Queer Public History. Per una storia dell’attivismo queer
Dialogo di Katya Parente con il professor Marc Robert Stein
Un gradito ritorno quello di oggi: infatti il nostro ospite di oggi, il professor Marc Robert Stein della San Francisco State University, ci onora per la seconda volta della sua presenza (chi volesse recuperare la prima intervista può farlo cliccando qui). Titolare della cattedra Jamie and Phyllis Pasker di storia, tra poco uscirà il suo libro intitolato “Queer Public History: Essays on Scholarly Activism”, una raccolta di saggi scritti nel corso di trent’anni che ha già ricevuto ottime recensioni.
È noto che gli Stati Uniti sono pionieri rispetto ai queer studies, tuttavia non tutto il mondo accademico è favorevole a tale oggetto di studio. Perché questa divisione?
È una buona domanda, davvero. Rispondere significherebbe ripensare alla storia, alla politica e alla filosofia dell’educazione. Se la funzione e lo scopo dell’educazione formale è quello di replicare l’ordine sociale e rafforzare la gerarchia esistente, allora posso rispondere alla domanda dicendo che il mondo accademico rifiuta i queer studies perché potrebbero minare il sostegno del mondo accademico all’ordine sociale. In particolare, i queer studies potrebbero incoraggiare gli studenti a farsi domande e a mettere in discussione la supremazia eteronormativa.
Se invece pensiamo che le istituzioni educative possano esaminare criticamente l’ordine sociale, allora rispondere alla tua domanda è molto più difficile. Fino agli anni ’60 e ’70 l’educazione superiore negli Stati Uniti (e praticamente dappertutto) era assolutamente etero, bianca e maschilista, e generalmente guardava con ostilità ai nuovi approcci alle classi sociali, al genere, all’etnia e alla sessualità. Discipline come la storia erano concentrate sui “grandi uomini”, le “grandi idee” e le “grandi guerre”, e non sulle persone ordinarie, la vita quotidiana, la sfera privata, o su argomenti relativi al genere e alla sessualità.
Col tempo, i movimenti sociali “forti” degli anni ’50, ’60 e ’70, inclusi quelli che sfidavano il razzismo, il sessismo, la guerra, il capitalismo e il colonialismo hanno influenzato il mondo accademico, aprendo possibilità concrete, seppur contestate, ai queer studies.
In Italia gli studi queer a livello universitario sono molto indietro (è solo di qualche anno fa il primo corso del genere tenutosi a Torino). Come mai?
Tu e i tuoi lettori siete in una posizione migliore della mia per rispondere a questa domanda, ma da quello che so della storia europea ed italiana, la colpa è in parte della Chiesa Cattolica e dell’influenza secolare che ha avuto sullo Stato e sull’educazione, specialmente su quella superiore.
Per rispondere, è anche importante considerare lo stato dell’attivismo queer in Italia e la sua influenza sugli studi superiori. Come scrivo nel mio nuovo libro, a partire dagli anni ’70 e ’80 l’attivismo a livello accademico ha lottato duramente per creare uno spazio per gli studi queer nei college e nelle università statunitensi; questo sforzo ha significato avvicinarsi all’educazione superiore come ad una sfera, un luogo preciso, l’obiettivo dell’attivismo stesso, e non semplicemente come un posto in cui studiare l’attivismo.
In un saggio di prossima pubblicazione sulla rivista “Law and Social Inquiry”, per esempio, esamino quattordici casi degli anni ’70 in cui studenti LGBT hanno portato in tribunale le loro università dopo che esse avevano rifiutato di riconoscere dei gruppi di studenti omosessuali di nuova creazione. Nel frattempo, alcune facoltà combattevano per creare programmi e corsi di studio LGBT.
C’è stato qualcosa di simile in Italia? Mi interesserebbe sapere qualcosa anche sulla storia della sinistra e su quella del femminismo in Italia. Negli Stati Uniti, negli anni ’70 e ’80, gli studenti LGBT e le facoltà erano appoggiate da simpatizzanti di sinistra, specialmente negli studi femministi e in quelli di genere. Parte della sinistra tradizionale, che predilige la classe al di sopra di ogni altra categoria sociale, ha iniziato ad accorgersi dell’importanza dell’etnia, del genere e della sessualità.
Nel libro sono, tra l’altro, raccolti e rielaborati alcuni dei tuoi scritti precedenti. Si può definire una sorta di diario?
