“Belli e dannati” di Gus Van Sant. Viaggio nel cinema LGBT indipendente americano
Scheda di Luciano Ragusa con cui è stato presentato al Guado di Milano il film “Belli e dannati” di Gus Van Sant il 13 febbraio 2022
Come rapidamente sottolineato nella scheda precedente, il dibattito sulle produzioni (cinematografiche LGBT) indipendenti è tutt’altro che concluso, e le domande che orbitano attorno ad esse assumono sfaccettature difficili da rubricare con semplicità. Al di là delle commistioni, economiche e distributive, tra le “major” e le imprese “indie” (cfr. “Il cinema indipendente americano”, parte prima) ci si interroga sul reale contributo che il suddetto cinema fornisce allo sviluppo della “settima arte”.
E non mi riferisco soltanto al valore intrinsecamente estetico di un’opera, costituito da un linguaggio formale innovativo che ne decreta il successo artistico, ma alla potenza politica, sociale, ideologica, che tali progetti, a volte, pretenderebbero di veicolare.
Il tranello è dietro l’angolo, perché nulla vieta di finanziare pellicole dal gusto reazionario e conservatore, sebbene abbiano una sintassi divergente dagli schemi hollywoodiani: si può costruire, per esempio, un lungometraggio che esalta il razzismo, l’omo-transfobia, il patriarcato violento, confezionato con una peculiarità annotabile come indipendente.
In seconda istanza, dobbiamo considerare le sceneggiature che presentano soggetti indigeribili per il cinema “mainstream”, ma che rinunciano a linguaggi sperimentali per catturare il maggior numero di poltrone nelle sale (la prurigine vende sempre). Un esempio incontrovertibile è Sesso, bugie e videotape di Steven Soderbergh, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1989, e campione d’incassi nello stesso anno.
Girato in pochi giorni, con budget limitato, il soggetto – un uomo è solito filmare, ricavandone piacere, donne che confidano la propria vita sessuale – poco consueto ai canoni vigenti, il film offre l’occasione di un brivido voyeuristico ad una vasta platea, puntando tutto sulla commerciabilità di una perversione, privandola di fatto del suo potenziale anticonvenzionale.
Naturalmente, sarebbe sciocco farlo, non possiamo pretendere che gli autori con un immaginario poco appetibile al grande pubblico, attraversino decenni di cinema, senza mai scendere a compromessi. I registi indipendenti sono talvolta incerti tra la volontà di piacere al maggior numero di spettatori, o smarcarsi in favore di una narrazione sperimentale accompagnata da temi eticamente sensibili.
Come facciamo, dunque, a distinguere la bontà di un film indipendente? È possibile evitare le trappole di chi si ammanta di anticonformismo presentando lungometraggi nella sostanza routinari?
Del resto, non esistono, per fortuna, algoritmi concettuali in grado di assegnare, oggettivamente, marchi di qualità alle opere d’arte. Vale anche per la poesia, letteratura, pittura, scultura: educare lo sguardo diventa dirimente, soprattutto se una pellicola ha la pretesa di veicolare sottotesti non immediati, sia che si tratti di una grammatica insolita, che di contenuti inusuali.
Però, malgrado l’alto rischio che, cinema indipendente, si trasformi in una locuzione sotto la quale inserire film incomprensibili, lo spazio che esso offre, almeno potenzialmente, all’espressione di visioni sociali, politiche, ideologiche, alternative, è fuori discussione. Quanto poi l’immaginario controcorrente di un regista abbia presa sulla nostra quotidianità, rivoluzionandola, è ciò che differenzia la mediocrità dal capolavoro.
Per quanto riguarda il nostro percorso lgbt+ (oggetto delle prossime schede), il settore “indie” americano ha rappresentato, New Queer Cinema, e rappresenta, un’arena ospitale per mettere in scena quei vissuti che il filone “mainstream” disegna con stereotipi, rifiutando il ricatto morale con cui le “sorelle” di Hollywood sono solite detonare soggetti potenzialmente esplosivi.
