Sinodalità. Quale spazio per una pastorale LGBT?
Articolo di Dea Santonico pubblicato sulla rivista quindicinale Il Regno, anno LXVII, n. n. 10 (1368) del 15 maggio 2022, pp.328-329
Con qualche approfondimento sul tema ho imparato che omosessuali e trans non si diventa, non si sceglie di esserlo. Perché mai una persona dovrebbe fare una scelta tanto complicata, che nella nostra società e nella nostra Chiesa comporta così tanta sofferenza, stigmi, emarginazione, derisioni? No, omosessuali e trans non si sceglie di esserlo, lo si è, salvo che ci possono volere anni per dirselo, e qualche volta può non bastare tutta la vita per farlo.
Ma se le persone LGBT sono spesso consapevoli fin dall’infanzia della loro condizione, per i genitori il coming out dei figli arriva il più delle volte come un evento completamente inaspettato. Io sono tra questi genitori. Ho scoperto di essere mamma di un ragazzo gay sei anni fa. Lo ero anche prima, ma non lo sapevo.
Per 27 anni (questa l’età in cui mio figlio Emanuele ha fatto coming out) ero vissuta pensando di essere mamma di due ragazzi eterosessuali. Stessa cosa è successa a mio marito ed anche Marco, il figlio maggiore, che ha condiviso con il fratello i giochi, le vacanze e la stanza, non aveva capito. Le persone LGBT sono brave a nascondersi. Non è gratis, ma lo fanno: troppo grande la vergogna che provano e che li schiaccia.
Perché inizio da questo per parlare di pastorale LGBT? Perché se pensiamo solo ad una pastorale per persone LGBT e per i loro genitori rischiamo di non arrivare a coloro che stanno messi peggio: alle persone LGBT che si nascondono, ai genitori che nell’angoscia si tengono dentro il loro segreto o a quelli che pensano erroneamente che il “problema” non li riguardi e che sono poi esposti allo tsunami del coming out di un figlio o una figlia, senza preparazione e strumenti per affrontarlo, rischiando di fare danni ai loro figli, oltre che a se stessi.
Dunque, per arrivare a queste persone, non basta una pastorale specifica con le persone LGBT e i loro genitori, servono altri canali, serve parlare del tema LGBT in diversi ambiti e attraverso la pastorale ordinaria.
Un esempio. Nella pastorale dei fidanzati non sarebbe opportuno spiegare che può succedere nella vita di avere figli LGBT? E prepararli a questa possibilità? E quale potrebbe essere il modo migliore per farlo se non invitando coppie di genitori che quell’esperienza la vivono a fare una loro testimonianza?
Quei genitori potrebbero raccontare le difficoltà che hanno vissuto, la sofferenza, le lacrime che hanno versato, ma anche sorprendere le giovani coppie di futuri sposi, raccontando che, camminando insieme con altri genitori, sostenendosi a vicenda, studiando la Bibbia, il loro sguardo sui loro figli è cambiato, che sono riusciti a vedere la bellezza che si portano dentro, e che si sono convinti che quello sguardo somigli allo sguardo che Dio ha su di loro.
Potrebbero testimoniare che la vita di coppia non funziona come in quei film in cui c’è il bacio finale con la scritta: “The end”, e non si sa cosa succede dopo. Raccontare che attraverso le difficoltà, tenendosi per mano, si può crescere come coppia e come genitori ed imparare una cosa importantissima per i tutti i figli, non solo per quelli LGBT: a mettere da parte le proprie aspettative di genitori sui figli, lasciandoli liberi di crescere ed esprimersi per quello che sono.
E potrebbero raccontare dell’incontro di un gruppo di genitori di figli e figlie LGBT con papa Francesco, il 16 settembre del 2020, e di quel fascicolo che gli hanno regalato, che raccoglie alcune loro testimonianze. Significativo il titolo: “Genitori fortunati” (ndr recentemente edito da editrice Effatà, 2022).
Le parrocchie stanno accogliendo
Sì, così alcuni di loro si considerano, dopo aver pensato, in alcuni casi per anni, che gli fosse toccata una disgrazia. E ancora potrebbero spiegare che nel dolore hanno vissuto una rinascita, insieme ai loro figli, un cambiamento di vita che li ha portati verso un nuovo cammino di fede, liberato da formule e schemi, che davano, sì, sicurezze, ma che in qualche modo li ingabbiavano, un cammino da cristiani adulti alla sequela di Gesù, che si assumono la responsabilità e il rischio di un pensiero critico.
Pochi giorni fa io e Stefano, mio marito, siamo stati invitati in una parrocchia di Roma, all’interno del cammino sinodale proposto da papa Francesco, per fare una testimonianza come genitori di un ragazzo gay. Una sala riunioni piena, presenti giovani e meno giovani. Abbiamo raccontato la nostra storia, la voce a tratti un po’ rotta, perché non è facile parlare di momenti della tua vita, in cui si intrecciano amore e sofferenza.
Un’accoglienza calda quella che abbiamo ricevuto e che ci ha fatto sentire a casa. Non escluderei che tra i tanti presenti ci fossero persone LGBT, o coppie di genitori con figli LGBT, che abbiano deciso di partecipare proprio perché potevano farlo senza scoprirsi, in incognito. L’ho pensato, ed ho sperato che le nostre parole potessero giungere a loro come una piccola carezza, capace di lenire il dolore e farli sentire meno soli.
