Sguardi su Pasolini: Pasolini e la tolleranza
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Testo di Luciano Ragusa presentato in apertura della tavola rotonda de Il Guado dedicata a Pier Paolo Pasolini, in occasione dei quarant’anni dalla morte il 7 novembre 2015
Siamo nel giugno del 1974: Pasolini organizza nella città di Milano una proiezione unica del suo ultimo film Il fiore delle mille e una notte. Lo scopo dichiarato è quello di raccogliere fondi per girare un documentario che attesti la necessità, e l’urgenza, di riumanizzare una città, Milano appunto, il cui modus vivendi, ha trasformato i cittadini in individui spersonalizzati.
La proiezione viene bloccata da una denuncia per oscenità, ma, il Sostituto Procuratore di Milano competente, Caizzi, non promuove nessuna azione legale nei confronti del lungometraggio, in quanto, gli riconosce lo statuto di “opera d’arte”.
Nella mente di Pasolini si insinua un tarlo, infatti, se consideriamo quanto successo nel 1971, anno dell’uscita nelle sale del primo film della “Trilogia della vita”, Decameron, ed il non luogo a procedere del Procuratore Caizzi, non tornano i conti.
Come si può passare da ottanta denunce ed uno strascico dal profumo scandalistico, al riconoscimento dello statuto di “opera d’arte”? Cosa è cambiato nella società italiana, nel giro di un paio d’anni, da considerare artistico ciò che fino ad allora era oggetto di turbamento e censura?
Il regista formula due ipotesi: c’è stato un repentino processo di crescita culturale e intellettuale di cui esso stesso non si è accorto. Forse è nata una nuova morale la cui palingenesi non è stata registrata dall’antropologo Pasolini.
Niente di tutto ciò, per cui, al poeta, non resta che annunciare la morte della “repressione” e l’avvento dell’era della “tolleranza”: si accorge, cioè, che è l’atteggiamento nei suoi confronti ad essere cambiato, viene, in ultima istanza, tollerato. Intuisce di conseguenza che il nuovo modus operandi nulla ha a che fare con il riconoscimento di una validità artistica e intellettuale del suo pensiero, né tantomeno di una revoca della patente di diversità che da sempre accompagna la sua vita.
È la strategia del potere che è cambiata: si è dotata di un’arma, la “tolleranza”, che Pasolini legge come una forma più raffinata di condanna rispetto alla “repressione”. Infatti, nei regimi repressivi, il momento politico o reazionario viene salvaguardato, perché riconosciuto, e dunque represso.
La falsa permissività, invece, tranquillizza tutti: pasce i neoconservatori che a questo punto possono fregiarsi del distintivo di illuminati; ma seda anche i progressisti, che si vedono promuovere alcune delle loro istanze.
È chiaro che in uno scenario di questo tipo ogni gesto squisitamente politico diventa folcloristico, al massimo fenomeno di costume, per cui, come dirà Giorgio Gaber vent’anni dopo la morte la morte di Pasolini, in una canzone intitolata “Destra o sinistra”, fare il bagno nella vasca è di destra far la doccia invece è di sinistra, il culatello è di destra la mortadella è di sinistra, ecc. ecc.
La paura, sia dell’uomo, che dell’artista, è che in un tale regime non venga più riconosciuta nessuna forza di cambiamento, sia che giunga dalle élites, che dal mondo proletario, perché private di ogni possibilità dialettica tanto cara alla tradizione a cui Pasolini dichiara di appartenere.
In un’intervista del 1968 che diventerà un libro, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, il poeta dichiara di conoscere il filo conduttore che dalla dialettica hegeliana conduce a Marx. Ma sostiene soprattutto che la lettura dello stesso Marx è stata mediata dalla figura di Gramsci. Non può dunque non venirci in mente la lettera di Gramsci dell’11 febbraio 1917 intitolata Odio gli indifferenti:
Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita.
Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza.
Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.
Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente.
Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto.
E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo.
E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
Il rischio che Pasolini vede è che la società italiana si trasformi in una sorta di calderone in cui tutto è indifferenziato: per tornare ad Hegel è terrorizzato all’idea che ogni intento finisca nella filosofica notte della Fenomenologia dello spirito in cui tutte le vacche sono nere.