Sì, penso sia esatto. Il libro raccoglie più di trenta saggi scritti negli ultimi trent’anni, e ho scelto di proposito monografie pubblicate per i non addetti ai lavori, piuttosto che altre pubblicazioni universitarie più particolari. Nell’introduzione di ognuna delle otto parti del libro, nella nota iniziale generale e in quella finale, rifletto su cosa è successo nella mia vita e nel mondo, e come la mia storia personale si connetta ai temi più vasti della storia queer “pubblica”.
Così, per esempio, ricordo i miei primi progetti di ricerca degli anni ’80, quando la mia attenzione andava alle lotte economiche degli studenti della mia università, che hanno influito sul mio impegno di attivista accademico. Penso anche alle mie esperienze come giornalista e attivista gay — ero redattore e coordinatore del Gay Community News di Boston, nella seconda metà degli anni ’80 mi occupavo di AIDS, e all’inizio degli anni ’90, a Philadelphia, facevo parte di Queer Action e ACT UP — e parlo di come hanno influenzato il mio impegno nei queer studies.
Uso anche il concetto, coniato da Pierre Bourdieu, dell’“homo academicus” per riflettere sulle bizzarre pratiche culturali, sociali e politiche che osserviamo nel mondo universitario. La mia speranza è che i lettori capiscano quanto è cambiato negli ultimi trent’anni e quanto non lo è.
Quanto la prospettiva di attivista e i tuoi ricordi hanno influenzato il tuo stile narrativo?
So che alcuni sono convinti che gli studiosi non dovrebbero essere degli attivisti, che facendolo metterebbero a rischio la propria obiettività. Credo che, nel campo dei queer studies, questa sia una posizione indifendibile. C’è voluto l’attivismo degli accademici per fare posto ad un tale tipo di studi negli ambienti universitari.
Indubitabilmente ho concepito il mio lavoro nell’università come quello di un attivista, pensando alle tattiche, alle strategie, alle agende, agli obiettivi, alle alleanze e alle coalizioni, ma ho fatto tutto come studioso. Così, per esempio, uno dei saggi di Queer Public History è basato su un sondaggio che ho fatto sugli storici LGBT e le sfide che hanno affrontato nel trovare lavoro nell’ambito accademico negli Stati Uniti e in Canada.
Il saggio è accompagnato ad un racconto autobiografico dei cinque anni che mi ci sono voluti per trovare un lavoro accademico sicuro (in Canada, non negli USA). E subito dopo ce n’è uno in cui parlo della mia esperienza in un concorso per una prestigiosa borsa di studio della National Endowment for the Humanities (NEH) statunitense: ero stato raccomandato anonimamente con il più alto punteggio possibile, ma fui cassato dal direttore del NEH, di nomina presidenziale. Dirlo pubblicamente vent’anni fa non ha portato il NEH a concedermi la borsa di studio, ma si spera che abbia aiutato i candidati successivi.
Tra gli altri, mi intriga particolarmente il capitolo relativo all’immigrazione queer. Come si integra una minoranza nella minoranza?
Il mio secondo libro, Sexual Injustice, parla di una sentenza della Corte Suprema USA del 1967, Boutilier contro il Servizio Immigrazione e Naturalizzazione, che ha appoggiato la politica statunitense di rifiutare gli immigrati “omosessuali” grazie ad una legge che li etichettava come “personalità psicopatiche”, negando loro la possibilità di entrare nel Paese.
In molti capitoli di Queer Public History condivido alcuni dei miei lavori su quel caso e sui relativi aspetti dell’immigrazione queer. Spesso, nelle leggi che regolamentano l’immigrazione, le persone LGBT sono oggetto di pregiudizi e discriminazioni, a volte direttamente, altre volte escluse sulla base di disabilità fisiche e mentali, e talvolta perché non hanno potuto godere dei privilegi offerti a “familiari” e a partner regolarmente sposati, ma generalmente il movimento LGBT americano non considera le leggi sull’immigrazione come una priorità, e lo stesso fanno gli attivisti dell’immigrazione con le persone LGBT.
Il tuo libro sarà tradotto in italiano?
Spero di sì! Conosci un buon traduttore? Ho visitato l’Italia due volte, una volta per tre settimane con la mia ragazza (!!!) quando avevo circa vent’anni (visitando Venezia, Firenze e Roma), e più recentemente con mio marito e due amici (a Firenze e Siena). Ho fatto domanda due volte per una borsa di studio e mi piacerebbe visitarla ancora, approfondirne i queer studies, e trovare un buon traduttore!
C’è qualche lettore che vuole raccogliere la sfida? Se sì, scriva pure alla redazione, e provvederemo a metterlo in contatto con il professor Stein, che ringraziamo per aver scelto ancora una volta le pagine di Gionata. Potrebbe essere l’inizio di una proficua collaborazione. Fatevi sotto!