Come si evince da queste poche righe, cinema indipendente, non è un’etichetta che significa sempre visione alternativa, qualità del segno filmico, proponimento estetico. All’interno di questo contesto, la corrispondenza è multidirezionale, cioè, si può organizzare una carriera puntando l’occhio al compromesso commerciale, oppure accettare una strategia formale che corre il rischio di perdere un’ampia fetta di pubblico, in favore di una coerenza idealistica che non prevede limiti.
GUS VAN SANT: TRA CLASSICISMO E INSTALLAZIONI CONTEMPORANEE
È difficile sintetizzare in una pagina la portata della filmografia di Van Sant, perché appartiene al confine, morfologicamente strutturata per attraversare linguaggi, generi, modi di produzione. A volte intrattiene rapporti con il cinema “mainstream”, altre si adopera a rinnovarne le strutture per sfociare in contenuti dal gusto indipendente, oppure, rivolgersi ad un pubblico tangenziale all’istallazione video contemporanea che alla classica sala cinematografica.
Si potrebbe essere indotti a pensare che tale impostazione rechi con sé un’incoerenza di fondo, rappresentata dall’incapacità di adeguarsi a regole, sebbene non vincolanti, che instradano verso una forma riconoscibile, intercettata la quale, ogni film di un autore, diventa un’esperienza percettiva ben figurata, una sagoma difficilmente confondibile.
Ma forse, il carattere delle pellicole “vansantiane”, consiste nella continua ricerca di senso legata all’immagine visiva: un lavoro in avanzamento che interroga i limiti della visualità, sia che si tratti di una rappresentazione concettuale, come il “loop”, tipico delle installazioni contemporanee, sia di una ripresa a colori fatta in super 8. Dunque, in questa prospettiva, il cinema di Van Sant acquista una congruenza stringente, fatta di continui rimandi da un lungometraggio all’altro, di sequenze che si ripetono esposte al fruitore con mezzi diversi, dal videogioco alla camera a spalla, dalla televisione alla ripresa documentale.
Conosciamo il percorso di formazione del regista: studia pittura a olio, pratica la fotografia, la pubblicità e il videoclip, ma, a suo giudizio, solo l’immagine filmica restituisce un’esperienza della realtà molto intensa, che orbita tra la sollecitazione sensoriale e la meditazione concettuale, cioè l’intero spettro delle possibilità che la “settima arte” concede.
A parere di chi scrive, senza complicare troppo le cose, quello di Van Sant è uno studio sulle possibilità dell’immagine in movimento, e delle varianti e biforcazioni che tale navigazione comporta. Attenzione, però, in quanto non si tratta di ibridazione strumentale tanto cara al postmodernismo. L’obiettivo è mostrare le differenze, confrontare dialetticamente l’occhio di chi riprende e il modo in cui i protagonisti si raccontano.
In Mala noche, oggetto della proiezione precedente, emerge negli inserti in Super 8 con cui i ragazzi messicani si mostrano. Il raddoppiamento di alcune scene, con l’espediente dell’home movie, fa oscillare la mente tra immagini simili e nello stesso tempo diverse, favorisce il transito tra medium differenti o l’ancorarsi nel mezzo.
A sostegno di questa tesi potremmo citare le riprese del regista che riguardano le nuvole o i deserti, luoghi per definizione privi di forma, in quanto costantemente modellati dagli agenti che ne regolano l’aspetto. Le masse di sabbia in movimento, così come i cumulonembi, sono materia di confine, separano il cielo dalla terra, la prossimità dall’orizzonte. In ultima analisi invitano spettatori e protagonisti al cambiamento, a oltrepassare i limiti del già codificato, un andirivieni che si offre come cifra stilistica di un cinema in cammino.
Johnny e Pepper di Mala noche sono viaggiatori, così come Mike e Scott di Belli e dannati; ma anche la banda in Drugstore cowboy e Sissy in Cowgirl. Lo sono Will, Will Hunting – Genio Ribelle, Eric e Alex, Elephant, Blake, Last Days, Harvey Milk, Milk, e lo siamo noi, invitati a condividere avventure sulla frontiera del nomadismo sensoriale e cerebrale. Si spiegano così i destini delle opere di Van Sant, anch’esse soggette ad un pendolarismo critico e commerciale che ha pochi eguali nel mondo della celluloide.
