Pasolini e la sua vocazione per il cinema
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Riflessioni di Luciano Ragusa
La vocazione cinematografica di Pasolini è arcaica quanto quella della poesia o della narrativa: lo dimostra il fatto che nel decennio che precede l’uscita di Accattone, primo film la cui direzione è di Pasolini, collaborò con diversi registi importanti, tra cui Fellini e Bolognini, alla stesura di soggetti e sceneggiature per il cinema.
Ma al di là delle cooperazioni, leggibili anche come necessità economica a causa del trasferimento da Casarsa a Roma, è lo stesso regista, in diverse occasioni, a fornirci la sua testimonianza:
In realtà non c’è mai stato un passaggio […], ho sempre pensato di fare del cinema. Prima della guerra pensavo che sarei venuto a Roma a fare il Centro Sperimentale, se avessi potuto. Questa idea del fare del cinema, vecchissima, poi si è arenata, si è perduta. Infine ho avuto l’occasione di fare un film e l’ho fatto. Se prendete, ad esempio, certe pagine di “Ragazzi di vita”, vi rendete conto che sono già visive. Cioè, nella mia letteratura esiste una forte dose di elementi cinematografici. Avvicinarsi al cinema è stato quindi avvicinarsi a una tecnica nuova che già da tempo avevo elaborato. (M. D’Avack, Cinema e letteratura, Canesi, Roma, 1964, pag. 111).
E con maggior forza in un’altra occasione:
Se io mi sono deciso a fare dei film è perché ho voluto farli esattamente così come scrivo poesie, come scrivo i romanzi. Io dovevo per forza essere autore dei miei film, non potevo essere coautore, o un regista nel senso professionale di colui che mette in scena qualcosa, dovevo essere autore, in qualsiasi momento della mia opera. (P.P. Pasolini (colloquio con), “Una visione del mondo epico-religiosa”, in “Bianco e nero”, n. 6, giugno 1964).
Certamente alcuni critici, come Alfio Ferrero, non mancano di sottolineare una certa discontinuità tra la letteratura e il cinema pasoliniano, frattura, che invece, manca, tra Le ceneri di Gramsci e Accattone, le cui letture sono speculari.
Pasolini e Longhi
Tralasciando completamente l’aspetto filologico della questione, è utile insistere sulla formazione figurativa dell’autore-regista Pasolini, la quale, è stata fortemente influenzata da uno dei più grandi critici d’arte che l’Italia abbia mai avuto, Roberto Longhi.
Pasolini ha un ricordo folgorante di Longhi, del quale seguì un memorabile corso nel 1940, intitolato Fatti di Masolino e di Masaccio:
Longhi era sguaiato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo silenzio era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione. (W. Siti, F. Zabagli, Pasolini per il cinema, Mondadori, Milano, 2001, pag. LXI (a cura di N. Naldini).
Il critico Longhi influenza certamente l’aspetto tecnico figurativo della visione cinematografica di Pasolini, e lui stesso, in diverse occasioni, ne spiega i principi:
Io cerco la plasticità, soprattutto la plasticità dell’immagine, sulla strada mai dimenticata del Masaccio: il suo fiero chiaroscuro, il suo bianco e nero […]. Non posso essere impressionistico. Amo lo sfondo, non il paesaggio. No si può concepire una pala d’altare con le figure in movimento.
Detesto il fatto che le figure si muovano. Perciò nessuna mia inquadratura può cominciare col “campo”, ossia con il paesaggio vuoto. Ci sarà sempre, anche se piccolissimo, il personaggio. Piccolissimo per un istante, perché grido subito al fedele Delli Colli di mettere il settantacinque: e allora giungo sulla figura: una faccia in dettaglio. E dietro lo sfondo, lo sfondo, non il paesaggio. (P.P. Pasolini, Mamma Roma, Rizzoli, Milano, 1962, pag. 149).
E qualche pagina prima:
[…] il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto – che sono i pittori che amo di più, insieme a certi manieristi (per esempio il Pontormo).
E non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, trecentesca, che ha l’uomo come centro di ogni prospettiva.
Quindi quando le mie immagini sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obiettivo si muovesse su loro sopra un quadro; concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e per questo, lo aggredisco sempre frontalmente.
E le figure si muovono su questo fondo sempre in maniera simmetrica, per quanto possibile: primo piano contro primo piano, panoramica di andato contro panoramica di ritorno, ritmi regolari (possibilmente ternari) di campi, ecc. ecc.
Non c’è quasi mai un accavallarsi di primi piani e di campi lunghi. Le figure in campo lungo sono sfondo e le figure in primo piano si muovono in questo sfondo seguite da panoramiche, ripeto, quasi sempre simmetriche, come se io in un quadro – dove, appunto, le figure non possono essere che ferme – girassi lo sguardo per vedere meglio i particolari. Sicché la mia macchina da presa si muove su fondi e figure sentiti sostanzialmente come immobili e profondamente chiaroscurati. (P.P. Pasolini, Mamma Roma, Rizzoli, Milano, 1962, pag. 145).