Se dunque, fino al 1974, il meccanismo di omologazione aveva espresso la sua forza sulle classi subalterne, da qui, in avanti, sono le élites a esserne investite, e proprio grazie all’arma della tolleranza, la quale, sembra in grado di depotenziare qualunque pensiero di qualsiasi individuo. Nemmeno Pasolini a quel punto si sente immune da questo procedimento, motivo per il quale è cascata l’accusa di oscenità a suo carico per quanto riguarda Il fiore delle mille e una notte.
Però, a differenza degli altri intellettuali, si sente ancora protetto da quella abiezione sessuale, la sua omosessualità, che lo dispensa dall’omologazione.
Infatti, negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane, Pasolini rilancia cose trite e ritrite: Eros e civiltà di Marcuse è pubblicato nel 1955; il concetto stesso di “tolleranza repressiva” è teorizzato dallo stesso Marcuse nel 1964 ne L’uomo a una dimensione; così come decenni prima, 1945, Horkheimer e Adorno pubblicano la Dialettica dell’illuminismo, dove si studiano gli effetti dell’industria culturale di massa e il feticismo della merce nelle società capitalistiche (senza contare gli innumerevoli studi dei sociologi americani).
Pasolini stesso dice che il “genocidio culturale” era già stato descritto da Marx nel Manifesto del Partito Comunista pubblicato nel 1848.
Ciò che lo ha reso unico è stato il suo terzo occhio: lo strumento conoscitivo del poeta è rappresentato dalla sua esistenza, ovvero il tipo di vita che gli veniva imposto dalla sua diversità, dal suo amore per i ragazzi proletari. È il suo essere un “empirista eretico” a fare scandalo.
Si perché mentre di un approccio filosofico, il regime di tolleranza, ne può fare spallucce, disinteressarsene, considerarlo fenomeno modaiolo, con chi vive sulla propria pelle un cambiamento diventa più complesso gettarlo nel bidone dell’indifferenziato.
Pasolini capisce, precedendo Foucault, che il nuovo potere non agisce solo sulla dimensione critica del pensiero, ma agisce sui corpi modificandoli irreversibilmente. Tutti gli articoli degli Scritti corsari o delle Lettere luterane che richiamano al cambiamento fisico dei ragazzi italiani possiedono questa valenza, ovvero la capacità del nuovo potere di plasmare bio-politicamente l’esistenza delle nuove generazioni.
Riassumendo, ciò che creava scandalo nei corsivi dello scrittore friulano non era il risultato finale delle sue argomentazioni, già espresse sotto forma di sociologia e filosofia da altri pensatori in tutto il mondo occidentale, ma il metodo con il quale vi arrivava.
Una conoscenza empirica, sperimentata sui corpi che Pasolini amava, e che col passare del tempo cercava sempre più a sud, non solo della penisola, ma anche del mondo, ancora troppo eretica per essere smorzata dalla “tolleranza”.
Dunque mai, il poeta, avrebbe rinunciato al suo personale modo di focalizzare la realtà, perché mentre l’adattamento asettico era già cominciato per la sua opera artistica, grazie all’omosessualità, e a ciò che comportava nella sua esistenza, l’uomo si sentiva protetto dal processo di omologazione.
Un esempio emblematico è un articolo apparso sul settimanale Tempo il 26 aprile 1974 (oggi raccolto negli Scritti corsari), un paio di mesi prima del non luogo a procedere del “fiore”, intitolato Gli omosessuali: si tratta di una recensione di un libro, pubblicato in Francia nel 1973, e tradotto in italiano per “Vallecchi” l’anno successivo, che porta appunto lo stesso titolo.
A scriverlo sono Marc Daniel e André Baudry, rispettivamente uno storico e un filosofo fondatori del movimento omofilo “Arcadie” e dell’omonima rivista, i quali, propongono una via liberale verso l’integrazione delle persone omosessuali.
La tesi principale del libro è che l’apertura verso temi come l’aborto, il divorzio, i contraccettivi, i rapporti extra-matrimoniali, consentiranno, in un futuro molto prossimo, una facilitazione dell’abbattimento del tabù nei confronti dell’omosessualità. Inoltre, vista la presenza delle persone omosessuali in tutti i ranghi della società, chiamato interclassismo ecumenico, potrà facilitare processi di accettazione della stessa, per lo meno nei regimi a carattere liberale. Secondo Pasolini il libro è viziato da una serie di errori:
- Non considera il regime di “tolleranza repressiva” in cui si trova immersa l’intera Europa occidentale: fa notare per esempio che anche negli anni 20’ le persone omosessuali godevano di una certa libertà e tolleranza che si è poi trasformata in terrore e campi di concentramento.
