Peccherai ma nel segreto! L’ipocrisia religiosa nell’Italia di oggi
Articolo di Luigi Manconi tratto da “Il foglio” del 3 ottobre 2007
Somma ipocrisia di un certo cattolicesimo osservante non è nella “doppiezza” di vita, bensì nell’assenza di vera compassione verso gli altri, ovvero della capacità di partecipare della debolezza e dell’errore altrui. Perciò si finisce per essere sempre più giudici degli altri nel nome di un Dio, spesso inumano e elargitore di regole assolute. Per quelli che non sono in linea, divorziati, poveri, omosessuali, etc… peggio per loro, tanto "noi l'abbiamo sfangata. Grazie a Dio".
Quando, nel 2003, il senatore a vita Emilio Colombo, allora ottantatreenne, venne coinvolto in una indagine giudiziaria in quanto ritenuto percettore e consumatore per uso personale di sostanze stupefacenti, sperai che l’occasione venisse colta (ne scrissi diffusamente su queste colonne).
Pur nella disgrazia, si trattava di una opportunità straordinaria, offerta al dibattito pubblico e al senso comune, per affrontare alcuni fondamentali dilemmi etico-giuridici. Così non fu. La vicenda si risolse in lazzi e cachinni, piccine vendette politiche e ammiccamenti lubrichi (pare c’entrassero anche alcuni giovanotti).
Sono rassegnato a credere che anche le occasioni proposte dall’estate del 2007 (“caso Mele” e “caso don Gelmini”) non verranno messe a frutto: e si preferirà, piuttosto, buttarla in politica. Il che, in questo caso, corrisponde puntualmente a buttarla in caciara. Eppure, quanto sarebbe stata utile una discussione pubblica sulla coppia di concetti peccato/ reato e su quella vizi privati/pubbliche virtù.
Il fatto che la Casa delle libertà, i suoi intellettuali e i suoi “teologi” non abbiano saputo in alcun modo affrontare questa dolorosa e, tuttavia, produttiva discussione, la dice lunga su quello che è il senso del peccato nella destra italiana. Proprio così: concezione e interpretazione del peccato nella destra italiana è quanto costituisce la posta in gioco sottesa a quelle vicende cochon.
La prima sensazione che si ricava dagli episodi citati è quella di una progressione puntuale e di una scansione rigida degli atteggiamenti del cattolico osservante davanti allo Scandalo che lo coinvolge.
In prima istanza, la negazione del fatto e l’imperiosa e altera auto-presunzione di innocenza, che si fonda sul più fragile e fallibile degli assunti: “Uno come me (uno come lui) non può averlo fatto”.
La seconda mossa è il ridimensionamento dell’atto commesso attraverso la procedura della sua generalizzazione (“così fan tutti”) e la ricerca delle attenuanti (circostanze, con-cause, condizioni ambientali e psicologiche…).
Un’ulteriore mossa è rappresentata – in un precipitoso smantellamento delle difese – dalla comparazione tra il male (forse) commesso (“una volta”) e il bene realizzato (“nel corso di un’intera vita”).
Voglio essere chiaro. Il presupposto del ragionamento da me svolto è che la presunzione di innocenza – per un “garantista peloso” come me – è dogma; che siamo tutti peccatori (e chi scrive, poi…); è, infine, che considero i peccati qui trattati non solo come propri della natura umana – il che è fin troppo ovvio – ma anche come le più ricorrenti “situazioni di crisi”. Ma al di là delle strategie pubbliche e pubblicitarie di difesa/autodifesa, colpiscono particolarmente alcune reazioni.
Come quelle di Pier Ferdinando Casini, persona tutt’altro che banale e ottusa, ma che più banalmente e più ottusamente di chiunque altro si è comportato nell’occasione. Il test anti droga realizzato davanti alla Camera dei deputati quale esorcismo-aspersione si è risolto in un rito mondano, risibile sotto il profilo scientifico e oscillante tra il grottesco e l’imbarazzante.
Nelle intenzioni, un “messaggio pedagogico” (ma decchè?) che ha assunto, fatalmente, la forma di un cerimoniale ludico o di una sgangherata parodia del “giudizio di Dio” di prete Liprando, cantato da Enzo Jannacci e Dario Fo. Il che ha inevitabilmente azzittito e azzerato, nella farsa inconsapevole, qualunque possibilità di riflessione seria.