Dove collocare il cinema di Pasolini
Ma all’interno di quale corrente si può inscrivere un cinema di questo tipo? Un gusto figurativo, perciò non cinematografico, i cui contenuti sono visivi ma allo stesso tempo, anche poetici? Gli espedienti necessari per comprenderlo, come spesso accade con Pasolini, è lui stesso a fornirceli, e, in questo frangente, possiede un nome ben preciso: “empirismo eretico”. L’empirismo è un’impostazione che, nella costruzione della verità, si avvale di dati sensibili, in ultima analisi dei dati fattuali, oggettivi: esprimere la realtà attraverso la realtà. Ma diventa eretico nella misura in cui lo sguardo che accoglie le cose del mondo è non naturale, cioè poetico-religioso, come di colui che privilegia del creato il suo essere miracoloso, ovvero irrazionale.
È un tipo di cinema che non può essere affiancato al Neorealismo, perché in esso c’è l’imitazione della vita, non la vita stessa:
Io preferisco lavorare con attori scelti nella vita, a caso, vale a dire scelti per quanto mi sembrano di esprimere a loro insaputa: con non professionisti. L’attore professionista ha fin troppo l’ossessione del naturale e del ghirigoro. Ora, io odio il naturale (che del resto viene per lo più esagerato dall’attore per paura di non rendere le sfumature), detesto in arte tutto ciò che attiene al naturalismo. (P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di J. Duflot, Riuniti, “I Libelli”, Roma, 1993).
Nico Naldini, nella sua biografia dedicata al cugino, si accorge di questo stacco, e così commenta.
Quest’ultima dichiarazione mette in risalto quale distacco sia avvenuto dalla tradizione recente del film neorealista. Il Neorealismo, per imitare la vita, usava piani lunghi, sequenze che cercavano di riprodurre il ritmo della vita quotidiana reale. Pasolini invece si sforza di ricostruire tutto, di non riprodurre naturalisticamente ciò che accade nella vita, usando il campo e il controcampo per evitare la narrazione lunga. (N. Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, “Gli struzzi”, Torino, 1989).
In misura ancor maggiore risulta distante da Federico Fellini, il quale, dopo aver visto alcune immagini di Accattone, di cui doveva essere finanziatore, rinunciò al progetto perché disgustato dal girato; gli unici debiti effettivi che Pasolini riconosce a sé stesso sono Dreyer, Mizoguchi, Charlot.
“L’immagine è pregrammaticale”
Un’ultima cosa non può essere omessa, sebbene solo sfiorata, nella gestione narrativa dei film del regista: l’introduzione nel cinema della “soggettiva indiretta libera”.
È una tecnica, soprattutto sperimentata, come dimostra Bachtin in Marxismo e filosofia del linguaggio, 1929, in letteratura a partire da Dostoevskij sotto forma di “discorso indiretto libero”, che consiste in una interazione dialogica tra autore e personaggio, in cui, il discorso riportante (autore) e il discorso riportato (personaggio), si incontrano polifonicamente.
Pasolini sostiene l’irrazionalità del cinema che lo oppone alla razionalità della prosa, e perciò condanna la “narrazione” in favore della “espressione”; il cinema è pregrammaticale e preistorico, ma è stato piegato alle esigenze della narrazione, e comunque mantiene la forza eversiva dell’universo espressivo non codificato.
La “poesia” del cinema si realizza mediante l’inclusione della soggettività del poeta, compiuta attraverso un’inquadratura che caratterizza il punto di vista di un personaggio (soggettiva) ma stabilisce una programmatica indistinzione tra autore e personaggio: il cinema di poesia è stabilito così, dallo scambio di punti di vista tra autore e personaggio, con lo svuotamento dell’inquadratura dai personaggi e un’attenzione ai dettagli non contestualizzati come soggettiva dei personaggi stessi.
Bibliografia:
- A. Bazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
- D’Avack, Cinema e letteratura, Canesi, Roma, 1964.
- Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia, 1994.
- Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, “Gli Struzzi”, Torino, 1989.
- P. Pasolini, Mamma Roma, Rizzoli, Milano, 1963.
- Una visione del mondo epico-religiosa, in “Bianco e nero”, n. 6, giugno 1964.
- Empirismo eretico, Garzanti, “Gli Elefanti”, Milano, 1991.
- Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Riuniti, “I Libelli”, Roma, 1993.
- Pozzetto, Lo cerco dappertutto. Cristo nei film di Pasolini, Ancora, Milano, 2007.
- Siti, F. Zabagli, Pasolini. Per il cinema, Mondadori, “Meridiani”, Milano, 2001.