Il peso dell’omofobia sulla vita delle persone LGBT in Africa e in Europa
Intervista di Arwa Barkallah a Marame Kane e Mohamed Mbougar Sarr pubblicata sul sito Africanews (Francia), liberamente tradotta da Pina Adamo
Dal 1966 in Senegal essere omosessuale è considerato un reato, punibile dalla legge. In alcuni Paesi, come la Francia, non è illegale essere omosessuali, tuttavia molti omosessuali che vivono in questi Paesi subiscono la stessa discriminazione che ha luogo in Africa. Spesso, quando si parla di omofobia, si pensa all’oppressione che subiscono gli uomini, ma la cosa riguarda anche le donne. Come fanno alcune donne a dichiararsi lesbiche alla loro comunità e famiglia ? Come le vede la società ?
Cercheremo di approfondire questa questione per quanto riguarda l’Africa, ma anche l’Europa, con Marame Kane, che è uscita allo scoperto in Francia quando era sulla trentina, e con Mohamed Mbougar Sarr, scrittore senegalese, autore di un controverso libro di narrativa, De Purs Hommes, sulla morte di un omosessuale a Dakar.
Arwa Barkallah: Ciao e benvenuti a questo nuovo episodio di “Nella testa degli uomini”. In questo episodio parleremo del documentario audio che avete appena ascoltato sull’omofobia in Senegal, e affronteremo la questione della LGBT-fobia in Africa e in Europa con i nostri due ospiti.
Marame Kane, tu sei franco-senegalese, presidente del Centro LGBTQ di Parigi, e sei anche membro del Consiglio d’amministrazione della comunità lesbica dell’Europa e dell’Asia centrale.
Mohamed Mbougar Sarr, tu sei cresciuto a Diourbel, in Senegal. Attualmente risiedi in Francia e sei autore di diversi romanzi, vincitore del premio Stéphane-Hessel per il tuo racconto La Cale nel 2014, del premio Ahmadou-Kourouma e del Grand Prix du roman métis nel 2015. Nel 2018 hai pubblicato il romanzo De purs hommes, che racconta come la società senegalese vede l’omosessualità.
Da parte mia, cercherò anche di arricchire questa intervista on line con la mia esperienza, dal momento che io stessa ho vissuto per quasi quattro anni in Senegal, e ho lavorato come corrispondente e giornalista per la BBC.
Durante la prima parte di questo programma, affronteremo il problema dell’omosessualità in Senegal. Per motivi editoriali, e visto il tema del nostro podcast, abbiamo deciso di limitarci agli uomini gay senegalesi. Discuteremo con i nostri ospiti anche delle altre forme di oppressione, e in particolare della lesbofobia.
Marame Kane, tu sei lesbica e attivista. Puoi parlarci un po’ del tuo percorso e di come hai vissuto il tuo coming out come lesbica nella tua comunità e nella tua famiglia? Ti sei mai confrontata con commenti lesbofobi? E come hai reagito?
Marame Kane: Veramente la parola Goor-jigeen (letteralmente «uomo-donna» nella lingua wolof) si applica piuttosto agli uomini considerati gay. Non conosco la parola wolof per le donne lesbiche. Non so nemmeno se esiste, e questo evidenzia davvero l’invisibilità delle donne lesbiche, come se non fosse possibile che le donne amino altre donne.
Io, come dicevo, ho vissuto in Senegal per i primi diciassette anni della mia vita. Sono nata nel 1987. Questo darà un senso a quello che dirò dopo. I miei genitori erano insegnanti, ed eravamo tre bambini. Ho due fratelli. Sono l’unica ragazza, con il carico mentale che questo comporta in una società africana, la società senegalese, in cui dovevo essere un modello esemplare. Io stessa sono stata cresciuta in questo dualismo assoluto in cui c’è un uomo e una donna, la coppia è un uomo e una donna, ci si sposa, si hanno dei figli, e nessuno mi ha mai parlato di sessualità.
