Caro don Giulio se fosse possibile sospendere qualcuno a divinis, nessuno di noi potrebbe salvarsi
Riflessioni di Antonio De Caro*
Caro don Giulio, se fosse possibile sospendere qualcuno a divinis, nessuno di noi (consacrati o laici) avrebbe speranza di salvarsi. E, di conseguenza, nessuno di noi avrebbe interesse a coltivare la fede in un Dio o l’appartenenza ad una comunità ecclesiale capace di sospendere a divinis.
Il nostro Dio non sospende nessuno. Il Dio incarnato in Gesù e rivelato da Gesù ha scelto la kénosis, ha scelto di abbassarsi fino a noi. È diventato un bambino ed è morto come un malfattore proprio per farci comprendere che nessuna fragilità, nessuna sofferenza e nessuna colpa avrebbe mai potuto separarci da lui. Lui può attirare tutti a sé proprio perché si è elevato da terra caricando su di sé tutto il peso e la passione della nostra umanità. In Cristo noi siamo per sempre sospesi ad divina.
In Cristo, nessuno può essere sospeso a divinis, cioè escluso dalla comunione con Dio e con i fratelli. Nessuno può essere privato della dignità di essere umano, di figlio di Dio. E, se siamo battezzati, siamo re, profeti e sacerdoti del popolo di Dio -il che ci affida anche la responsabilità di essere buoni testimoni.
Questa convinzione noi l’abbiamo appresa non studiando teologia, ma vivendo con intensità e sofferenza le nostre vite: vite di persone LGBT, spesso cristiani; vite dei nostri genitori e amici; vite degli operatori pastorali che ci affiancano e ci accolgono, oggi sempre più numerosi.
Una convinzione che ci riscalda, illumina e consola, soprattutto nei momenti di amarezza, in cui gli uomini che pretendono di parlare a nome di Dio annunciano (con le loro parole, opere ed omissioni) un Dio diverso da quello di Gesù Cristo: un Dio che giudica, condanna, esclude; un Dio che non ascolta, un Dio che non valorizza le potenzialità di bene delle sue creature, che non ne sostiene i progetti d’amore; un Dio preoccupato di mantenere il suo potere, di non perdere la faccia, più che di salvare; un Dio del Magistero e non del ministero; un Dio capace di non benedire e forse, all’occorrenza, anche di maledire.
La nostra esperienza -anche recente- ci insegna che talvolta la Chiesa Cattolica Romana sa farsi messaggera di questo volto perverso e deforme di Dio, ancora più velenoso se travestito in parole di apparente e ipocrita benevolenza.
Lo abbiamo appreso, per esempio, il 15 marzo del 2021, con quel Responsum che nega la benedizione di Dio per le persone omosessuali che scelgono di amarsi in modo progettuale, adulto e responsabile, facendo anche dell’affettività e dell’intimità un luogo di agápe.
La Congregazione per la Dottrina della Fede sembra ignorare che, se la verità libera, è la misericordia che guarisce; e che la castità non vuol dire non fare l’amore, né farlo, ma lasciarsi fare dall’Amore.
I sacerdoti come te, invece, ci ricordano -nella semplicità quotidiana del loro ministero e anche esponendosi a dei rischi- che il Dio che cerchiamo, il Dio che ci chiama, è un Dio di salvezza. Salvare vuol dire purificare e conservare. Il Dio che ci ha annunciato Gesù non disprezza né distrugge la nostra capacità di amare, ma la purifica e la conserva, la rende feconda per noi e per gli altri.
Il nostro Dio, quello in cui confidiamo, ci salva nella misura in cui riconosce e rafforza il bene che c’è in noi: questo riconoscere il bene è, da parte sua, un benedire perché si diffonda e dia forza a noi stessi e alle persone che ci vivono accanto. E la sua benedizione non spacca la nostra identità, ma la ama e la salva in modo integrale, affidando al linguaggio dei corpi la missione di esprimere la relazione fra le anime. Cioè fra le persone. «La castità è l’arte di non considerare mai sé stessi o l’altro come oggetti. La castità è l’arte dell’ascolto delle pieghe della storia e dei volti in essa coinvolti. La castità è l’arte di costruire un ponte tra il desiderio erotico (eros) e la tenerezza (philia) per raggiungere l’amore (agape). La castità è l’arte di toccare il corpo per toccare l’anima. E per conoscere Dio» (G. De Vecchi).
Questa fede nel bene, e nel Dio che lo riconosce e lo promuove, è la prova che non ci interessa il “relativismo”. A noi interessa che l’amore sia fondato nella verità, ma nella verità che è essa stessa amore, nel senso maturo del termine. Le nostre relazioni intendono costruire progetti di vita insieme, di sostegno e nutrimento reciproco, poiché ognun* di noi diventi custode dell’umanità e della spiritualità del* partner.
Per questo non ha senso benedire solo i segni esteriori del culto a Dio, come le palme e gli ulivi. Possiamo celebrare la festa, la pace e la vittoria solo se crediamo e celebriamo il regno di Dio dentro di noi. Gesù non voleva un tempio fatto di pietre, ma un tempio fatto di persone che, attraverso di Lui, credono in Dio e cercano di vivere nell’amore. Chi ti ha sospeso, ha sospeso anche questo Dio, e ha sospeso anche noi, liberandoci dall’ossequio e dall’obbedienza ad una Chiesa dei farisei e dei dottori della legge, in cui non ci riconosciamo più.
Don Giulio, questa è la nostra fede. Non sempre siamo all’altezza di ciò che crediamo per dono e per Grazia, ma ci proviamo. Ed è esattamente questa fede che ci sorregge -come sa sorreggere la Croce, talvolta- soprattutto in periodi come questo, in cui gli uomini che pretendono di parlare a nome di Dio annunciano un Dio diverso da quello rivelato in Gesù.
Questa fede tu hai contribuito a ravvivarla con le tue parole e la tua vicinanza, quando ci hai fatto comprendere che o siamo noi le palme e gli ulivi della Domenica delle Palme, o non ce ne sono altri. Noi: uomini e donne di ogni lingua, tribù, popolo e nazione -che però devono anche partecipare al cammino dell’Agnello.
Questo è un momento di amarezza e confusione, che può suscitare talvolta anche rabbia, e la dolorosa sensazione che la Chiesa Cattolica Romana non sia più la nostra casa. Ma questo non ha importanza: ha importanza sapere che nessuno può essere sospeso a divinis, perché nessuno può essere separato dall’amore di Cristo o privato della libertà di testimoniarlo, nel proprio stato, che è sempre uno stato provvisorio.
Abbiamo bisogno di aggrapparci a questa fede, per essere ancora capaci di benedire e di non maledire, anche se ci fa stare proprio male la consapevolezza che i gerarchi della Chiesa Romana siano così pronti a soffocare ogni voce che apra spiragli di libertà evangelica, malgrado la parrhesia e lo spirito sinodale auspicati da Francesco.
Questa fede, a cui ci aggrappiamo perché alimenti in noi l’amore, vogliamo oggi condividerla con te: per ringraziarti, e anche nella speranza che porti anche a te conforto, coraggio e fiducia.
Un forte abbraccio
* Antonio De Caro (Palermo 1970) collabora con La Tenda di Gionata per promuovere il dialogo fra condizione omosessuale e fede cristiana. Sul tema, ha pubblicato i volumi Cercate il suo volto. Riflessioni teologiche sull’amore omosessuale (2019) e La violenza non appartiene a Dio. Relazioni omosessuali e accoglienza nella Chiesa (2021)