Essere gay in Somaliland. La fuga di Mohamed per non morire
Articolo di Layla Mahmood pubblicato sul sito del progetto di ricerca sui richiedenti asilo Sogica (Gran Bretagna) il 7 agosto 2020, liberamente tradotto da Sabrina G.
Il caldo avvolgeva Mohamed, 20 anni, mentre vagava per i vicoli di Hargeisa. Era circa mezzogiorno, durante l’estate del 2019. La città stava facendo il riposino pomeridiano: negozi, ristoranti e uffici erano tutti chiusi, quindi era un momento perfetto per chiunque avesse bisogno di muoversi inosservato.
Mohamed stava andando di nascosto a trovare il suo ragazzo, Ahmed, un atto punibile con la reclusione o con la pena di morte in Somaliland.
Hargeisa è la capitale dello stato indipendente non riconosciuto del Somaliland, che si separò dalla Somalia quasi trent’anni fa. I tribunali applicano la legge islamica, la shari’a, che considera l’omosessualità illegale, quindi i somali LGBT+ devono nascondere la loro sessualità, e vivono nella paura di essere scoperti. Per Mohamed, che si considera abbastanza femminile, è stato più difficile passare per etero rispetto ad altri.
Mohamed e Ahmed hanno iniziato il loro consueto incontro romantico a porte chiuse, quando, con loro sorpresa, la sorella di Ahmed è entrata nella stanza. Ha cominciato a urlare, svegliando l’intera casa. In pochi minuti Mohamed è uscito dalla porta e si è nascosto a casa di un amico, dove ha ricevuto una telefonata agghiacciante da un suo alleato: “Non tornare a casa, vogliono ucciderti”.
“La prima volta in cui mi sono reso conto che c’era qualcosa di diverso nella mia sessualità, nel desiderio, nei generi che mi piacciono e non mi piacciono, è stata all’età di quattro o cinque anni”, dice Mohamed.
Da giovane condivideva una stanza con i suoi fratelli maggiori e cugini maschi. La notte, prima di dormire, parlavano di ragazze, e poi gli chiedevano: “Allora, qual è la tua parte preferita del corpo di una ragazza?”; “È stato allora che ho capito di essere diverso”.
Mohamed era affascinato dal trucco e dalla bellezza, preferiva passare il tempo con le sue sorelle piuttosto che con i suoi fratelli. Spesso provava i loro vestiti, e dopo averlo beccato per la terza volta, sua madre si è sentita in dovere di fare qualcosa.
Il suo fratello maggiore è stato incaricato di insegnargli alcuni passi del Corano e delle Scritture complementari, costituite dalle parole del profeta Muhammad, gli ahadith. Ogni notte Mohamed era costretto a recitare: “Dio punisce gli uomini che assomigliano alle donne. E anche le donne che assomigliano agli uomini”.
“Mi diceva che stavo facendo arrabbiare Dio: ‘Ti sta maledicendo. Ti manderà all’inferno nell’aldilà’. Avevo dieci anni, non ce la facevo. Mi svegliavo nel cuore della notte sudando e urlando: ‘Aiutatemi! Salvatemi da Dio, mi sta bruciando all’inferno!’”.
Per un po’ Mohamed ha cercato di soddisfare il desiderio della sua famiglia, e di comportarsi come gli altri ragazzi: “Ma in fin dei conti, non posso controllare quello che mi piace. Ed ero un ragazzo. Le persone, da giovani, dimenticano le cose in fretta”.
Alla fine, quando Mohamed aveva dodici anni, sua madre lo mandò in un “centro di riabilitazione”, una delle istituzioni che hanno il compito riformare bambini, ragazzi e giovani adulti che si ritiene si siano allontanati dai valori somali, sparse in tutta Hargeisa e nel resto del Somaliland e della Somalia.
Le persone vengono spesso trattenute lì contro la loro volontà, in condizioni dure e umilianti. Secondo Mohamed, in molti casi esse sono gestite da truffatori che distorcono le Scritture islamiche a scopo di lucro.
