana di questa esperienza è contro-intuitiva perché insiste sul fatto che l’umanità raggiunga questa perfezione gloriosa non in una figura che ha acquistato un grande potere ma in uno che “si è privato” del suo stato divino per diventare non solo un uomo, ma anche nostro servo, al punto di accettare la morte sulla croce al posto nostro (Filippesi 2: 5-11).
Questa teologia della kenosis (svuotamento di sé) significa che la bellezza (l’equivalente trascendentale della gloria biblica) ora comprende non solo la percezione di una forma che sia piacevole ed estatica e che ci coinvolga, ma di una forma che può essere brutta, difficile da guardare, ma bellissima perché suffusa d’amore.
È funzionale alla nostra epoca secolarizzata che così poche persone riconoscano l’intento sovversivo della rappresentazione visiva principale del cristianesimo: la croce è un dispositivo di tortura dispiegato da una superpotenza militare per opprimere e terrorizzare un popolo colonizzato, ma nelle mani dei primi cristiani è diventato un simbolo di solidarietà umana auto-sacrificale e non violenta. Nel nostro linguaggio contemporaneo persistono tracce di questa originale rivoluzione. La frase popolare tra gli innamorati italiani “ti amo da morire”, è personificata dalla vita e dalla morte di Gesù Cristo.
E così, sostiene Balthasar, siamo catturati dalla bellezza di Gesù perché egli è l’icona dell’amore di Dio, che non è egoistico ma focalizzato sull’altro. Questa non è un’affermazione astratta, ma la vera natura dell’essenza di Dio – è implicito nel dire che Dio è Trinità: Dio era concentrato sull’altro anche prima della sua esistenza perché Dio è, in sé, unità nella diversità.
Questo amore supera male e distruzione, non grazie ad un Deus ex machina interventista, una specie di dispositivo hollywoodiano, ma con una lunga sofferenza, un paziente rispetto per la nostra libertà e per i ritmi dell’universo naturale circondato dall’abbraccio di un amore che è l’origine e la fine delle nostre vite. In un periodo in cui proviamo sofferenza, è importante che la concezione cristiana di Dio sia quella che sottolinea la nostra libertà davanti all’abisso della natura.
In questa luce, arriviamo a vedere che discutere dell’onnipotenza di Dio in astratto è sempre fuorviante. L’onnipotenza, nella tradizione cristiana, è una caratteristica dell’amore. L’amore vince, ma la vittoria costa e richiede tempo.
Quindi, nonostante, la natura apparentemente ingovernabile delle nostre difficoltà in questa vita, e in particolare in questo periodo, il ritornello costante delle scritture cristiane è “non abbiate paura”. E così, nonostante le apparenze, ci viene detto che saranno “beati coloro che piangono” perché “è quando sono debole che sono forte” (2 Cor 12:10).
Questo, comunque, non è una specie di culto masochistico che glorifica sofferenza e debolezza, tantomeno un’infantile dipendenza da Dio. Piuttosto, il Nuovo Testamento, e la vita dello stesso Gesù, rivela un Dio che vuole che noi abbiamo la vita, e l’abbiamo in abbondanza (Gv. 10:10), sia individualmente che collettivamente, ma solidarizzando gli uni con gli altri ed entrando in relazione con Lui.
Con un Dio così, dal momento che soffrire può essere molto difficile e che possiamo essere così autosufficienti, siamo (come lo stesso Gesù nel deserto) tentati di fare eccessivamente conto sulla nostra autonomia. Lo stesso Gesù che chiede “passi da me questo calice”, sulla croce si sentì abbandonato da Dio, ma il ‘sì’ della sua radicale fiducia (nelle tue mani affido il mio spirito) rimase intatto ed ebbe come risultato l’evento che fu un cambiamento epocale: la resurrezione. È con la fede nella sua vita, morte e resurrezione che qualcuno come Martin Luther King può dire che la “sofferenza immeritata è redentrice” e che Paolo può immaginare un ruolo per tutti noi, ovviamente per mezzo della grazia, in ciò che ‘manca’ alle sofferenze di Gesù Cristo per la sua Chiesa e per il nostro universo (Colossesi 1:24).
Il cristianesimo non è il risultato di un’astratta teorizzazione che giunge alla concezione della deità, ma una tradizione che nasce dalla domanda, sempre viva, di come dare senso all’esperienza – iniziata con quelli che adesso chiamiamo apostoli – di un’umanità che ama con una qualità che è autenticamente divina. Quando, in questo tempo di pandemia, la nostra ricerca di senso si imbatte in ipotesi lontane dalle pratiche reali di amore, si trova velocemente ad una impasse. La ricerca di prosperità e significato sono attività tracciate dall’amore.
E così, con Balthasar, papa Francesco può insistere che “solo l’amore è credibile” e non si stanca mai di basare tutti i suoi inviti allo sforzo etico, all’attività missionaria e alla riforma della Chiesa sul fondamento del nostro incontro con Gesù Cristo. Di volta in volta egli ripete l’osservazione di papa Benedetto che “… essere cristiano non è il risultato di una scelta etica o di un’idea elevata, ma l’incontro con un evento, una persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e una direzione decisiva”.
Testo originale: Any Light in Darkness? A Theological Reflection on Covid-19