Come cristiano e come padre vi dico: “i figli LGBT+ sono tutti figli nostri”
Testimonianza di Mauro, genitore del gruppo Famiglie in Cammino, gruppo per genitori cristiani con figli LGBT di Bologna, fatta a “Camminando s’apre cammino” ritiro per cristiani LGBT+, i loro genitori e gli operatori pastorali che li accompagnano (Sestri Levante 24-26 giugno 2022)
La storia di ognuno di noi è simile e contemporaneamente diversa da quella degli altri. Tutti abbiamo avuto momenti complicati, magari giunti quando meno ce le aspettavamo, e siamo stati aiutati e accompagnati da persone che non credevamo potessero essere di sostegno, mentre altre ci hanno deluso.
La mia vicenda è quindi probabilmente poco interessante e forse ne ho già parlato molte volte, ma ogni volta che ne parlo, ogni volta che ripenso ai primi momenti dopo il coming-out di mio figlio, alle preoccupazioni, all’angoscia, alla vergona e mi vedo adesso, in cammino su una strada sicura, insieme a tanti compagni di viaggio, che sono diventati amici, fratelli e figli, mi sento sempre meglio e quindi chiedo scusa in anticipo per le ripetizioni.
Credo di aver cominciato ad intuire la possibilità che Mattia potesse essere gay da quando aveva circa 3 anni. Inizialmente erano solo sensazioni, sospetti, congetture, dovuti probabilmente ai più stupidi e tipici stereotipi omofobici: giochi ”femminili”, o comunque poco maschili, difficoltà a instaurare rapporti di amicizia con i ragazzi mentre invece riusciva ad entrare in relazione facilmente con le ragazze, ecc. Le prime conferme sono arrivate intorno ai 12/13 anni, quando mi è capitato di leggere alcuni messaggi che si era scambiato con un altro ragazzino (ebbene sì, io appena potevo leggevo le chat di mio figlio, probabilmente non è stato eticamente corretto, ma ora posso dire che è stato meglio così).
La cosa che mi turbò maggiormente non fu tanto la conferma ai miei sospetti, quanto il contenuto dei messaggi: decisamente espliciti per l’età e senza un minimo di coinvolgimento emotivo o sentimentale, solo fine a sé stesso. E ciò ha contribuito ad incrementare la mia visione distorta dei rapporti omosessuali ed aumentare esponenzialmente la mia preoccupazione. Cosicché la sera stessa cerco di parlarne a Mattia, provo a spiegare cose complicate che neppure io capisco ad un ragazzino che sicuramente non ha idea di cosa gli stia succedendo. Ovviamente, combino un disastro.
Il giorno dopo mi reco immediatamente dal pediatra, ad esporre la situazione, sperando in una soluzione miracolosa. E fortunatamente il nostro pediatra è un professionista in gamba, mi dice di stare tranquillo, che possono essere comportamenti passeggeri, dovuti all’età in evoluzione; quando gli chiedo se è possibile fare qualcosa, se ci sono terapie che possono sistemare il problema, mi guarda inorridito e mi spiega che queste presunte terapie sono una violenza psicologica inaudita e che mai e poi mai mi avrebbe consentito di intraprenderle per Mattia; mi dice che l’inclinazione sessuale è una condizione naturale, che non può essere modificata. Se Mattia ha questa inclinazione, non ci si può fare nulla, noi genitori possiamo solo stargli vicino, volergli bene ed accettarlo. Soprattutto ci ha consigliato di non forzare la mano, di non provare a fargli confessare nulla o cercare di fare in modo che si confidasse con noi; se e quando sarà il momento, sarà Mattia a deciderlo.
Questo è stato il primo vero e proprio episodio di inclusione che ho vissuto. Se avessi avuto un pediatra meno illuminato, avrei forse costretto mio figlio ad intraprendere terapie devastanti e pericolosissime; viceversa, non solo abbiamo evitato questo scempio, ma abbiamo trovato la prima persona che ci ha parlato serenamente di accettazione, di normalità, di inclusione.
