La teologa Desmazières: “sinodalità significa correre il rischio di sorprendersi”
Intervista di Céline Hoyeau alla teologa Agnès Desmazières pubblicata sul quotidiano cattolico La Croix International (Francia) il 3 gennaio 2022, liberamente tradotta da Giacomo Tessaro
Agnès Desmazières ha delle credenziali davvero buone. Ha conseguito un dottorato in storia allo European University Institute di Firenze nel 2009, e nel 2017 uno in teologia al Centre Sèvres, la scuola teologica gesuita di Parigi dove attualmente insegna teologia, ecclesiologia e storia della Chiesa. Ricercatrice all’Università della California di Berkeley, è membro del comitato nazionale che sta coordinando il processo sinodale in Francia. Céline Hoyeau l’ha intervistata su questa nuova ed eccitante fase della storia e dello sviluppo della Chiesa.
La Croix: Il processo sinodale sul futuro della Chiesa iniziato da papa Francesco ci invita ad ascoltare tutti, ad andare molto al di là degli ambienti cattolici praticanti. Ma cosa intendiamo, in pratica, per “Chiesa”?
Agnès Desmazières: Ciò che mi ha colpito, nel documento preparatorio destinato alle diocesi di tutto il mondo, è l’idea di coinvolgere nel processo sinodale dei “compagni di viaggio”, vale a dire, non solo chi è nella Chiesa, ma tutti coloro con cui entriamo in contatto, al lavoro, nel quartiere, facendo sport, prendendo gli stessi mezzi pubblici nello stesso giorno e nella stessa ora… Molto al di là dei confini della Chiesa.
Io stessa ho viaggiato e vissuto molto all’estero, cinque anni in Italia, dove ho conseguito il dottorato in storia, e in California, come studentessa e ricercatrice. Quando si viaggia, si incontrano persone che di solito sono lontane da noi. Bisogna accogliere la sorpresa.
Si impara poi la lingua dell’altra persona per poterla capire, e interiormente rimaniamo spiazzati. Coinvolgere dei “compagni di viaggio” invita la Chiesa a muoversi, a non chiudersi in se stessa ma ad essere missionaria, con una dinamica fondamentale: abbiamo incontrato Gesù risorto, e vogliamo portargli testimonianza.
Cosa significa, in concreto?
In alcune diocesi francesi ci sono già dei gruppi di quartiere, in cui la gente è meglio accolta e può parlare della sua visione di Chiesa. Non necessariamente i nostri vicini hanno la stessa relazione che abbiamo noi con la Chiesa, ma sono abbastanza prossimi da interessarsi a ciò che facciamo.
I compagni di viaggio sono tutti coloro con cui vogliamo condividere ciò che siamo, e con cui possiamo aprirci, e questo produce una certa intimità, perché non sempre, nella vita quotidiana, parliamo della nostra fede.
Possiamo anche ascoltare come i media parlano della Chiesa e riflettono le aspirazioni attuali: l’aspirazione a una maggiore trasparenza, l’aspirazione alla coerenza, alla giustizia sociale, al rispetto per l’ambiente, alla fraternità, a un maggiore ruolo dei laici… Sentire cosa ne pensa chi sta fuori dalla Chiesa ci arricchisce. Non penso che vedano le nostre polarizzazioni e i nostri conflitti interni come li vediamo noi, e questo può aiutarci a ridimensionarli.
Quali sono i rischi da evitare?
Questo processo sinodale ci porterà a incontrare chi non abbiamo scelto. Lo stesso termine “Chiesa” (ecclesia) porta in sé l’idea di “convocazione”: siamo chiamati da Dio, ed è questo che ci porta a riunirci, piuttosto che le affinità personali.
Il rischio consiste nello sfuggire le nostre differenze sociali e culturali per andare tra credenti che hanno le nostre medesime aspirazioni: un sistema di piccoli gruppi, ciascuno con le sue esigenze. Ma noi siamo chiamati da Dio nelle nostre differenze. La Chiesa potrà espandersi solo se vivrà la diversità al suo interno.
Ci sono dei gruppi con cui trova più difficile dialogare?
Non mi piace ragionare per categorie. Per me la domanda è: siamo davvero pronti ad ascoltare l’altro, o ne facciamo una questione di potere? A volte è più facile discutere con persone che vengono da cammini molto diversi, ma intellettualmente oneste, piuttosto che con persone dalla medesima sensibilità, ma che strumentalizzano il processo per avere il potere.
La sinodalità può avere una faccia attraente, che però nasconde prassi autoritarie. Si può chiedere consiglio, e poi, in realtà, decidere da soli. È un processo di dialogo che ci invita a non controllare, ma ad ascoltare insieme lo Spirito Santo, a costo di rimanerne sorpresi.
La nostra visione della Chiesa cambia a seconda se siamo in una posizione di potere, oppure in un luogo dove essa è talmente misera che più facilmente resta fedele al Vangelo. Sono particolarmente affezionata al cattolicesimo popolare, che conosco grazie ai miei legami con la Bretagna e con i francescani italiani, e che ho anche scoperto al mio ritorno in Francia nel 2013, nella mia vecchia parrocchia.
Il cattolicesimo popolare resiste alle epoche e alle crisi, si manifesta attraverso riti e simboli, e soprattutto attraverso la gioia di stare insieme, lontanissimo dalle questioni di potere.
Lei è una teologa, e fa parte del gruppo che coordina il processo sinodale a livello nazionale in Francia. Cosa l’ha spinta alla teologia?
Mentre studiavo storia alla Sorbona feci un esame di storia della Chiesa; poi, il mio master sul revival del tomismo nel XX secolo mi condusse a intervistare Pierre d’Ornellas, allora direttore dello studium della Scuola cattedrale di Notre-Dame: fu lui a suggerirmi di studiare teologia.
Quando poi mi dovetti preparare per il diploma di abilitazione all’insegnamento optai per la storia, perché in essa, in quanto laica, mi sentivo più a mio agio. Rimango affezionata a questa materia, in quanto a me, cattolica laica, sembra importante avere una prospettiva scientifica che possa essere condivisa con i non credenti.
Dopo l’elezione di papa Francesco sono tornata alla teologia, che mi ha messo in moto e mi ha dato una ragione di speranza per la Chiesa, per la quale volevo dare una migliore testimonianza.
È stato il tempo del mio ritorno in Francia: sentivo l’esigenza di restituire al mio Paese ciò che avevo ricevuto all’estero, volevo testimoniare delle esperienze di fede che avevo vissuto, e della diversità culturale in cui ero stata immersa.
Tornare nella regione parigina, nei quartieri operai, è stato molto importante per me, e anche, penso, per il cattolicesimo francese, nutrito e reso vivo grazie al contributo degli immigrati. In che modo accoglierli per far sì che non siano passivi, ma partecipino alle responsabilità della Chiesa?
Cosa l’ha condotta al tema della sinodalità?
Ho lavorato molto sul concetto di dialogo, che dopo il Vaticano II è un tema più esplicito, e il fondamento di un nuovo paradigma teologico. La Chiesa concepisce se stessa in termini di dialogo con gli altri, ma anche al suo interno. Ovviamente il dialogo non evita il conflitto: dobbiamo sapere come dirci le cose se vogliamo progredire, ma nella Chiesa usiamo sempre eufemismi.
Forse, a causa dell’attuale crisi, stiamo finalmente cominciando a dare un nome ai problemi. Il conflitto, in sé, non è un male, ma dobbiamo chiederci se vogliamo procedere verso l’unità.
Testo originale: “Synodality means taking the risk of surprise”