Può la chiesa cattolica non benedire le unioni dei suoi figli omosessuali?
Dialogo di Gianni Geraci col teologo Andrea Grillo
Andrea Grillo dal 1994 insegna Teologia dei sacramenti e Filosofia della Religione, presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma ed è stato insegnante all’Istituto di Teologia Pastorale di Padova, all’Istituto Teologico Marchigiano, alla Facoltà Teologica di Lugano e alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Ha pubblicato più di cinquanta libri[1], tra cui troviamo il suo saggio, scritto con Cosimo Scordato, “Può una madre non benedire i propri figli? Unioni omoaffettive e fede cattolica” (editrice Cittadella, 2021, 88 pagine)
Si tratta quindi di una delle persone più titolate per parlare di “Unioni omosessuali e fede cattolica” a cui verrà dedicato da il Guado l’incontro, on line e in presenza, del prossimo 19 febbraio 2022. Ho pensato di fargli un’intervista a tutto campo. E lui, con le sue risposte, non ha certo deluso le mie aspettative.
Professor Grillo, come è nata l’idea del libro “Può una madre non benedire i propri figli? Unioni omoaffettive e fede cattolica”
L’idea del libro è scaturita dalla reazione al responsum del 22 febbraio scorso. Con Cosimo Scordato, al quale mi lega una lunga amicizia e che da tempo lavora anche in una pastorale di unioni omosessuali, abbiamo subito creato una bella sintonia e abbiamo pensato di mettere in comune le forze per scrivere una serie di commenti non solo al testo del responsum, ma alla qualità piuttosto scadente e poco intelligente della riflessione teologica sul tema della omosessualità.
Al Magistero servono categorie meno rozze e più comprensive. Per offrire veri chiarimenti occorre salvare i fenomeni di cui si parla. Quando le categorie impongono distinzioni che non sono adeguate e non colgono distinzioni effettive, non sono utili e spesso diventano dannose.
Nel presentare il suo contributo lei sostiene che il «compito di elaborare nuovi paradigmi appare inaggirabile». Si riferisce solo alla benedizione delle coppie omosessuali o crede che questi nuovi paradigmi vadano elaborati per ripensare l’omosessualità in particolare e l’esercizio della sessualità più in generale?
La benedizione delle unioni omosessuali, nel suo aspetto simbolico e rituale, mette a nudo un deficit di linguaggio e di pensiero che nel testo del responsum emerge con una grande evidenza. Soprattutto a me pare chiaro che non si può portare rispetto e nel contempo negare l’identità. Questo è l’equivoco di fondo non solo del responsum, ma di pressoché tutto il magistero cattolico ufficiale dal 1986 in poi. Si tratta di un equivoco di carattere squisitamente sistematico. Perché quel modo di pensare, che si vorrebbe imporre, separa il soggetto (di per sé sempre rispettato) dai suoi orientamenti e dalle sue scelte. Questa strategia crea troppe mistificazioni, e per questo non funziona.
A un certo punto lei osserva che è la stessa domanda a cui si risponde ad essere fuorviante perché mischia due concetti che non si prestano ad essere accostati tra loro: quello di potere e quello di benedizione, visto che il riconoscimento del bene che c’è in una particolare situazione non è una questione di potere, ma una questione di comprensione della realtà. Non è che senza un ripensamento complessivo della sessualità umana da parte del magistero diventa inutile qualunque richiesta di apertura parziale sul tema del riconoscimento delle coppie dello stesso sesso?
Questo è fuori di dubbio. Lo direi così: la questione omosessuale è compresa dentro la questione sessuale. Ma a sua volta la questione sessuale dipende dal modo con cui si pone in relazione creazione e redenzione, mondo e chiesa. D’altra parte, una lettura sostanzialmente negativa del sesso, che abbiamo ereditato da una lunga tradizione, ha molto condizionato il rapporto del cristiano col mondo. É su questo punto originario che dovremo trovare anche la soluzione della questione omosessuale. Se la Chiesa vuole controllare lo spazio, anziché entrare in processi temporali, non uscirà mai dalla gabbia che essa stessa si è costruita, anzitutto nella teologia della sessualità, che spesso è una cattiva teologia, perché è una teologia piena di pregiudizi.
