Herman@s. Quando il corpo diventa eversivo
Dialogo di Katya Parente con l’artista Hélène Alix Mourrier
Herman@, pluripremiato film della regista francese Hélène Alix Mourrier, ha partecipato alla quattordicesima edizione del Some Prefer Cake – Bologna Lesbian Film Festival, l’italianissimo festival internazionale di cinema lesbico svoltosi dal 23 al 25 settembre scorso. Anche qui ha riscosso un enorme successo ed un ulteriore premio, dal momento che, e cito le motivazioni della giuria, il film “mette al centro il corpo come elemento eversivo e di resistenza all’oppressione”.
L’opera, che ha per protagonista una sorta di pirata di latex transgender (interpretato da Cuco), si avvale di un raffinato bianco e nero. Abbiamo raggiunto Hélène, che volentieri ha risposto a qualche domanda.
Raccontaci qualcosa di te…
Se mi cercate, mi troverete sulla pista da ballo.
Sei difficilmente inquadrabile: graphic designer, ceramista, crei installazioni e performance. Come mai questa virata verso il cinema?
Ho comunque un background ricco e transdisciplinare. Dal 2009 al 2015 ho seguito un paio di corsi in arti applicate; alle Belle Arti di Parigi mi sono diplomata sia in graphic design che in illustrazione scientifica. Nel 2012 ho iniziato la mia pratica come designer freelance, collaborando specialmente con collettivi femministi e LGBTQI+: e tutta la mia ricerca artistica e di design si è concentrata sulle comunità trans e queer, in particolare nella creazione di strumenti e dispositivi di visibilità per loro.
Dal 2017, poi, insegno graphic design: con i miei corsi teoretici, tecnici e pratici accompagno i miei studenti fino al diploma. La mia pedagogia si basa sul social design e mira a creare spazi più sicuri, progressisti e responsabili per i giovani designer. Faccio anche parte, dal 2018, del collettivo tipografico inclusivo franco-belga BYE BYE BINARY.
Il lavoro in collettivo, e per il collettivo, è un elemento centrale che articola i miei diversi lavori. In parallelo a questa pratica di designing ne ho sviluppato un’altra, artistica, che ha il suo fulcro nella ceramica, nelle performance, nelle installazioni, e più recentemente nel cinema, con il mio primo corto-documentario HERMAN@S (SiblingX).
Questa virata verso il cinema è dovuta — in larga parte — al mio incontro con Victor Zébo. Abbiamo lavorato insieme in due occasioni, nel 2016 e poi nel 2017; in quell’occasione ho imparato, lavorando sul campo, cosa significhi fare un film e dirigerlo.
Per realizzare questo sogno ho avuto al mio fianco il miglior regista che conosco: la nostra amicizia è ciò che ha reso possibile questa avventura. Quando Victor mi ha detto queste parole: “Se un giorno farai un film, sarà con me” mi ha incoraggiata a diventare regista e ad avere il coraggio di chiedergli di lavorare insieme a me e a Cuco. È stata una specie di incantesimo.
Il leitmotiv di tutto questo rimane il transfemminismo – una corrente che ripensa il femminismo radicale dalla prospettiva trans. Si tratta di vedere le oppressioni di genere sistemiche dalla parte delle persone più vulnerabili. Questa corrente femminista mi interessa anche perché è profondamente de-essenzializzante e mette immediatamente in discussione i presupposti di genere, sesso e sessualità.
Il motto queer “‘Culo il tuo genere, ‘culo il tuo sesso, ‘culo la tua sessualità” parla di questa esplosione di categorie e della loro costruzione artificiale. Si tratta già, da questo punto di vista e a mio avviso, di una prima forma di intersezionalità. Nel mio attivismo, nel mio lavoro e nella mia vita l’intersezionalità è eminentemente un concetto che vivo con chiara conoscenza come punto fermo.
Accanto alla tua produzione artistica, tieni anche molte conferenze. Che differenza c’è tra l’incontro col pubblico mediato dalle tue opere e quello faccia a faccia?
Questi sono due momenti molto diversi, che mi piacciono parecchio. Credo che le conferenze siano momenti che accompagnano il lavoro, che lo continuano, e che possono renderlo accessibile grazie al loro stile più didattico, dove si sezionano, si esemplificano e si “contaminano” le varie scelte. Il cinema, la proiezione di un corto o di un lungometraggio, è forse all’incrocio tra un faccia a faccia con un’opera d’arte e una conferenza, dal momento che siamo insieme, seduti al buio, e prestiamo un’attenzione particolare, tutti insieme, in una data temporalità.