Anche in TV, negli anni ’80, soprattutto nel mondo francofono, perché invece negli Stati Uniti emergeva Ellen Degeneres, ma nel mondo francofono non avevamo nessun modello. Non avevamo alcuna rappresentazione di cosa significhi essere una persona LGBT lesbica, gay, bisessuale o trans. Nessun modello. Ho scoperto la parola “lesbica” quando avevo tredici anni, con l’avvento dei computer. Questo non mi fa sentire affatto più giovane.
In effetti andavo negli internet cafè per partecipare alle chat, in modo molto innocente. Un giorno parlo con una ragazza che vive in Francia, e che mi dice di essere lesbica. Quindi comincio ad interrogarmi. Sono un po’ spaventata, perché non capisco di cosa mi stia parlando. È lesbica, quindi mi dice “Sì, mi piacciono solo le ragazze”. Non faccio alcuna ricerca su questo, taglio la conversazione in modo netto.
Qualche anno dopo, nel 2004, è emersa la serie americana The L Word, che racconta della vita di alcune amiche lesbiche a Los Angeles. Sono di estrazione sociale ed etnica diverse, ma ciò che le unisce tutte è che sono lesbiche. Proprio il nome della serie è molto sintomatico del mondo “lesbico”, perché la parola non viene nemmeno pronunciata per intero. Si dice “la parola L”, la parola che inizia con L. E improvvisamente, si dice che L significa lesbica. L sta per “love”, per lesbiche o per amore? Non lo sappiamo davvero. E la cosa più divertente è che io guardo questa serie nel soggiorno di famiglia, con i miei genitori, su Canal+, ogni giovedì o venerdì sera. I miei fratelli sono lì, i miei genitori sono lì. Guardiamo insieme questa serie in cui ci sono anche scene molto erotiche e molto crude sulla vita sessuale e la vita emotiva delle lesbiche. E non ne parliamo mai.
I miei genitori mi dicevano semplicemente: “Ah, è l’ora della tua serie! Dai, andiamo”, ma non mi hanno mai detto: “Ma che scene sono queste? Che cos’é questo amore tra donne?”. I miei fratelli non mi facevano domande, e si rimaneva totalmente nel non detto.
In realtà, The L Word ha scosso l’inizio della mia vita da adulta, perché ho visto la serie dal 2002 al 2009, fino alla fine. Nel 2009 ho terminato gli studi universitari. Nel frattempo, nel 2005, sono arrivata in Francia. La mia vita adulta è stata forgiata in Francia, e ho fatto coming out molto tardi, a trentun anni. L’ho detto ai miei genitori e ai miei fratelli, che già lo sapevano, e poi, a poco a poco, l’ho esteso alla mia cerchia di amici ecc. Penso che l’associazione, l’ambiente militante, mi abbia dato molto, e molto aiutato a uscire allo scoperto.
Sono impegnata nel centro LGBTQ+ a Parigi dal 2017. Avevo conosciuto la mia compagna l’anno prima, e poi ho fatto amicizia anche con attiviste lesbiche che facevano parte di altre organizzazioni, e che successivamente, nel 2017, hanno creato la Comunità Europea e Centroasiatica per Lesbiche. Ed è lì che ho forgiato la mia identità, ma al di là della mia sessualità, anche la mia identità di donna e di attivista; ho detto a me stessa che la mia vita non è solo la mia cerchia ristretta di amici, familiari e persone care, la mia vita è anche politica, perché in effetti la società rende politica la mia vita, “politicizza” il mio corpo, che mi piaccia o no, e tutto questo ha davvero forgiato il mio coming out.