Non le pare che il problema di fondo sia legato al fatto che in ampi settori della chiesa cattolica non è ancora stata assimilato quanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato il 17 Maggio del 1987, ovvero che l’omosessualità è una «variante naturale del comportamento umano»?
Questo fatto che lei ricorda è esemplare. Una facile scappatoia, rispetto a questa dichiarazione, viene spesso costruita con questa argomentazione: sostenendo che la Chiesa non deve farsi influenzare dalla cultura, anche dalla cultura scientifica, e che ciò che è male resta male anche se la scienza immanentistica e liberale dice che è neutro.
Queste forme di ragionamento non sono molto antiche. In larga parte vengono dalla rinuncia alla cultura che l’antimodernismo di fine ottocento ha diffuso nella Chiesa, nei seminari, nelle facoltà teologiche. Una teologia “autosufficiente” è la premessa di una chiesa autoreferenziale. Così ogni tema problematico risulta sempre «già deciso prima» e così la Chiesa pretende di non poter decidere diversamente da come si è già deciso in passato. Non c’è Organizzazione Mondiale, Stato e o Dichiarazione che possa smuoverla da questa convinzione.
Lei osserva che l’acquisizione (che si è imposta nel corso degli ultimi due secoli) del fatto che l’esercizio della sessualità è qualcosa di molto più articolato della mera attività sessuale ha imposto alla Chiesa un ripensamento della dottrina sul matrimonio, capace di leggere nell’intimità sessuale tra i coniugi non solo un mezzo, ma anche un fine che concorre al loro bene e al bene della coppia. Non le pare però che non ci sia mai stato, da parte della gerarchia, il coraggio di accettare le logiche conseguenze delle aperture fatte nella Lumen Gentium e che ancora, i principali documenti che parlano di sessualità, considerano l’apertura alla generazione dei figli un criterio indispensabile per accettare l’intimità sessuale tra due persone?
Sicuramente la tentazione di perpetuare all’infinito lo stile ottocentesco di teologia del matrimonio, che include in sé ogni sessualità legittima, è ancora in atto oggi. Ma non si può negare che in Gaudium et Spes ed anche in Humanae Vitae, sia pure in una forma un poco criptica, sia saltato il principio ottocentesco di subordinazione di ogni significato della sessualità alla procreazione. Si può giustificare il matrimonio e quindi l’esercizio della sessualità legittima anche senza il fine della procreazione come elemento assolutamente necessario.
Certo, non si sono ancora tratte le dovute conseguenze di carattere simbolico e culturale da questo riconoscimento. Per questo anche il testo di Amoris Laetitia, che pure sul piano generale è un testo di grande rinnovamento, è ancora molto cauto nella apertura al riconoscimento della intimità sessuale legittima come logica della unione in quanto tale.
Che possa esservi apertura alla alterità e fecondità generativa anche in una unione omosessuale risulta ancora un tabù: il fenomeno non ha alcuna forza se il principio astratto non si espone alla esperienza. Ma l’obiezione fondamentale è: «se quello che tu dici essere impossibile è reale, qualcosa non funziona nel modo di guardare e di pensare la realtà».
Tra le cose che emergono dal suo contributo al libro c’è l’inadeguatezza di un approccio al tema delle benedizione che parta da un intento pedagogico che subordina il riconoscimento del bene, anche parziale, che ci può essere in una determinata situazione, all’esigenza di ribadire sempre e comunque una dottrina in cui viene proposto un ideale a cui possono aspirare soltanto in pochi. Non c’è il rischio di tradire la natura universale di una chiesa che si definisce cattolica?
Qui io credo che sia in gioco precisamente la articolazione interna del linguaggio ecclesiale, che corrisponde (e prepara) l’esperienza che la Chiesa fa di sé in relazione al mondo. Come la Chiesa ha un centro, una periferia e un margine esterno, così è per il linguaggio ecclesiale. Se noi volessimo solo parlare il linguaggio eucaristico, dovremmo confessare di essere un semplice centro, senza periferia e senza margine esterno. Il linguaggio della periferia e del margine esterno non è mai solo un linguaggio da iniziati.