- Il poeta rifiuta il momento identitario del libro, rappresentato dalla consapevolezza che un omosessuale, come oggetto del proprio desiderio, cerchi un altro omosessuale. Per Pasolini, il massimo del godimento, si manifesta quando si riesce convincere un eterosessuale a far l’amore con un omosessuale, in quanto si può godere della massima mascolinità.
- Daniel e Baudry sono convinti che la psicoanalisi non sia né necessaria né sufficiente per comprendere il fenomeno dell’omosessualità; Pasolini afferma il contrario, relegandone lo sviluppo alla teoria dell’edipo di freudiana memoria.
- Ma forse, la cosa più importante, è che il nostro poeta contesta il momento politico del libro, dichiaratamente anticomunista e filo-liberale: non è convinto che l’ecumene interclassista possa salvare dalla discriminazione e dalla violenza gli omosessuali, infatti, l’unica cosa interessante nella presenza degli omosessuali in tutte le classi, è che si possa innestare tra loro una lotta di classe che porti ad una conoscenza di classe. Come esempio, porta il romanzo di E.M. Forster, Maurice, che narra la storia d’amore tra un nobile ed un servo, e l’Ernesto di U. Saba, in cui la vita di uno studente universitario e di un operaio si intrecciano amorevolmente. Coscienza di classe e conoscenza di classe sono il vero momento politico dei rapporti omosessuali che, Daniel e Baudry, si giocano, secondo l’articolo corsaro, con troppa leggerezza.
Da tutto ciò che si è scritto fin qui, risulta evidente che mai, il nostro autore, avrebbe rinunciato alla sua patente di diversità in luogo di una moderazione ansiosa che egli stesso definisce patetica. Se da intellettuale è cominciato il processo di adattamento, come omosessuale, non vuole essere omologato, o peggio, guardato con rassegnazione. Questo perché è tolleranza imposta dal potere, caduta dall’alto, che necessita di “elasticità formale ed esistenziale affinché i singoli diventino buoni consumatori “. Una società in cui le esigenze si moltiplicano ne esce più avida di consumi, ed i corpi in generale, nonché l’omosessualità nello specifico, non sono avulsi da questo pericolo.
Al di là della evidente omofobia di Pasolini, per altro nemmeno velatamente espressa, punta il dito contro l’etica della permissività, la quale, neutralizza ogni tentativo di cambiamento vero proveniente dal basso. È a questo punto che per l’artista capovolge il mondo: non bastano più opere dalla forte tinta protestatoria, perché formalmente digerita dallo stomaco della modernità; non resta altro da fare che conferire alla protesta una forma apocalittica, che oltrepassi volutamente il limite della tolleranza imposta dal potere. Da questa esigenza nasce Salò, quel luogo dove la caduta delle ideologie, unita alla biopolitica del potere applicata ai corpi, si trasforma in una società dove “tutto è buono quando è eccessivo”.
CONCLUSIONE:
Ma Pasolini fu un uomo tollerante? Certo, se applichiamo il concetto di “tolleranza” con la stessa sfumatura semantica che sin qui abbiamo descritto, saremmo portati a rispondere no. Senza contare tutte le volte che l’antropologo Pasolini si è scagliato contro l’uomo medio con parole al vetriolo, arrivando a sostenere di odiare i ragazzi italiani delle nuove generazioni.
Chi ha conosciuto personalmente il poeta, però, lo descrive come uomo mite, dalla straordinaria capacità di entrare in empatia con qualsiasi persona avesse di fronte, dall’intellettuale, alla contadina calabrese o siciliana.
Resta come dato di fatto che il regista friulano ha subito trentatre processi (se consideriamo i diversi gradi di giudizio si è dovuto presentare ai giudici più di ottanta volte) oltre ad una campagna di violenze verbali, a volte anche aggressioni fisiche, ogni qualvolta scrivesse, pubblicasse, dirigesse un film.
Ma nonostante questo, anche quando l’evidenza dei fatti gli dava ragione, mai si servì di quelle armi, denunce o querele, per ottenere risarcimento da parte di qualcuno. Senza contare tutte quelle persone che in forma gratuita Pasolini ha aiutato, come Ninetto Davoli, oppure Franco Citti il quale, in una intervista, dichiara che se nella sua vita non fosse entrato il regista sarebbe diventato un ladro.