Che invece resta tutta da fare è che, seppure riguarda in special modo i “cattolici in politica”, non interpella esclusivamente loro. Ma, certo, la specificità confessionale merita attenzione: quel parlamentare dell’Udc, espulso per immoralità, è stato considerato degno di militare in un partito “cattolico” nonostante fosse indagato per i reati di concussione e corruzione ma non è più considerato degno nel momento in cui commette peccato.
Ne consegue che corruzione e concussione non vengono considerati peccati e, tanto meno, atti incompatibili con la militanza nell’Udc. E’ la conferma della irreparabile distanza tra le due morali e dell’irresponsabile sottovalutazione di quella pubblica: ma è anche un’ulteriore prova della riduzione della morale privata a casistica sessuomaniacale, dove la violazione più grave attiene sempre alla sfera genitale (o, se preferite, alle “parti basse”).
E’ uno straordinario (e apparente) paradosso, che inquieta e indigna i “cristiani di sinistra” e quelli non praticanti. Ovvero la contraddizione, stridente fino al mal di denti, tra – da un lato – dichiarazioni pubbliche, valori proclamati, morale cattolica celebrata e omaggiata e – dall’altro – comportamenti privati.
Qui l’alcova monogamica ed eterosessuale si afferma come Tabù Sacro. Qui il paradosso ha una sua spiegazione, fin teologica, e comunque assai saldamente piantata nella storia ecclesiale.
Se ne fece limpidamente interprete, anni fa, l’allora presidente della Conferenza episcopale italiana, Camillo Ruini, quando affermò: “Alla chiesa interessa che i politici cattolici sostengano politiche pubbliche di ispirazione cattolica; con i loro peccati privati se la vedano in confessionale”.
E’ l’apologia dell’ipocrisia? Anche, ma non esclusivamente e nemmeno principalmente: è, piuttosto, l’espressione di un’idea compiuta, sotto il profilo dottrinario, pastorale e – ripeto – teologico, della finalità della politica, come è stata elaborata nell’ultimo secolo e mezzo dalla chiesa cattolica.
Chi esprime puntualmente tale idea, nella sua azione pubblica quotidiana, è il movimento di comunione e liberazione, che su ciò fonda sia la sua notevole sagacia istituzionale che il suo accorto percorso sociale.
In sostanza, secondo quella interpretazione, il cattolico in politica è un peccatore: in quanto tale, la sua condotta personale ricade interamente sotto la specie e la sequenza dell’errore – confessione – pentimento.
L’errore (il peccato: adulterio, divorzio, coca e mignotta…) è, dunque, oltre che possibile, messo nel conto e accettato. E’ la conferma dell’esistenza del peccato originale e della disponibilità delcattolico a credere alla sua presenza nel mondo.
Il peccato, per dirla sbrigativamente, è la prova provata della fede e della fiducia nei sacramenti (in questa circostanza, nella confessione). In ogni caso, la condotta privata è prevista come incerta, zoppicante, caduca: ciò che davvero conta, ciò che dà stabilità e garantisce identità è la “qualità cattolica” della politica che si fa.
Per questo, l’argomento che appare più robusto agli occhi del non cattolico (l’ipocrisia cattolica, appunto) è totalmente inefficace agli occhi del cattolico: ciò che importa davvero è la politica e la sua ispirazione.
Sotto questo profilo, il fatto che il Family day sia stato celebrato da leader politici, tutti – senza eccezione – separati, divorziati, adulteri, titolari di due o più famiglie, oltre a non turbare la Chiesa cattolica, sembra non turbare la gran parte dei fedeli.
L’intollerabile violazione della morale cattolica è costituita dai Dico, non certo dal fatto che numerosi esponenti politici cattolici si dedichino alacremente alla più intensa fornicazione extraconiugale.
Ma qui siamo ancora alle premesse. La vera sostanza è un’ altra: ed è rappresentata proprio da quel ridurre le conseguenze del peccato al rito della confessione religiosa e domistica. Senza alcuna problematizzazione e senza alcuna elaborazione: al perdono del confessionale si aggiunge quello delle persone tradite (“mia moglie ha capito”, “i miei ragazzi conoscono il bene che ho fatto loro”).
Così il peccato viene cancellato e non ne resta traccia; non rimane alcunché sul quale riflettere e sul quale ri-costruire e costruire. Il peccato è stato appena una caduta: qualcosa di simile a unincespicare, a una incertezza nel cammino, a un passo falso.
Qualcosa che non sembra avere relazione alcuna con la storia privata del peccatore e con quella collettiva della società.