Nei secoli passati la benedizione si è fatta carico di essere precisamente uno di questi linguaggi sciolti, semplici, diretti, che non chiede nulla ai soggetti e che annuncia loro il bene che già stanno vivendo e li conforta. Pensare che la benedizione sia subordinata alle condizioni del sacramento (questo è il contenuto sistematicamente più distorto del responsum) crea una sorta di amputazione della tradizione ecclesiale, perché impedisce alla Chiesa di parlare anche i linguaggi della periferia e del margine esterno, come sempre è accaduto lungo la storia e che i nipotini degli antimodernisti oggi temono quasi fosse l’anticristo.
Lei osserva che l’imbarazzo che in alcuni ambienti ecclesiali si prova di fronte a una coppia di omosessuali che chiede di essere benedetta c’è il fatto che questa benedizione manda in crisi l’idea di una competenza esclusiva della Chiesa sul matrimonio e su tutto ciò che ha a che fare con l’esercizio della sessualità.
Non le pare però che le persone che riconoscono questa competenza esclusiva sono ormai una sparuta minoranza, visto che un cattolico che si rifiutasse di celebrare un matrimonio civile verrebbe ormai visto come una persona che non vive nel suo tempo?
E’ vero che chi pretende di riservare soltanto alla Chiesa la competenza sul matrimonio è un sopravvissuto di altre epoche. Ma questo non esclude affatto che la logica del responsum sia una sorta di “critica indiretta” alla competenza con cui gli stati liberali benedicono le coppie omosessuali. L’equivoco sul modo di intendere la benedizione resta alla base di questo modo inadeguato di chiudere la Chiesa ad una esperienza che non è di potere, ma di servizio, non di deliberazione, ma di riconoscimento.
Un’altra cosa che lei fa notare nel suo contributo è l’idea che, dietro al rifiuto di benedire le coppie dello stesso sesso ci sia una visione distorta del “sacramentale” della benedizione il cui fine principale non è quello di dare un giudizio, ma quello di riconoscere uno o più beni presenti. Non è che dietro a questo errore di valutazione ci sia un errore di valutazione dell’esperienza di coppia omosessuale in cui ci si rifiuta di vedere la presenza di qualunque bene?
Qui c’è uno dei punti delicati, dal punto di vista squisitamente sistematico. Io direi così: il CCC, quando definisce la “condizione omosessuale” usa un impianto concettuale che resta contraddittorio e che quindi non riesce veramente ad uscire dalla ambiguità. La persona resta un bene, sempre, ma solo in astratto: infatti ogni orientamento e ogni azione di esercizio della sessualità tra persone dello stesso sesso viene pensata “indipendentemente dalla persona”.
La disonestà dell’orientamento e dell’atto non può essere mai “coonestata” (per usare un terribile termine della teologia morale). Accettare il “bene possibile” è la logica elementare, ma rivoluzionaria, che Amoris Laetitia ha restaurato, e che però il testo di Francesco applica alle persone omosessuali solo come “figli” e non come “amici”, “compagni” e “partner”. Segnalo, però, che proprio su questo aspetto negli ultimi due anni sono usciti in Italia volumi importanti di Fumagalli, di Petrà ed anche una raccolta di testi di Baget Bozzo, ripubblicati opportunamente da L. Accattoli.
Cosa dovrebbero fare, secondo lei, due omosessuali che sentono l’esigenza di sentirsi benedetti da Dio?
Dovrebbero mettersi davanti a Dio e alla Chiesa con tutte le risorse, i limiti e le speranze che appartengono anche agli eterosessuali. Sia pure nella differenza delle forme e degli effetti, omosessuali ed eterosessuali vivono la sessualità come un mistero. E possono vivere la continenza, la castità e l’esercizio della sessualità secondo la forma dell’amore coniugale. A certe condizioni, nessuno può essere costretto a fare ciò che non vuole, né a non fare ciò che vuole, purché non leda il prossimo o se stesso. Le offese a Dio e al bene comune non si lasciano interpretare a tavolino e accomunano, ahimé, etero- e omo-sessuali.
