Sanremo è un festival, non una ricorrenza religiosa
Riflessioni di Massimo Battaglio
E anche quest’anno, Sanremo ha fatto riemergere le ire dei cattolicanti. Ormai è un cliché. Se ne stanno tutto l’anno nei loro caldi nidi, salvo uscire nelle occasioni più propizie: quando c’è da dare contro il gay e quando l’audience è assicurata, cioè durante il festival. Ce n’è per tutti.
Il Vescovo di Ventimiglia
Sinceramente, penso che le dichiarazioni di monsignor Suetta corrispondano più a questa logica – approfittare dello share – che a qualunque affermazione di principio. L’esibizione di Achille Lauro è stata solo un pretesto. Ed ha avuto, tra l’altro, l’effetto di distrarre dal ricordo dei fattacci avvenuti nella diocesi di Albenga quando lo stesso Suetta vi svolgeva il suo ministero di economo. Un’autentica furbata.
Ricorderei solo a Sua Eccellenza che, quando si gioca l’asso da briscola al primo giro, si rischia di tirare su carticine per tutta la partita. E infatti, la sua reazione al festival in prima serata, seguita tutt’al più da un coretto di tradizionalisti svegliatisi col grugno nella mattina successiva, ha lasciato tutto il tempo, a chiunque altro, compreso l’Osservatore Romano, di prendere le distanze buttandola sul ridere.
Non entro nel merito del suo comunicato, limitandomi a segnalarne il testo integrale, ma voglio suggerire due riflessioni. La prima è che trovo insopportabile l’uso delle parole “violenza” e “persecuzione”. Esistono realtà, dentro e fuori della Chiesa, dove la violenza e la persecuzione sono vero pane quotidiano. Evocarle per descrivere il piccolo balzo sulla poltrona che si è fatto guardando il festival è una vera e propria vigliaccata, molto più irrispettosa di tutte le provocazioni di Achille Lauro.
La seconda riflessione riguarda l’invito del vescovo, intervistato il giorno dopo, a “spegnere la tv e disertare certi appuntamenti e magari fare qualche ragionamento sul pagamento del canone Rai”. Praticamente è un invito all’obiezione fiscale, pratica che, in nessuno Stato, laico o confessionale che sia, può considerarsi lecita. Ricordare in proposito San Paolo e lo stesso Gesù (date a Cesare quel che è di Cesare) può essere una risposta fin troppo facile.
Nel merito della performance del cantante invece, qualcosa da dire, ce l’avrei. E precisamente: siamo sicuri che si tratti di mancanza di rispetto per la religione cristiana? Siamo certi che sia un oltraggio? Aggiungiamo magari due etti di vilipendio e siamo a posto.
Premetto che non ricordo uguali urla quando Berlusconi faceva la Comunione in diretta nonostante la sua situazione plurimatrimoniale o quando la Meloni partecipava al Family Day col pancione non essendo sposata e nemmeno convivente. Ma tant’è: agli amici, si perdona tutto, specialmente se si è della stessa forza. Premetto altresì che sono ben altri i battesimi sacrileghi che mi scandalizzano, come per esempio quelli, ancora molto di moda, dove il “padrino” è un mafioso.
Ma soprattutto, credo che, se Lauro simula il battesimo come gesto di purificazione, non fa che riconoscere al battesimo il suo valore.
Chi ci vede un attacco ha evidentemente perso la cognizione di cosa sia la fede e, confondendola con un vago sentimento religioso di tipo identitario, la difende con le unghie perché sente che gli si sta sbriciolando in mano.
La canzone in causa si chiama “Domenica”. Nel testo si parla della domenica come di un giorno in cui ci si ferma, ci si mette in pausa dal mondo e ci si dedica solo alle cose che ci fanno stare bene. E’ il senso autentico di quello che i cristiani chiamano “giorno del Signore”.
Lauro, alla fine, riassume il significato di questo giorno nel gesto dell’acqua battesimale, che pulisce, rigenera e apre a nuova vita. Mi pare quanto di più teologicamente corretto si possa immaginare. Io, da credente, ho capito questo. Stop.