Dopo di che, il coming out è molto vario. Faccio il mio coming out tutti i giorni. Lo faccio sui social network, semplicemente essendo me stessa. Lo faccio quando riprendo i contatti con un’ex compagna o compagno di classe. Lo faccio quando vado al panificio o dal macellaio con la mia ragazza, tenendoci per mano. Ogni volta che incontro nuove persone, c’è sempre questa domanda: “Ah, state insieme!”. Questo non viene mai dato per scontato, il che significa che siamo in un perpetuo coming out. Quindi non posso dire di aver fatto un solo coming out, dal momento che dal 2007 ho fatto il mio coming out un miliardo di volte.
Dunque, in base a quello che dici, non esiste un termine per designare le lesbiche, a differenza di “Uomo-donna” per gli uomini presunti gay nel Senegal? È interessante saperlo.
Marame Kane: In realtà, non esiste un termine. Forse si dice che sono donne mascoline, che hanno un atteggiamento maschile, ma non si dirà mai che è possibile che siano innamorate, in una relazione affettiva, carnale, con altre donne. Questo non viene preso sul serio. Che siano in Senegal, in Francia o in altri Paesi, le persone si pongono meno domande se le ragazze si toccano i capelli, si tengono per mano o si baciano. Diranno sempre: “Ah, sono ottime amiche”.
Preferiamo così, come ad esempio quello che è accaduto in un recentissimo dibattito che si è svolto, mi sembra, in uno dei musei di Parigi su una romanziera che era stata dipinta da una pittrice. Subito la direzione del museo disse : “Questa persona è stata dipinta dalla sua ottima amica”. Le attiviste femministe lesbiche si sono allora fatte avanti per dire che non era un’ottima amica, era la sua compagna. Quindi c’è sempre questa negazione del lesbismo delle personalità politiche e femministe che conosciamo.
Che sia George Sand o Rosa Bonheur, per esempio, c’è sempre questa negazione, e penso che in Senegal sia davvero radicata nella società, perché la donna, come dicevo, deve essere esemplare. Portiamo il nome della famiglia, non lo trasmettiamo, ma trasmettiamo tutti i valori.
E il Senegal è una società di valori, una società radicata nei suoi valori. Certo, ci sono molte cose che spostiamo sotto il tappeto a livello sociale, ma i vicini, la famiglia, tutti sanno che siamo ancorati ai valori, ed essi sono trasmessi dalle donne.
Questi valori sono sostenuti anche da un altro valore, che si chiama “moogne”, quando si cerca di trasmettere i valori senza fare rumore (che è il “moognal” tra i Fulani [gruppo etnico del Senegal, n.d.r.]) cioè non parlare di quello che succede a casa. Ci sono molti tabù, anche solo per esprimersi, sia nella vita coniugale che in molti altri ambiti.
Marame Kane: È così. Anch’io sono fulani, e siamo stati educati così. Non so cosa dirà Mohamed Mbougar Sarr come uomo, ma in ogni caso la donna non dovrebbe avere una voce forte. Dovrebbe essere molto dolce, scegliere il suo vocabolario. Ci viene insegnato questo molto, molto, presto. Dovremmo prenderci cura degli altri. Inoltre, questo non è solo il caso della società senegalese, è anche il caso delle società africane e di alcune classi sociali in Francia.
Ma è proprio il fatto di dire a se stessi che la donna porta un tale peso mentale nella società, che anche la sua sessualità, il suo corpo, sono governati dai dettami che sono stati stabiliti dagli uomini, ma che sono veicolati dalle donne; mamme, nonne, zie, vicine di casa, tante donne che si fanno garanti della nostra integrità fisica e psicologica. La verginità è sacrosanta nella famiglia senegalese e nella coppia, e si impone alle donne, ma non agli uomini.
Precisamente, dal punto di vista della società, mi rivolgerò a te, Mohamed Boughar Sarr. In effetti, per scrivere il tuo romanzo De purs hommes hai fatto le tue ricerche. La storia riporta innanzitutto un video che diventa virale su Internet e mostra l’esumazione, in un cimitero, di un uomo accusato dopo la sua morte di essere un goor-jigeen, un omosessuale. Il personaggio principale, il cui nome è Ndene Guaye, è un professore di letteratura. Egli sviluppa un’ossessione per questo video, per questo evento, e si pone molte domande, in particolare sulla società, la società senegalese, la sua ipocrisia, come l’ ha definita lui. Cosa ti ha spinto a iniziare a riflettere su questo romanzo? E come hai organizzato la tua documentazione per elaborarlo?
