Timothy Radcliffe. Amare nella libertà, tra sessualità e castità
Recensione di Antonio De Caro*
“Noi dobbiamo amare le persone in modo che esse siano libere di amare gli altri più di noi“.
“Amare nella libertà. Sessualità e castità” di Timothy Radcliffe (Qiqajon, 2007, 96 pagine) è un appassionato percorso sui sentieri che, attraverso l’assunzione dei limiti e delle ricchezze del proprio corpo e dell’affettività, conducono verso una vita di autentica libertà interiore.
Il modo di amare degli esseri umani coinvolge inevitabilmente le emozioni e la corporeità. Di conseguenza è davvero strano che sia così difficile parlare di passioni e sessualità nell’ambito della religione cristiana, benché essa, più delle altre, affermi di attribuire un valore sacro al corpo, per via della Creazione, dell’Incarnazione e del mistero pasquale di Morte e Resurrezione.
La Chiesa Cattolica Romana ha elaborato una dottrina della sessualità che, la maggior parte delle volte, tende a controllare l’esperienza delle persone, invadendo lo spazio della loro coscienza e soffocandone l’intimità attraverso un sistema rigido di obblighi e divieti.
Ma gli stessi padri della Chiesa ritengono che il corpo e la sessualità siano doni di Dio. “Dobbiamo imparare ad amare con quello che siamo, esseri dotati di sessualità e di passioni, a volte un po’ disordinati. Altrimenti non avremmo nulla da dire sul Dio che è amore” (p. 8).
Non è corretto dire che noi abbiamo un corpo: noi, piuttosto, siamo il nostro corpo, che quindi può rappresentare la dimensione più alta del dono di sé, come dimostra la narrazione evangelica dell’ultima cena, da cui deriva l’eucarestia. In realtà, il corpo è il fondamento del contatto e della comunicazione.
Donare se stessi, compreso il proprio corpo, dovrebbe essere il senso più alto della sessualità, poiché l’amore ci trasforma da individui in persone-in-relazione, anche se questo comporta il rischio di esporsi e di soffrire. Come l’eucaristia, una sessualità buona dovrebbe essere un sacramento di speranza, che cura le ferite e apre alla vita piena.
Su questo sfondo ha senso la castità, che è una virtù solo se è manifestazione di amore (H. McCabe). “Il primo peccato contro la castità è la mancanza di amore” (p. 39). Essere casti vuol dire imparare ad amare l’altro come un essere umano reale, con le sue imperfezioni e la sua dignità, sapendo che questo comporta anche il rispetto della sua inviolabilità. Per quanto sentiamo di volerci fondere con l’altra persona, dobbiamo riconoscere che resteremo sempre due esseri umani distinti, distanti e quindi, inevitabilmente, soli. Occorre imparare a guardare il volto dell’altro: accettare questa dimensione umana dell’amore permette di accedere all’intimità, che è il rispetto del confine dell’altro.
Purificare il desiderio, allora, non vuol dire rinunciare alla sessualità, ma redimerla come occasione di incontro con un altro che è persona, soggetto da rispettare e non oggetto da possedere, poiché il vero amore è quello che produce libertà. Essere casti significa calare l’amore nella concretezza reale della relazione, poiché l’amore rivela la realtà al desiderio (O. Paz).
Le relazioni sessuali dovrebbero manifestare il dono di sé all’altro, con fiducia, venerazione e gratitudine. Nella sessualità autentica, ognuno si cura del benessere dell’altro. “La sessualità concerne la comunione; ciò che essa dovrebbe esprimere è la generosità reciproca, il dono e l’accoglienza del dono” (p. 30). Senza questo atteggiamento, interiore e personale, anche gli atti sessuali considerati leciti dalla Chiesa potrebbero essere privi di qualità etica.
“L’etica consiste nell’imparare a comportarsi gli uni con gli altri nella logica di una relazione sempre più profonda. Un’azione non è cattiva perché è vietata, è cattiva se mina la comunione umana” (p. 29). Una sessualità sbagliata implica la menzogna verso gli altri e verso se stessi; una sessualità autentica, piuttosto, è quella che con il proprio corpo dice la verità, una verità di amore, accoglienza, fiducia e comunione.
“Al cuore dell’etica sessuale c’è la fedeltà. Noi doniamo noi stessi, doniamo i nostri corpi, le nostre vite, le nostre speranze e le nostre paure a un altro, senza riserve, ora e per sempre… Per osare entrare nell’intimità e nella vulnerabilità di un altro, per imparare anche come essere liberi e limpidi in sua presenza, ci vuole del tempo. Più sto con un altro, più egli scoprirà parte della mia debolezza, delle mie paure e dei miei difetti. La fedeltà è un rischio” (p. 35). Fedeltà vuol dire darsi il tempo per imparare l’appartenenza, per raggiungere quell’intesa che permette alla relazione di risorgere.
Il vero amore è eucaristico, nel senso che è dono di sé e del proprio corpo come totalità dell’essere. Questa capacità di abbandono implica la vulnerabilità, ma è lo stesso atteggiamento di Gesù che si è offerto per morire e risorgere. Quindi una sessualità buona è capace di annunciare il vangelo nel mondo, poiché sfugge alla logica del potere e del possesso per diventare icona del dono.
“Quando amiamo profondamente qualcuno, Dio è già presente… nei nostri amori Dio può trovare lo spazio dove montare la sua tenda” (p. 22), poiché “al cuore di tutte le nostre lotte per essere delle persone viventi e amanti, Dio è al nostro fianco” (p. 23).
*Antonio De Caro, scrittore e docente, collabora con La Tenda di Gionata ed è autore di “Cercate il suo volto. Riflessioni teologiche sull’amore omosessuale” (Tenda di Gionata, 2019) e del saggio “La violenza non appartiene a Dio. Relazioni omosessuali e accoglienza nella chiesa” (Etabeta, 2020, 214 pagine)