Il dono delle lacrime. Sentirsi chiamati col proprio nome per sentirsi compresi
Riflessioni inviateci da Paolo
Il Talmud, nel quale confluisce la tradizione giudaica, ammoniva: “Maledetti coloro le cui figlie sono femmine”, considerando la nascita di una bimba un castigo divino; e dunque: “meglio non fosse nata”.
Più di recente – ne ho memoria durante la mia giovinezza – alcuni genitori erano soliti ripetere: “meglio un figlio morto che omosessuale”. Forse, messi alla prova dei fatti, si sarebbero ricreduti, ma chi percepiva quelle parole, dure come macigni, non poteva che assumerle come vere. Quanto ai trans, credo che non rientrassero nemmeno nell’orizzonte di vita di quegli stessi genitori.
Entrambi dunque, le donne e i diversi, quando sono fatti oggetto di oppressione, rientrano a buon diritto nella categoria dei poveri evangelici; coloro che, secondo la promessa del Magnificat, vera e propria carta costituzionale delle beatitudini promesse dal Signore, saranno innalzati. Del resto, se l’etimologia latina di umili riconduce ad humus, la terra, ovvero quanto di più anonimo e basso e incolore possa esistere, il termine ebraico per indicare il povero è ancora più sconcertante.
Il povero in ebraico è chiamato “afar”, con lo stesso termine utilizzato nella Genesi per indicare la polvere che riceve da Dio l’impronta della creazione. Il povero, l’oppresso è dunque “afar”, perché qualunque stato di oppressione, ogni situazione di umiliazione priva l’uomo anche della sua dignità creazionale, offendendo Dio nell’atto originario della creazione.
E’ appunto una donna, un’oppressa, Maria di Magdala, la protagonista della prima parte del capitolo 20 del Vangelo di Giovanni. Ed è singolare come la liturgia pasquale amputi, quasi per una rimozione tralatizia, una consistente porzione di quel capitolo, per concentrarlo sulle reazioni dei due discepoli, anziché sulla vicenda di quella che la teologia occidentale qualifica come “apostola degli apostoli”.
Ed in effetti, Pietro e il discepolo che Gesù amava, venuti al sepolcro, se ne tornano a casa sconcertati. Solo Maria rimane da sola sulla tomba, in lacrime.
Si era alzata quando era ancora buio: di certo quella notte non aveva dormito, portando marchiate a fuoco nella mente e nel cuore le immagini dello strazio cui, sempre lei, aveva assistito assieme alla madre di Gesù; quelle immagini che dopo duemila anni, ancora oggi, senza interruzione, si ripropongono ogni giorno nell’urlo nero e negli occhi sbarrati delle madri impotenti davanti alla barbarie dell’uomo.
Si era diretta al sepolcro, complice il chiarore della luna. Chissà se tornando a casa, dopo aver incontrato il Risorto, aveva riflettuto che la morte e la resurrezione erano avvenute nell’intreccio armonico di segni cosmici (il plenilunio, la primavera, il primo giorno della settimana) quasi ad annodare l’infinto e il finito?
Di fatto, è stata lei, una donna, ad uscire di casa dirigendosi verso il sepolcro, senza nemmeno un perché.
Le donne dei sinottici un motivo ce l’avevano: ricomporre il corpo del Maestro e cospargerlo di oli profumati. Maria invece, nella narrazione di Giovanni, si muove da sola, senza portare nulla con sé, se non la propria disperazione e quelle lacrime che le vengono accordate come un privilegio.
Tanti sono infatti i privilegi concessi a questa donna, povera perché donna e oltre tutto peccatrice, o comunque impura e ammalata se vogliamo limitarci ad identificarla con colei che fu liberata da sette demoni.
Il privilegio di aver, prima degli altri, visto il Signore e ascoltato la Sua voce, ricevendo la consegna – lei giuridicamente incapace di rendere testimonianza – di farsi testimone presso gli altri discepoli. Quei discepoli che si erano allontanati, lasciandola da sola a piangere accanto al sepolcro.
Soprattutto il dono delle lacrime. In pochi versetti del brano evangelico il termine che allude al pianto viene ripreso per ben quattro volte. Ed anche in questo le donne hanno tanto da insegnare a noi uomini, ingessati in un malinteso senso di decoro e dignità che non ci consente di abbandonarci alle sensazioni più vere.
I discepoli non piangono; Maria sì.
Ma le lacrime, secondo la tradizione mistica, dicono che Dio si è incarnato nelle nostre vite, nei nostri fallimenti, nei nostri incontri, sciogliendo il cuore di pietra e vincendo l’aridità che ci rende rigidi, sterili e incapaci di compassione, prima di tutto verso noi stessi.
Una psicoterapeuta sosteneva che il momento in cui un paziente depresso arriva a piangere, significa che sta prendendo le distanze dalla tentazione del suicidio, perché le lacrime narrano la nostra sete di vita e non la pulsione di morte.
Non a caso, per quanto mi riguarda (ma a tanti so essere accaduto lo stesso), lo svelamento del mio orientamento, la confidenza fatta ad un amico, si sono sempre associati al pianto.
Ed ogni volta, ad ogni confessione, è stato così.
Un pianto carico di dolore ma allo stesso tempo di liberazione. Un pianto che rende di per sé ragione del motivo – che pure tanti non si stancano di domandare – per cui non solo è necessario, ma addirittura indispensabile condividere con gli altri il nostro orientamento. Non si tratta di un vezzo o di un’esibizione impudica che, chissà perché, riguarda solo gli omosessuali mentre gli etero ne sarebbero immuni.
E’ la ritrovata capacità di accettare il lutto, la perdita, la sconfitta di anni di nascondimento e di oppressione, liberando – nel contatto con gli altri e davanti al loro sguardo – tutta quell’energia repressa che solo dicendoci ci fa crescere e maturare.
Uscire dalla logica del segreto, non eludere più le domande di chi ci interpella sul nostro futuro e sui nostri affetti, esprimere finanche un apprezzamento, banale, forse futile ma liberatorio, è quanto ci rende liberi. Liberi e perciò vivi.
Tutto questo ha a che fare col pianto di colui che può affermare, per la prima volta, sentendo il proprio nome pronunciato da chi gli sta di fronte e lo ascolta: finalmente esisto.
L’uomo che sta accanto a Maria, anzi dietro di lei, le chiede ragione del proprio pianto e, solo a quel punto, la chiama per nome: “Maria!”
Già: per nome!
Nell’ebraismo, chiamare qualcuno per nome significa conoscere la realtà del suo essere più profondo, la sua vocazione, i suoi desideri, il suo destino. Per questo il nome di Dio è impronunciabile; ma ancora per questo, sentirsi chiamato da un uomo, da Quell’Uomo, significa sentirsi compresi nel profondo.
Ciò che gli uomini chiamano Dio, la parola Dio, come dice una scrittrice, declinata in tutti e tempi e tutte le culture, non è più una potenza cosmica ignara di noi, ma un uomo che chiede ad una donna, ad un “oppresso”: “perché piangi” e ne pronuncia il nome, regalandole l’annuncio di una nuova vita inattesa.
In fondo, mi piace pensare che l’amore che tutto il Vangelo professa si nasconda nel volto di qualcuno che ci sceglie, che ci chiede il motivo del nostro pianto, che asciuga le lacrime del nostro dolore.
Che, soprattutto, dopo aver scandagliato il nostro intimo, pronuncia il nostro nome perché ci conosce e, conoscendoci, ci accetta per quello che siamo.
Solo così quel nome può resistere e rinascere ad ogni tipo di morte.
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