Gay e cristiano. I miei sessant’anni di solitudine
Email inviataci da Paolo
Ho riflettuto molto, assieme ad una mia amica che mi invitava a scrivere su questo sito, se fosse giusto e, soprattutto, utile estendere ad altri alcune confidenze che avevo reso a lei.
Se è vero che la solitudine non si declina solo nell’assenza di rapporti, ma anche nell’incapacità di essere sé stessi davanti agli altri, fino ad avere con loro una comunicazione piena e liberante, devo riconoscere che la cifra della mia esistenza può riassumersi nella formula con la quale ho parafrasato il titolo del noto libro di Marquez.
Mi sono chiesto, allora, se non fosse controproducente raccontare agli altri una storia di nascondimento e di paura. Soprattutto adesso che una coscienza più matura, cresciuta anche grazie alla lettura degli articoli ed alla partecipazione alle iniziative di questa rete, mi ha reso assolutamente evidente che vivere la propria identità senza infingimenti sarebbe stato per me il primo vero atto di amore nonché la sola testimonianza possibile verso il Signore e verso la Sua Chiesa.
Una testimonianza che avrebbe forse potuto giovare anche ai fratelli e sorelle che vivono con difficoltà la mia stessa condizione, tanto che il non averla professata, soprattutto adesso che sono ormai avanti con l’età, mi pesa come un dovere mancato. Il che non significa, certo, permettersi di dare indicazioni o, men che meno, giudizi su ciò che gli altri debbano o possano fare, dovendo ciascuno fare i conti con sé stesso, i propri limiti, la situazione contingente che lo circonda.
Più modestamente mi piacerebbe che la mia riflessione di oggi raggiungesse i fratelli e le sorelle che mi leggono, soprattutto i più giovani, con la forza dell’invito che il protagonista del film di Özpetek “La finestra di fronte” rivolgeva alla sua giovane amica: “Non accontentarti di sopravvivere. Tu devi pretendere di vivere in un mondo migliore, non soltanto sognarlo!”.
Grazie al cielo, spiragli di sereno e avvisaglie di questo mondo futuro oggi ci sono, rispetto a quanto potessi immaginare nella mia lontana giovinezza: uomini e donne che non temono più di parlare chiaramente; madri e padri che non esitano ad anteporre l’amore per i figli al pregiudizio e alla paura; timide ma significative iniziative di qualche Pastore di buona volontà (tra i quali va certo considerato Papa Francesco). Chi sappia scrutarli con la sapienza del cuore non può che annoverarli nella categoria teologica dei segni dei tempi.
Se questa prospettiva ha un senso, possono acquistare valore, mi sono detto, anche le parole di chi, come me, di tanto in tanto, viene morso dalla consapevolezza (o dal rimpianto, che è anche peggio) di non avercela fatta.
Ma è forse tempo di entrare nel mio vissuto.
Mi chiamo Paolo e sono un uomo di 60 anni che abita e lavora in una cittadina di provincia. Dietro la “maschera”, la vita grigia e incolore di chi ha vissuto la propria diversità come il segno di una solitudine e di una condanna priva di riscatto.
L’educazione chiusa e intollerante di una famiglia “vecchio stampo”; il contatto con un ambiente provinciale; una religione pronta più a condannare che ad accogliere, hanno costituito l’humus nel quale sono cresciuto e che mi ha fatto percepire il disprezzo della condizione di omosessuale, prima ancora della consapevolezza, pure molto precoce, di doverla scontare in prima persona.
Ho capito assai presto quanto sia doloroso dover stringere una mano, sapendo di non poterla trattenere, anche se tardi ho cercato di parlarne con qualcuno.
La prima volta che mi sono confidato con un amico è stato a 32 anni, pur essendo consapevole della mia condizione fin dall’infanzia. Quello che ha preceduto quella confessione è forse inutile che lo dica, facendo parte dell’apprendistato che è ormai patrimonio doloroso di tanti di noi e che solo le madri e i padri che accolgono la confessione dei figli come una nuova nascita, riescono in pieno a percepire. Per questo, forse, la loro solidarietà mi commuove ogni volta.
Il timore di essere travolto da tensioni che sentivo come incontrollabili e la disistima verso di me mi hanno indotto, poco alla volta, a sterilizzare i miei sentimenti, anestetizzando forse le sensazioni più vere. È stato un percorso lungo e perverso che mi ha reso – quasi al termine del tragitto esistenziale – assolutamente incapace di amare. Questa, almeno, è la mia sensazione di oggi. “Sforzarsi di non provare niente, per non provare qualcosa”: ancora la citazione di un film (in questo caso di Guadagnino) che riporta una sintetica e disperata constatazione affidata da un anziano padre al giovane figlio.
Come dicevo, in apertura: non so bene nemmeno io il perché di questa confessione e se a qualcuno possa essere utile.
Certo è che facendo il bilancio di una vita il cui saldo non può dirsi in attivo, e leggendo, al contempo, testimonianze di libertà e di coraggio quali compaiono in questo sito, vien fatto di voler dare comunque un contributo, anche se, devo riconoscerlo, per difetto.
Forse la testimonianza che rendo, molto omettendo e troppo celando, potrebbe servire – mi sono detto – per far capire che l’ideale alto e nobile di un amore totalmente oblativo, e fecondo solo nello spirito è, sì, un traguardo che la Chiesa ha il diritto di proporre. Ma mortificare in nome di quell’ideale, spesso irraggiungibile alla nostra povera umanità per mille fatti contingenti, il bene concretamente e soggettivamente perseguibile (un amore, un affetto) ricacciandoci nel nostro deserto, rischia di avere effetti disumanizzanti.
E tutto, per una condizione non scelta. Come diceva uno scrittore: il peccato originale, la colpa senza responsabilità, il male irredento e innocente di essere venuti al mondo condannati a morte; magari fosse una vecchia intimidazione di secoli bui. È il buio che ci portiamo dentro tutti.
Per questo le aperture confidenti che tanti di noi affidano ad un sito, senz’altro ben diverso dall’incontro di due sguardi, ma spesso, anche per questo, capace di facilitare l’apertura del cuore e della mente; le dolenti ma tenaci profferte di tenerezza che i genitori non smettono di rivolgere ai propri figli; tutto questo e molto altro ancora costituisce, per me, una boccata d’aria pura e uno squarcio di cielo azzurro che mi fanno guardare al futuro con rinnovata speranza.