Questa domanda esula un po’ dai contenuti del suo libro, ma non riesco a non fargliela. Lei più volte osserva che la Chiesa non ha solo un compito pedagogico, ma deve anche essere “madre”. La storia della Chiesa è però piena di errori e di valutazioni sbagliate: nel suo libro accenna al caso Galileo, ma ce se ne potrebbero citare davvero tanti altri: si parte dall’atteggiamento sulla monogenesi dell’umanità e si arriva, passando dal rifiuto di riconoscere la libertà religiosa, dall’opposizione feroce alla nascita di alcuni stati europei, dall’appoggio ad alcune dittature, dalla difesa del potere temporale dei papi, allo scandalo degli abusi sessuali sui minori.
Alla luce di questa lunghissima storia di errori ha davvero senso parlare di una Chiesa “maestra di umanità” che si arroga il diritto di dare delle direttive che, alla luce della storia, si sono poi rivelate sbagliate?
Qui occorre essere molto chiari. Le evidenze che la storia guadagna sono graduali e non si impongono mai di colpo. Le colpe della Chiesa sono molto evidenti da un lato per il fatto che cammina da due millenni – ed è l’unica delle autorità ad avere una memoria gloriosa e una fedina penale così lunga. Nessuna “autorità” nella storia ha una eredità così lunga e così pesante. Ma le cose si sono aggravate soprattutto da quando la Chiesa ha tentato di chiamarsi fuori dalla cultura comune, ossia a partire dal XIX secolo. Il modo stesso di “essere autorevole”, che è costitutivo dell’essere Chiesa, se viene declinato solo nella forma dell’ancien régime, diventa facilmente una controtestimonianza.
Nella questione della omosessualità, come nella pastorale familiare, come nella questione degli abusi ecclesiastici, oggi la Chiesa cattolica sconta una sorta di nemesi: avendo tradotto il Vangelo prevalentemente sul registro della “proibizione sessuale”, si trova in imbarazzo nel trovare le parole più adatte e i pensieri più adeguati per prendere le misure dei fenomeni attuale. Così rischia sempre di trovare il male dove non è e di non trovarlo dove è. Così può aver ritenuto “intrinsecamente cattivo” il secondo matrimonio o una unione omosessuale, ma non riesce ad uscire dalla tentazione di soprassedere sugli abusi su un minore.
Qui non è questione di buona o mala fede. E’ questione di categorie inadeguate con cui viene pensata la “vita giusta” e il “rendere giustizia”. Siamo giustificati in Cristo: che cosa questo significhi non può essere risolto soltanto sulla base del repertorio del passato. Diceva Romano Guardini: «la storia ci dice che cosa è stato, ma che cosa deve essere può dircelo solo una nuova sintesi sistematica».
Che è quello che oggi ci manca di più. Pensiamo di risolvere la questione omosessuale giustapponendo frasi antiche e frasi nuove. Dobbiamo fare una nuova sintesi dottrinale sulla omosessualità, che non inizi dalla omosessualità come perversione, ma dalla omosessualità come condizione. Se non ora, quando?
[1] Tra i testi pubblicati da Andrea Grillo mi permetto di ricordare: Guida laica per tornare a messa. Dal precetto alla libertà (San Paolo, 1997); Introduzione alla teologia liturgica. Approccio teorico alla liturgia e ai sacramenti cristiani (EMP, 1999); Il rinnovamento liturgico tra prima e seconda svolta antropologica. Il presupposto rituale nell’epoca del postmoderno (Edizioni VivereIn, 2004); Oltre Pio V. La Riforma liturgica nel conflitto di interpretazioni (Queriniana, 2007); Riti che educano. I sette sacramenti (Cittadella, 2011); Indissolubile? Contributo al dibattito sui divorziati risposati (Cittadella, 2014); Le cose nuove di “Amoris Laetitia”. Come papa Francesco traduce il sentire cattolico (Cittadella, 2016); Le istituzioni ecclesiali alla prova del genere. Liturgia, sacramenti e diritto (con Donata Horak, San Paolo 2019); Uomini… fratelli tutti? L’abbozzo di un sogno (Cittadella, 2021).