Ovviamente, la nostra speranza era quella di una condizione momentanea, transitoria, che con il tempo si sarebbe “standardizzata”. Gli anni successivi sono stati quindi un continuo controllo silenzioso, una continua verifica nascosta di sensazioni, dubbi, percezioni, riscontri che confermavano sempre l’intuizione iniziale. Cercavo con una costanza degna di ben altri scopi di fare in modo che potesse frequentare il più possibile ragazze, anche perché come dicevo in precedenza, riusciva a stringere bellissimi rapporti di amicizia con molte ragazze, mentre invece non riusciva ad entrare in sintonia con i ragazzi. E quando vedevo una ragazza che chiaramente mostrava interesse nei suoi confronti, speravo che potesse capitare il miracolo, cercavo di fare in modo che si frequentassero, ma ogni volta finiva tutto in una grande e bella amicizia. Mi rendo conto ora di quanto fossi stato ignorante, nel senso proprio di mancanza di conoscenza.
In quegli anni, io e mia moglie ci siamo spesso confrontati su questi argomenti; avevamo due visioni diverse: io ero molto convinto delle tendenze di Mattia e pensavo che dopotutto avrei reagito positivamente, lei forse nascondeva la testa nella sabbia, dicendo che mi sbagliavo su Mattia, ma era molto più concreta di quando lo fossi io, mi diceva correttamente che se nostro figlio era gay, non ci potevamo fare nulla e che quindi avremo dovuto solo aspettare.
E così giungiamo al 16 maggio 2018, giorno del coming out di Mattia. Mi sono preparato 16 anni a questo giorno, pensavo di sapere tutto, di avere tutto sotto controllo, che avrei trovato le parole giuste, che avrei reagito alla grande…. Invece, l’unica cosa che sono riuscito a dire è stato “ti voglio bene lo stesso”, prima di scappare via con la scusa di comprare qualcosa in farmacia e piangere; per carità, capisco che non è poco e che purtroppo ci sono reazioni di gran lunga più cruente e crudeli; ma dopo 16 anni e dopo aver fatto un lavoro su me stesso pazzesco francamente mi sarei aspettato molto di più!
Ecco, credo che quella sia stata la prima ed unica volta che ho pianto per l’omosessualità di Mattia, faccio oggi una confessione a voi e anche a mia moglie. Ma oggi, guardandomi indietro, credo che sia stato il vero momento di svolta: quel giorno, tutto mi è crollato, le mie convinzioni, le mie certezze, l’illusione di essere forte e di non avere bisogno di nessuno. E solo dalle mie macerie ho potuto spazzare via tutto e ricostruire su nuove basi. Però è stata dura.
È stata dura soprattutto avere avuto la presunzione di venirne fuori da solo. Da lì a poco ho avuto invece la consapevolezza di quanto sia importante il supporto di chi ti sta intorno: la famiglia, gli amici, quelli veri, le persone da cui non ti aspetti supporto e che invece riescono a dartene. Qualche mese dopo, una domenica pomeriggio di luglio, afosa e pesante, eravamo parecchio in difficoltà: Mattia era da qualche giorno molto triste e cupo, forse qualche delusione sentimentale, noi di conseguenza disperati e addolorati. Decidiamo di chiedere aiuto, perché ne aveva bisogno Mattia ma ne avevamo bisogno soprattutto noi. Troviamo un numero di AGEDO di Roma e parliamo prima con Roberta, che ci rassicura e parla qualche minuto anche con Mattia, e poi ci mette in contatto con Ettore, sempre di AGEDO Roma.
Ettore era in vacanza in Sardegna, ma ci richiama e rimane al telefono con me e mia moglie per quasi due ore: ci rassicura, ci tranquillizza, ci racconta la sua storia (padre di due ragazzi omosessuali che fanno coming-out negli anni 80!), ma soprattutto ci raccomanda di non isolarci, di fare anche noi coming-out, di aprirci agli altri e di partecipare ad incontri, di istruirci, di conoscere, di metterci nelle condizioni di capire e di comprendere.