Mohamed Mbougar Sarr: La notizia all’origine del romanzo è quella sui fatti accaduti nel 2008 e nel 2010. C’è stato in Senegal ciò che è stato descritto, a posteriori, come una sorta di panico morale, vale a dire che ci sono stati due anni, durante i quali ci sono state molte attività o dichiarazioni o violente sollevazioni nella società intorno alla questione omosessuale. È stata, in un certo senso, la prima volta che i mass media sono stati in grado di trasmettere una serie di fatti sulla questione omosessuale. La prima volta che c’era una specie di onda del genere, ed io ero ancora in Senegal .
Ero all’ultimo anno del liceo nel 2008, e c’erano due video, uno dietro l’altro, che mostravano esumazioni di cadaveri di uomini accusati di essere omosessuali. Ho visto uno di questi video. Purtroppo, dico purtroppo, perché è stato davvero impressionante, abbastanza scioccante e violento. E questa immagine è rimasta con me, e mi ci sono voluti circa dieci anni per cercare di rifletterci su attraverso la scrittura.
Ma in origine si trattava di una fatto di cronaca molto reale e molto sinistro, accaduto in Senegal, che è rimasto nella mia memoria per dieci anni e al quale ho finito per dedicare un libro. Quanto alla documentazione, è stata essenzialmente una documentazione di lettura della storia del modo in cui l’omosessualità era vista in Senegal, di tesi scritte sulla questione. La maggior parte di queste tesi, tuttavia, erano di taglio etnologico o storico, e facevano una sorta di digressione su questo problema.
Ho letto principalmente produzioni universitarie, ma anche qualche intervista, ma ovviamente mai esplicite. Durante discussioni che avrebbero dovuto essere abbastanza ordinarie, ho colto l’ occasione per porre alcune domande a persone che erano state, o erano, abbastanza grandi per essere vissute in un’epoca in cui la questione dell’omosessualità, pur rimanendo tabù, forse poneva meno problemi, perché non si poteva integrarla socialmente un po’ meglio, quando, prima di considerarla una relazione sessuale, veniva vista dal punto di vista sociale.
Perché alla fine è forse anche questo che sconvolge di più in Senegal e che sembra essere il valore più distruttivo. Ho quindi lavorato sulla base di letture e interviste, e anche sulla mia osservazione personale.
Hai davvero incontrato omosessuali? E rispetto alla società, cosa hanno detto? Cosa hanno detto della società senegalese?
Mohamed Mbougar Sarr: Dopo la pubblicazione del romanzo, una volta che è stato davvero lanciato e letto, mi è capitato di incontrarne alcuni, e in realtà gli omosessuali che ho incontrato mi hanno sempre detto (pur essendo molto preoccupati e angosciati per il fatto di vivere la loro omosessualità in modo clandestino, ovviamente, perché in Senegal è quasi impossibile viverla alla luce del sole) che erano comunque abbastanza sollevati che ci fosse un libro che affrontasse questo problema in Senegal.
Visto il modo in cui la società considera gli omosessuali, c’era un persistente sentimento di ansia tra queste persone, ma anche un sentimento, non direi speranza, perché non penso affatto che il mio libro rappresenti una speranza, ma di conforto, per il fatto di sapere che questa questione ha cominciato ad essere un po’ affrontata, e che un giorno si potrebbe aprire il dibattito .
Parlando di dibattito, come è stato accolto il tuo libro in Senegal e in Francia?