La famiglia di Mohamed credeva che avesse un comportamento effeminato perché era posseduto da un jinn femminile, uno spirito malvagio, e il personale del centro affermava che l’avrebbero scacciato. Si chiamano “salvavita”, perché sostengono di salvare i loro pazienti dall’inferno: “Penso che sia il posto peggiore mai esistito”, dice Mohamed.
Ogni giorno insegnavano a Mohamed come comportarsi da uomo tradizionale, come camminare e parlare, e lo hanno costretto a giocare a calcio con gli altri pazienti, cosa che evitava sempre, se poteva. Il tutto accompagnato dalla lettura quotidiana delle Scritture islamiche.
Il quarto giorno i “salvavita” hanno iniziato ad abusare sessualmente di Mohamed: “Mi violentavano a mezzanotte, e qualche volta venivano in gruppo”.
Lo stupro era abituale nel centro, sia da parte dei pazienti che del personale. Erano tutti stipati in una grande sala con sacchi a pelo, ragazzi di età compresa tra i dieci e i trent’anni. Nessuno li proteggeva. Il personale predicava una cosa durante il giorno, e faceva l’esatto contrario di notte: “Fanno queste cose perché sanno che non lo diremo mai a nessuno”.
Per scacciare i jinn, ai pazienti veniva talvolta somministrato un farmaco a base di erbe, chiamato harmala. Simile all’ayahuasca, causa allucinazioni e vomito, ma anche, così viene promesso, elevazione spirituale e purificazione, ma è stato riferito che le quantità somministrate nei centri di riabilitazione spesso superano di gran lunga le dosi di sicurezza, rendendole letali, in particolare per i bambini.
Dopo essersene andato dalla casa di Ahmed e aver appreso che la sua famiglia voleva ucciderlo, Mohamed ha pianificato la sua fuga.
Quasi nessun Paese rilascia visti ai Somali, a meno che non soddisfino una serie di requisiti quasi impossibili, ad esempio avere decine di migliaia di dollari in un conto bancario. Per chi vive in Somaliland è ancora più difficile, poiché solo pochi Paesi, come l’Etiopia, Gibuti, il Kenya e il Sudafrica riconoscono il passaporto del Somaliland.
L’unica soluzione è spendere migliaia di dollari al mercato nero per comprare passaporti contraffatti, falsi certificati di vaccinazione contro la febbre gialla, e spesso anche visti.
Ecco com’è scappato Mohamed. Qualcuno ha recuperato per lui i documenti necessari in un paio di giorni, dandogli istruzioni su come incontrare un uomo di fronte all’aeroporto di Hargeisa. Ha ricevuto tutto il giorno della partenza, tre giorni dopo che la sorella di Ahmed li aveva visti lanciando l’allarme, e poi è partito. Era la prima volta che prendeva un aereo: “È stato surreale. Non riuscivo a smettere di guardare fuori dal finestrino”, ricorda.
La sua destinazione era la Malesia, perché i visti turistici sono gratuiti all’arrivo, ma la vita da richiedente asilo somalo in Malesia è dura, e anche lì l’omosessualità è illegale.
Mentre la maggior parte dei richiedenti asilo vivono nel limbo per anni prima di essere riconosciuti come rifugiati, il caso di Mohamed è stato accelerato, ed è stato accettato per il reinsediamento. Potrebbe servire un altro anno, però. Nel frattempo, la situazione finanziaria di Mohamed è precaria. Poiché la Malesia non è firmataria della Convenzione di Ginevra, non ha il diritto di lavorare per mantenersi.
C’è anche il rischio che la sua famiglia possa trovarlo, costringerlo a tornare ad Hargeisa e ucciderlo. Non può fidarsi completamente degli altri rifugiati somali e richiedenti asilo in Malesia, perché potrebbero tradirlo: “Dentro di me spero che un giorno potrò andare da qualche altra parte, forse in Europa, forse in America. Nel frattempo cerco di mantenere un profilo basso, e prego che la mia famiglia non mi trovi”.
Non sa cosa sia successo ad Ahmed. Tutti i suoi tentativi di contattarlo sono falliti.
Testo originale: ‘Don’t come back, they’ll kill you for being gay’: Mohamed’s story