Checco Zalone che non le manda a dire
Sull’esibizione di Zalone in cui, con ironia, ha parlato delle problematiche trans, mi sto un po’ dibattendo. Da una parte, devo confessare che, sollecitato dalla preoccupazione e dal senso di imbarazzo palesatimi da alcuni amici etero, ho assicurato che, a me, non ha fatto arrabbiare.
L’ho trovato volgaruccio, certo, ma sinceramente comico. Chi mi fa incazzare sono quelli che dicono le stesse mostruosità prendendosi sul serio, come per esempio i tamarri che, nel dirle, si accompagnano magari con le mani, o i parlamentari e le eminenze reverendissime che armano la loro mano coi propri discorsi.
Poi però ho avuto la notizia di cosa è successo a una ragazzina trans. Giovedì mattina, è stata aggredita dai compagni di classe ed è stata costretta a scappare da scuola andandosi a rifugiare dalla sua psicologa. Lo racconta il suo collega Matteo Grimaldi:
Non sono manco le nove e una collega mi ha appena scritto che una ragazzina trans diciottenne è scappata da scuola per correre da lei in studio perché è stata salutata da un coro di “sciao belooooo hai visto Sanremo ieri sera?” E giù risate.”
E allora, caro Checco, apprezziamo le intenzioni ma ti invitiamo, per la prossima volta, a fare prima due chiacchiere per capire le parole da usare. C’è modo e modo. E ci sono modi che finiscono per fare male.
Mahmood e il trionfo del gender
Che dire? Vorrei che vincesse, in modo da assicurarsi la partecipazione all’Eurofestival. Sarebbe molto utile perché, in Polonia come in Ungheria (Paesi che tanto vanno d’accordo con padre Suetta), c’è tanto bisogno di vedere com’è fatto un amore tra due persone dello stesso sesso. E una canzone da festival può dare un ottimo spunto, baci compresi.
Quelli che hanno capito tutto di Drusilla Foer
Una reazione molto struggente è quella di ProVita, che sta facendo girare camion con grandi scritte recitanti: “basta propaganda lgbt TRAVESTITA da spettacolo #noncolmiocanone”. Viva il pluralismo! Il canone, lo pagano tutti, credenti e non, ed è quella tassa che permette di mandare in onda una decina di ore di trasmissioni religiose a settimana. Se il festival non piace agli amici di Pillon, cerchino altri argomenti.
Ma pare che ProVita non sia solo contraria al canone TV. Si rifiuta di pagare anche alle tasse pubbliciatarie previste dal Codice della Strada. E così, i nostri fenomeni si sono beccati una bella multa di 430 €.
Vabbè, ho letto anche altro. Una cosa simpatica era su un giornale di destra (quasi tutti i giornali sono un po’ di destra ma dobbiamo immaginarne uno proprio di destra destra). Il giornalista, nemmeno esperto di festival, dice che Gianluca Gori sarebbe un attorucolo da quattro soldi se non vestisse i panni femminili a cui è “costretto”. E aggiunge che è “felicemente eterosessuale”.
A parte che si tratta di autentico outing, devo dire che io non mi ero mai posto il problema dell’orientamento sessuale di Gori. E’ una persona vicina alle nostre cause, le sostiene con classe, è un amico. Punto. Fa politica al festival, sì, come tutti facciamo politica nei nostri ambienti quando affrontiamo problemi comuni. Ciò che non fa è polemica, perché il suo personaggio è volutamente mille metri sopra il concetto stesso di polemica.
Ma quello che mi fa più arrabbiare è questa idea per cui essere eterosessuali vada accostata alla parola “felicemente”. Io sono felicemente gay. Tra chi legge questo articolo, la maggior parte è gay, lesbica, bisessuale, trans, queer, molto felicemente. Chi non sembra tanto felice è il giornalista, così preoccupato di riversare su altri la propria infelicità.
Infelicità che si conferma in quell’idea per cui vestire panni femminili è segno di “costrizione”, come se le donne fossero qualcosa di inferiore. L’ho sempre detto: l’omofobia non è che maschilismo all’ennesima potenza. E qui, di omofobia si tratta, a meno che l’autore del pezzo non sia a sua volta costretto a vestire i panni dell’omofobo per compiacere il suo pubblico.