Mbougar Sarr: Quando sei uno scrittore, per di più romanziere senegalese, e affronti la questione dell’omosessualità, devi aspettarti due difficoltà. La prima è che il libro sia accolto molto male in Senegal, e la seconda che sia ben accolto in Francia. Questi sono due problemi. Che il romanzo sia accolto male in Senegal non sorprende, visto tutto ciò che è stato detto sui valori, la cultura, la religione. E questo me lo aspettavo. Il libro ha avuto molti problemi a essere letto, ad esistere in Senegal.
È stato preceduto da una specie di pettegolezzo. Prima ancora che le persone sapessero cosa c’era scritto, si erano già fatte un’idea. E poi, in ogni caso, non è stato considerato un romanzo, non lo hanno lasciato affermare come un romanzo. È stato subito considerato un documento, una tesi che affermavo, quindi è stato difficile, ma a poco a poco, nel tempo, dopo sei mesi, un anno, la gente ha iniziato a leggerlo.
In Francia è stato accolto piuttosto bene, ma con un pregiudizio di cui anch’io diffido, che era come dire “Guardate, è un uomo della società senegalese, che però denuncia i difetti di questa società”, che è un’altra forma di condiscendenza e paternalismo. Nel dire “Vedete, è un uomo eroico che si ribella alla sua società”, l’errore, secondo me, è di pensare che questo libro sia stato scritto da qualcuno che cerca di reagire, di criticare aspramente la società, di ribellarsi o rivoltarsi contro di essa.
Al contrario, io cerco di realizzare un’opera letteraria, una riflessione, attraverso la letteratura, su un fatto sociale. Come scrittore cerco di oppormi quando mi avvicino a questo problema. Quindi né l’accusa di traditore, né il titolo di eroe o di uomo coraggioso, mi sembrano in realtà giusti. Tra queste due visioni c’è un’opera che è un’opera letteraria, un lavoro di ricerca di una voce e di una giustizia che cerco di afferrare su questo problema.
Quest’anno abbiamo anche ricevuto un altro libro, Le génie lesbien (Il genio lesbico) di Alice Coffin. Abbiamo potuto assistere a una certa reazione epidermica, per non dire lesbofoba. Marame Kane, le reazioni sono state molto forti, proprio come per De purs hommes in Senegal. Forse non uguali, immagino, non lo so, ma in ogni caso quest’anno, in Francia, si è manifestata la lesbofobia di fronte al libro di Alice Coffin?
Marame Kane: Sì, assolutamente. Ritorno a ciò che Mohamed Mbougar Sarr ha detto sul suo libro, che pensava non portasse necessariamente speranza. È un po’ come il libro di Alice Coffin sul genio lesbico. Io penso di si. Perché, appena è uscito il libro De purs hommes, io l’ho comprato. L’ho letto, e penso che per gli emigranti sia molto importante avere un libro di questo tipo, anche se è un romanzo che è stato scritto da un nero, da un senegalese.
Stessa cosa per Il genio lesbico di Alice Coffin. È molto importante per le giovani lesbiche di oggi, o per quelle meno giovani, avere un libro del genere, anche se sfortunatamente c’è un dibattito eccessivo. Un libro del genere che è stato scritto da una lesbica, da una donna di oggi.
Alice Coffin l’abbiamo invitata al centro LGBTQ + a novembre, in modo che potesse parlarci del suo libro. E infatti, delle 240 pagine dell’opera, la stampa ha riportato solo due frasi standard. La maggior parte delle persone che hanno recensito questo libro non lo hanno letto, come immagino abbiano fatto con De purs hommes.
Molte persone hanno criticato il libro, lo hanno criticato senza averne letto una sola riga. Ed è qui che sorge il problema; il modo in cui si prendono semplicemente alcune frasi a destra e a sinistra, senza formarsi un’opinione, porta a distorcere l’ essenza stessa del libro. Ma per me questi sono libri che portano speranza nonostante tutto. A me hanno dato speranza nella vita e negli esseri umani.
Testo originale: Homophobie : le fardeau de toute une vie pour les homosexuels