Se Sean Penn e Matt Damon ricevono l’Oscar per le rispettive interpretazioni, Milk (2008) e Will Hunting – Genio Ribelle (1997), e allo stesso filmmaker viene consegnata la Palma d’Oro a Cannes nel 2003 per Elephant, si alternano i fallimenti artistici di Psyco (1998), Last Days (2005), Promise Land (2012). Probabilmente troppo extra-cinematografici, perché non sempre, lo spettatore, accetta il gioco dell’oscillazione multipla, e ha lecitamente voglia di un disciplinare più immediato.
BELLI E DANNATI
Liberamente tratto dall’Enrico IV di William Shakespeare (parte I, 1597), la pellicola partecipa alla 48° rassegna cinematografica di Venezia, nella quale, ad essere premiato con la Coppa Volpi, è proprio River Phoenix, protagonista, insieme a Keanu Reeves, del film in oggetto. Il caso ha voluto che a concorrere in laguna ci fosse Derek Jarman, Edoardo II (cfr. scheda su www.gionata.org), con Tilda Swinton a sua volta vincitrice nella categoria migliore attrice.
Belli e dannati, in quanto film indipendente, prende parte agli Indipendent Spirit Awards del 1992, affermandosi in tre categorie: miglior attore protagonista (River Phoenix), miglior sceneggiatura, miglior colonna sonora.
Il lungometraggio, insieme a Elephant (2003), è unanimemente considerato il capolavoro di Van Sant, se non altro nelle sue connotazioni ascrivibili all’universo esterno delle major hollywoodiane.
Costruito con un budget decisamente superiore rispetto a Mala Noche (cfr. scheda precedente), ne conserva tuttavia alcuni stilemi, come per esempio il legame con Portland, Oregon, cittadina di provenienza del regista; oppure l’adesione alla cultura “beat”, al viaggio infinito del “tramp”, il vagabondo, con l’intento dichiarato di ribaltare lo sguardo dalla cultura eteronormativa a quella “queer”, rappresentata in Belli e dannati dalla fauna che popola la vicenda, in particolare dal prostituto narcolettico.
I protagonisti non sono soggetti a giudizio, vengono presentati come dato di fatto su cui Van Sant proietta il suo occhio “hippy omosessuale”, cioè con l’empatia di chi rifiuta di schierarsi contro il loro stile di vita, e li descrive con morbida complicità.
In piena concomitanza con quanto scritto nella pagina precedente, il film oscilla tra due destini, quelli di Mike e Scott, in completa antitesi dialettica: il primo non conosce le rispettive radici, ha poca presa sul presente in virtù della sua malattia, la narcolessia, e il futuro è un’incognita; il secondo proviene da una famiglia borghese, la cui storia, fa da struttura ad un presente di conservazione e ad un futuro già scritto, senza impedimenti e incertezze. Perfetti River Phoenix e Keanu Reeves nei rispettivi ruoli.
SCHEDA DEL FILM:
Regia: Gus Van Sant.
Soggetto e sceneggiatura: Gus Van Sant.
Fotografia: Eric Alan Edwards, John Campbell.
Montaggio: Curtiss Clayton.
Musica: Bill Stafford.
Scenografia: David Brisbin, Ken Hardy.
Costumi: Beatrix Aruna Pasztor.
Produttore: Laurie Parker per New Line Cinema.
Distribuzione italiana: Penta.
Cast: River Phoenix (Mike Waters), Keanu Reeves (Scott Favor), James Russo (Richard Waters), William Richert (Bob Pigeon), Rodney Harvey (Gary), Udo Kier (Hans Klein), Chiara Caselli (Carmela), Jessi Thomas (Denise), Michael Parker (Digger), Grace Zabriskie (Alena).
Genere: drammatico; anno: 1991; durata: 102 minuti.
TRAMA:
Mike, ragazzo di strada omosessuale affetto da crisi narcolettiche, e Scott, figlio del sindaco di Portland datosi alla vita per contestare il padre, dividono le difficoltà che la loro condizione esistenziale inevitabilmente produce. Mike, accompagnato da Scott, intraprende un viaggio alla ricerca di sua madre e delle proprie radici, che lo porterà dall’Idaho all’Italia. E che vedrà compiersi i rispettivi destini personali.