Al peccatore si possono concedere tutte le attenuanti (il segretario del partito di Mele: “Bisogna comprendere la solitudine del parlamentare a Roma”): l’importante è classificare il suo come un errore che non attiene a un comportamento collettivo e, tanto meno, a una patologia sociale: bensì esclusivamente a una debolezza individuale e temporanea.
Così, il consumo di sostanze stupefacenti e l’omosessualità (che pure, sappiamo, nulla ha a che vedere con la pedofilia, se non nelle fantasie “sporche” dei moralisti) scompaiono nella tematizzazione pubblica di quegli episodi di cronaca giudiziaria (il “caso Mele”, il “caso don Gelmini” e, ancor prima, il “caso Colombo”).
Scompaiono, quelle questioni, perché sopraffatte dai casi personali di un parlamentare (dell’Udc!) e di un prete (don Gelmini!), presi in castagna e colti in posizioni non belle a vedersi.
Il fatto che il consumo di sostanze stupefacenti sia una grande questione sociale, meritevole di essere affrontata con politiche intelligenti e razionali, ma anche coraggiose, e non con anatemi, sembra sfuggire completamente.
Sfugge in particolare a quanti, come i massimi dirigenti del partito di Mele (UDC), trattano la droga come, appunto, “sterco del diavolo” (il denaro sembra non esserlo più): dunque, da combattere, sconfiggere, bandire.
Tutti termini, cioè, che rimandano a un linguaggio bellicoreligioso più che a quello proprio delle strategie sociali, culturali, terapeutiche e farmacologiche, richieste dal consumo di stupefacenti. La droga come il Male, non come una sostanza che può essere sottoposta a controlli e manipolazioni, che può essere somministrata o assunta, che può essere abbandonata o ripresa, che può fare poco o molto danno, che può alterare o uccidere. Che va trattata, pertanto, con adeguate misure scientifiche, normative, politico-sociali. Come ogni altra sostanza, naturale o artificiale, presente nel nostro mondo.
Di tutto ciò, nulla si vuole sapere: si preferisce l’esorcismo del proclama morale, del rito pubblico pubblicitario del test, della “guerra alla droga”. Discorso non troppo diverso riguarda la questione dell’omosessualità: anch’essa presentata come una “caduta” o un “vizio” indicibile e non come una tendenza della natura e della personalità.
Anche per l’omosessualità, pertanto, la strategia dei politici cattolici è quella di relegarla nell’ambito della sfera privata, dove è più facile esercitare comprensione e indulgenza. La pastorale cattolica, infatti, “accetta” l’omosessualità purché non si esprima attivamente: ovvero come relazione e come rapporto sessuale.
Ancora una volta, ciò che appare al non cattolico una enormità (ti accolgo per quel che sei a patto che non esprima quel che sei) risulta addirittura ovvio per il cattolico osservante. Dunque, anche l’omosessualità perde ogni connotazione sociale, ogni spessore problematico, ogni qualità psicologica e culturale, e si riduce a “vizio privato”. Non esiste come questione sociale. Peggio: se si presenta come questione sociale, va combattuta.
Questo spiega un altro paradosso. L’istituzione che ha maggiori problemi con la pedofilia, ovvero la Chiesa cattolica, è quella che tende più grossolanamente a identificarla con l’omosessualità; e a fare di quest’ultima la pietra dello scandalo.
E’ un paradosso ancora una volta solo apparente. L’omosessualità individuale, taciuta e occultata, è per la Chiesa, un peccato assolvibile; l’omosessualità come scelta di vita riconosciuta è una “piaga sociale”. E ciò vale – coerentemente – per l’intera destra cattolica.
I Dico sono il Male perché, regolamentando normativamente l’omosessualità, la sottraggono alla sfera della riprovazione sociale e della condanna morale e la collocano tra le scelte possibili, nell’autonoma disponibilità dell’individuo.
E’ proprio quanto teme la chiesa: una sorta di secolarizzazione del peccato e la sua “neutralizzazione” come opzione possibile e fallibile. Nel combattere ciò sta la radice della somma ipocrisia di un certo cattolicesimo osservante: non nella “doppiezza” di vita, bensì nell’assenza di vera compassione.
Della capacità, cioè, di partecipare della debolezza e dell’errore altrui: di patirne. Il peccato non ci riguarda (come collettività, comunità, organizzazione sociale): riguarda Cosimo Mele e, forse, don Gelmini. Sono sicuramente innocenti, vittime di un “complotto della sinistra”: e, in ogni caso, peggio per loro. Noi l’abbiamo sfangata. Grazie a Dio.