Ci siamo portati a casa una grande solidarietà espressa da tutti/e e la speranza che la nostra testimonianza abbia potuto contagiare i loro pensieri e il loro sguardo. Per questo pensiamo che la fatica di uscire allo scoperto valga la pena farla: perché siamo convinti che sia questa la strada per creare un terreno buono intorno ad Emanuele e a tutte le persone LGBT.
Serve dunque una pastorale sul tema LGBT per tutti i credenti, non solo una pastorale specifica con le persone LGBT e i loro genitori, pastorale questa comunque importante e su cui va preso atto che negli ultimi anni, anche grazie a papa Francesco, si sono fatti passi avanti.
Ci sono molti gruppi di persone LGBT e di genitori in molte regioni italiane, dal Piemonte e la Lombardia alla Calabria e alla Sicilia, dal Veneto alla Puglia. Anche alcune diocesi, in più di venti città italiane, si stanno aprendo a queste realtà. Va detto che in grande maggioranza questi gruppi si sono autoconvocati, con una differenza però rispetto al passato: in questi ultimi anni i gruppi di persone LGBT e dei loro genitori sono finalmente visibili e trovano accoglienza anche nelle parrocchie.
L’esistenza di gruppi LGBT nati spontaneamente non è una novità, ma in passato vivevano nella clandestinità, nelle catacombe come i primi cristiani, non avevano diritto di asilo nella Chiesa, perché non contaminassero i fedeli “sani”: un fiume carsico che ha seguitato a scavare il terreno e che ha creato nel tempo le condizioni per ciò che vediamo oggi.
Non è dunque opera di una bacchetta magica l’attuale maggiore apertura e accoglienza. Da anni c’è un grandissimo fermento dal basso, destinato ad incidere e cambiare le cose, forse ben al di là di quanto ne siano consapevoli molti nella gerarchia e gli stessi cristiani che da protagonisti vivono questa esperienza.
Un marchio da cancellare
Di fondamentale importanza è la formazione su questi temi, a cominciare da quella per operatori e operatrici pastorali, troppo spesso completamente impreparati ad affrontarli. Dal 2015 si stanno facendo strada, anche a livello nazionale, esperienze di formazione, con il coinvolgimento di parroci, suore, preti, operatori pastorali e alcuni vescovi. Importante guardare a queste esperienze, valorizzarle e farle crescere con il coinvolgimento di un sempre maggior numero di persone, per arrivare a tutti i credenti, e per poter così superare l’ignoranza su questi temi che c’è oggi nella Chiesa a tutti i livelli.
Perché l’ignoranza alimenta pregiudizi e stereotipi che feriscono, uccidono le persone LGBT, e, quel che è peggio, nel nome di Dio. Scrive Padre Pino Piva su Jesus: “La Chiesa si sta accorgendo che i vissuti delle nostre sorelle e fratelli LGBT non sono un problema, ma una ‘opportunità’ pastorale per il bene della Chiesa”. C’è in queste parole un rovesciamento di prospettiva: aprirsi ai vissuti delle persone LGBT significa per la Chiesa tutta un grande arricchimento.
Se la pastorale è importante, va detto anche che è solo un punto di partenza per arrivare al cambiamento della dottrina. Le parole del catechismo: “Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati”, non tengono conto di ciò che la scienza ci dice oggi sull’omosessualità, della definizione che ne da l’OMS: “Una variante naturale del comportamento umano”.
Niente di disordinato dunque. Quelle parole fanno violenza sulle persone LGBT, le fanno sentire sbagliate, gli impediscono di vivere con gioia la propria sessualità, come dono di Dio. Il marchio di sporco, di peccato impresso su di loro e sui loro rapporti d’amore, di cui come Chiesa siamo responsabili, va cancellato, per sdoganare l’omosessualità e la transessualità nella società e nella Chiesa e perché lo sguardo sulle persone LGBT possa cambiare.
Io non voglio dalla mia Chiesa tolleranza per Emanuele, né un’accettazioni che gli chieda di mutilarsi della sua sessualità. Voglio di più, per lui e per tutte le persone LGBT. Voglio contagiare negli altri/e la bellezza che vedo io.
Sapendo che per i papà di figli gay è più difficile e che quel marchio di sporco li blocca, qualche tempo fa, pensando di aiutare Stefano, gli ho detto: “Sei mai entrato, con la tua mente, nella stanza da letto di Marco? Perché allora dovremmo entrare in quella di Emanuele?” Questo gli ho detto… ma poi ho fatto altro. E la mia mente ci ha fatto capolino in quella stanza. Mi è familiare, i mobili sono riciclati, sono quelli di quando ci siamo sposati noi. Hanno visto il nostro amore dei primi anni insieme.
Lì sono stati concepiti Marco ed Emanuele. Lì abbiamo giocato con loro, quando salivano sul lettone. Ora quella stanza fa esperienza di un altro amore, quello di Emanuele e del suo compagno. Con la mia mente ci sono entrata in quella stanza e quello che ho visto era bello.
È la bellezza che c’è nell’amore, in ogni storia d’amore, attraverso cui una scintilla di divino trova spazio per esprimersi, bucando i muri dei pregiudizi e prendendosi la libertà di non chiedere permesso a nessuna Istituzione. Io quella scintilla divina l’ho vista. Ne sono testimone.