Mi piace anche il modo in cui il cinema si presta alla critica o al giudizio, mentre l’arte – “più elitaria” – può impressionare o intimidire. Durante le mostre è anche piuttosto raro, per un artista, essere presente insieme al suo lavoro. Poter accompagnare il tuo film ad un festival è un’opportunità; mi piace essere nella sala di proiezione e sperimentare l’accoglienza e l’atmosfera generale: spesso mi permette di incontrare gli spettatori, grazie allo scambio con il pubblico alla fine della proiezione, o alla semplice presenza e alle discussioni informali una volta concluso tutto.
Spero, in ogni caso, di offrire esperienze autentiche alle persone che si accostano al mio lavoro.
Herman@s è un’opera pluripremiata. Ce ne racconti la genesi?
Il punto di partenza del film è, ovviamente, un incontro. E poi è la scoperta dei muri che dividono, e il vedere qualcuno che ci sbatte contro. Spesso ho detto che fare un film significa proporre una forma autoritaria. Dicendo questo intendo dire che realizzare un film vuol dire darsi il diritto di parlare un linguaggio altro rispetto a quello dominante. È levarsi contro il “cistema” e il sistema attuale, opporvisi, è raccontare altre storie, e sognandole, renderle più reali.
Ciò significa che le nostre utopie sono eterotopie: che si avverano veramente. È dare a qualcuno un posto, mostrare quella persona con i tuoi occhi, è fermare la violenza, anche se è solo per un momento. Con questo film voglio creare uno spazio per curare e riparare, e voglio anche riaprire uno spazio per Cuco, dove possano essere riconosciuti, visti ed esistere.
Ogni volta che il film è selezionato, è una vittoria contro l’annichilimento. L’abbiamo presentato diverse volte in Francia, siamo andati in Inghilterra e poi in Italia. Di conseguenza, Cuco hanno ricevuto molti inviti per interviste, performance e reading, che sono altrettanti capovolgimenti dello stigma.
Più concretamente, ho iniziato il film basandomi su un’idea (quasi un capriccio), non partendo da una preparazione o da una scuola specifica. Ho avuto Victor come alleato, il capo-operatore del film, e ora anche mio migliore amico.
Avere Victor vicino è stato fondamentale per imbarcarmi in questa avventura, dal momento che ho iniziato senza produzione. Avendo avuto parecchi rifiuti per quanto riguarda sussidi e, appunto, produzione, ho deciso di non aspettare un aiuto esterno, e ho iniziato il film quando La Station Gare des Mines e i collettivo Mu [due associazioni culturali, n.d.t.] mi hanno offerto una residenza artistica.
Ho deciso di iniziare a girare le prime scene del film in Francia. Quattro mesi dopo abbiamo fatto delle riprese in Messico per El día de l@s muert@s. E nel gennaio del 2020 abbiamo fatto le ultime scene a Londra. E poi c’è stato il lockdown! È stato grazie alla velocità delle ultime riprese che ho potuto usufruire dell’assistenza post- G.R.E.C. (Experimental and Cinematographic Research Group). E per quanto riguarda le immagini, la costruzione vera e propria del film, ho deciso di filmare Cuco come li conosco, e come potreste incontrarli voi.
Che programmi hai per il futuro?
Grazie al premio che HERMAN@S ha vinto al Les Écrans Documentaire festival, ho ottenuto una sovvenzione per il mio prossimo film presso il [centro culturale] Moulin d’Andé in Francia. Ho deciso di imbarcarmi in un nuovo documentario sulle pratiche tipografiche post-binarie!
Faccio anche parte del collettivo tipografico inclusivo franco-belga BYE BYE BINARY. Stiamo lavorando alla creazione di nuovi grafemi e di nuovi glifi per de-binarizzare la lingua francese, che nell’uso corrente è sessista e binaria. Il nostro obiettivo è rendere visibili le identità non-binarie, trans e queer.
Questa visibilità significa attestare le nostre esistenze, che anche attraverso il linguaggio sono state stigmatizzate e discriminate. Queste sono anche forme di riparazione.
In parallelo al progetto di questo film, continuo ovviamente la mia avventura con il collettivo, partecipando ai nostri workshop alle nostre conferenze e alle nostre sessioni di creazione grafica. Per il futuro più distante, sto ideando anche un progetto con la ceramica sui diritti degli animali, un soggetto che mi sta particolarmente a cuore.
Ringraziamo Hélène per la sua disponibilità, e auguriamo buon lavoro al team di Some Prefer Cake perché si sa, chiusa un’edizione, è già ora di iniziare a preparare quella successiva. La cultura non si ferma mai – o perlomeno non dovrebbe farlo.