Quando l’omofobia serve agli adolescenti per sentirsi veri uomini
Articolo di Delia Vaccarello pubblicato su L’Unità del 9 gennaio 2013
A cosa serve il bullismo omofobico? la violenza a scuola è un fulmine nel cielo sereno della convivenza scolastica o invece ha radici fortissime? Dinanzi alle differenze a chi giova rispondere con la violenza? A questi e ad altri interrogativi, Giuseppe Burgio, ricercatore in campo pedagogico da anni impegnato sulle questioni legate all’orientamento sessuale, risponde in maniera netta: l’omofobia serve agli adolescenti per sentirsi veri uomini. Nel saggio Adolescenza e violenza.
Il bullismo omofobico come formazione alla maschilità (ed. mimesis), Burgio dimostra che il bullismo omofobico è una tappa nel processo di costruzione della virilità: chi lo esercita ricava il vantaggio di aderire allo stereotipo del maschio come si deve. Disprezzare ciò che è «passivo» e «femminile» (caratteristiche associate
all’omosessualità) diventa un elemento cruciale, così in adolescenza l’odio per i gay si rivela un modo di esorcizzare la tentazione di essere «dipendenti» quindi «femminucce» attraverso l’identificazione della virilità con l’aggressività.
Un fenomeno non isolato
L’omofobia non sarebbe un fenomeno isolato, messo in atto a scuola dai ragazzi che «scherzano pesante» ma diventa necessario ai ragazzi eterosessuali per definirsi all’altezza di quella virilità simbolica che la società e la cultura impongono di interpretare.
Prendendo in esame testimonianze dirette Burgio si concentra sugli attori della relazione – vittime, aggressori, contesto scolastico – e analizza alcuni aspetti importanti tra cui spicca «il disgusto maschile»: nei racconti si parla di sputi e di altre violenze che avvengono nei gabinetti (dove ci sono sporcizia e cattivi odori), una collocazione che dimostra il bisogno di marcare un confine nei riguardi dei gay, considerati persone che provocano ribrezzo contro le quali schierarsi.
Poiché a livello «fantastico» il contatto con l’omosessuale «sporca» la virilità, il ragazzo gay viene degradato, associato allo squallore, per sottolineare ancora di più la differenza rispetto al coetaneo etero con il vantaggio di proclamarsi «veri maschi».
Ancora, un elemento costante nelle testimonianze è «il pettegolezzo derogatorio»: oltre all’insulto, infatti, assume un ruolo predominante «il dirlo in giro». L’omosessualità di un compagno va resa nota attraverso un turbinio di voci e, peggio, va provata attraverso invasioni della privacy, come il furto di telefonini e diari, nonché vere e proprie trappole. Un compagno etero, ad esempio, provoca l’amico che sente invaghito di lui fino ad illuderlo di dargli un bacio: «il mio ex compagno di banco, ex amico, ex persona di cui ero innamorato, ci ha provato con me in maniera molto esplicita e spudorata per vedere se io ero gay, io ho ceduto e appena sono andato per baciarlo si è scostato, mi ha allontanato, si è alzato e se ne è andato e poi mi ha sputtanato con tutti quanti…».
Atteggiamento inquisitorio
L’atteggiamento inquisitorio nei riguardi di chi è sospettato di omosessualità risulta necessario perché avere accanto un ragazzo gay diventa per molti etero un’esperienza minacciosa. Inutile sottolineare la tortura cui l’adolescente omosessuale viene esposto. A cambiare la situazione – oltre che una scuola del futuro dove programmi, docenti e personale ausiliario, non colludano con gli stereotipi della «virilità autentica» -, ci stanno pensando anche i ragazzi.
L’omosessuale che dichiara se stesso e il proprio desiderio non si pone più come vittima e non fornisce più al ragazzo etero uno specchio rovesciato utile a definirsi. Il ragazzo gay che si sfila dal gioco «vittima aggressore», spinge gli etero a non considerare il proprio percorso così scontato, con l’esito auspicato di incrinare la corazza degli stereotipi.
È possibile – conclude Burgio – che la rottura del legame tra violenza e maschilità possa ricodificare la virilità a livello simbolico, e far sorgere «una maschilità che non si vergogni di riconoscere come proprie anche la cura, la relazionalità, la mitezza».
Per far questo occorre ripensare il maschile, fornire ai ragazzi modelli diversi e articolati, far comprendere che per diventare adulti bisogna necessariamente «attraversare» la condizione di sentirsi «confusi e smarriti», che è ben più fertile del mascherarsi dietro corazze, violenze, stereotipi. Occorre una nuova educazione alla maschilità, i cui primi «discepoli» saranno i maschi già adulti.