Perché è facile per un genitore accettare comunque l’omosessualità di un figlio, molto più complicato è intenderne e concepirne la normalità. Quello con Ettore e Roberta è stato il secondo momento di vera inclusione, in cui abbiamo percepito la possibilità di vivere la nostra condizione di genitori di un ragazzo gay in assoluta normalità e naturalezza.
Con Ettore abbiamo parlato di tutto, anche delle convinzioni religiose nostre e di Mattia, della paura dell’esclusione diretta o indiretta che nostro figlio avrebbe potuto avere e soprattutto del fatto che per noi e per Mattia non ci sarebbe stato posto in Chiesa. Ettore ci accenna quindi all’esistenza di un Gruppo di giovani cristiani che opera proprio a Bologna, il gruppo In Cammino; immediatamente ci mettiamo in contatto con Pietro e subito al ritorno dalle vacanze estive incontriamo Pietro, Luca e Carla, la mamma di Pietro. Mattia incomincia a partecipare agli incontri del gruppo dei giovani e noi con Carla, Cesare, Beatrice e GianPiero cominciamo a gettare le basi per un gruppo di genitori.
Il resto è Storia, con la ‘S’ maiuscola, perché stiamo veramente facendo la Storia. Il gruppo si è allargato: Iader, Sabrina, Manuela, Marisa e poi recentemente anche tanti altri genitori, non solo di Bologna. E poi i sacerdoti e le suore che ci accompagnano, gli Amici, sempre con la ‘A’ maiuscola degli altri gruppi nazionali che spesso incontriamo e con i quali è sempre una gioia vera vedersi e parlare dei nostri figli.
E badate bene, i nostri figli non sono solo quelli biologici, ma sono tutti i ragazzi e ragazze che abbiamo conosciuto in questi anni. Anzi, il terzo è più grande momento di inclusione lo abbiamo avuto quando abbiamo conosciuto la realtà di voi ragazzi, la vostra accoglienza, siete stati voi che ci avete considerato padri e madri, prima ancora che noi vi considerassimo figli.
La vostra fede è straordinaria, la vostra tenacia è motivo di orgoglio e per noi genitori e, almeno per me e mia moglie, è stata fondamentale per intraprendere un cammino all’interno della Chiesa, per capire che anche per noi e per i nostri figli c’è un posto, non in un angolo ed in silenzio, ma in mezzo a tutti gli altri ed insieme a tutti gli altri, a cantare e lodare il Signore.
E così siamo arrivati ad oggi, sempre in cammino, sempre con lo sguardo proiettato in avanti, senza però dimenticare da dove siamo partiti e come ci sentivamo. Un cammino che facciamo insieme a tanti altri genitori, che sentiamo ormai fratelli, un cammino che magari ci trova in condizioni diverse, chi ha raggiunto una certa consapevolezza, chi ancora ha qualche fardello, ma che è un cammino che facciamo tutti insieme mano nella mano, per qualcuno un po’ più pesante, per altri un po’ meno.
Ricordo ancora i primi incontri, quando con gli altri genitori, soprattutto Gianpiero, ci scambiavamo le impressioni, i timori, le aspettative e speravamo ancora di trovare quell’interruttore che potesse cambiare la realtà. Ora quell’interruttore non lo cerco più, non perché abbia superato tutti i timori, i pregiudizi, le ansie e le preoccupazioni, ma perché sono contento di come sia mio figlio, non penso a come potrebbe essere diversamente, sono orgoglioso di lui esattamente per quello che è e non per quello che potrebbe essere.
Certo il cammino non è terminato, anzi mi rendo conto di avere ancora tantissima strada da fare, ma so che non sono solo e che sono sulla strada giusta. Ora sono felice, non solo perché vedo mio figlio felice, certo questo incide tantissimo.
Ma l’obiettivo non è solo essere felice per lui, perché sembra quasi una felicità indiretta, riflessa; voglio essere felice perché io sono felice, perché sono contento e realizzato per tutte le cose che Dio mi ha donato, indipendentemente da come sono o da come dovrebbero essere. E sono sicuro che camminando insieme a tutti voi giungerò anche a questo traguardo.
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