Unitarismo. La mia fede queer
Riflessioni di Alex Kapitan pubblicate sul sito del trimestrale UU World (Stati Uniti) il 1 giugno 2019, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
I miei genitori scoprirono l’universalismo unitariano nel 1991, quando avevo sei anni. Mio papà è figlio e nipote di pastori presbiteriani, mia mamma invece è stata cresciuta nella stretta osservanza dell’ateismo in una cittadina del Wisconsin. In famiglia raccontiamo la barzelletta secondo cui, quando i miei scoprirono la chiesa UU, la famiglia di mio papà esclamò “Oh no, ha perso la sua religione!”, e quella di mia mamma esclamò invece “Oh no, ha trovato una religione!”.
Sono uno UU, e sono stato allevato per fare domande, allevato per mettere in discussione tutto ciò che la società poteva presentarmi come “normale”: la segregazione e il razzismo della mia città, l’idea che gli adulti ne sappiano di più dei bambini e dei giovani, le aspettative che si potevano avere su di me come ragazza etero.
Mi hanno sempre insegnato a onorare la mia verità. Mi hanno sempre insegnato che la mia verità è vera, anche se non ha niente a che fare con quella che, secondo la gente, dovrebbe essere la mia verità. Mi hanno sempre insegnato che non esiste una verità definitiva, assoluta e universale, che ciò che rende bello il nostro mondo, e forti le nostre comunità, è che ciascun* ha una diversa verità, e ciascuna di queste verità è vera.
Quando avevo tredici anni, e tutte le mie amiche erano alle prese con le cotte per i ragazzi, mi chiedevo quale fosse la mia verità. Quando capii che sì, ero attratto dai ragazzi, mi chiesi poi se non ci fosse per caso altro. Cominciai a pensare a me stesso come più o meno bi, poi bi, poi pansessuale, poi queer.
Invece di entrare in agonia per lo sforzo di capire chi fossi, o di lottare contro la mia sessualità, o di negare la mia vera identità, ho avuto la benedizione di avere lo spazio che permettesse alla mia verità di essere vera, pur cambiando poi nel corso del tempo.
Questo cammino per giungere alla mia verità non è stato affatto un cammino lineare per arrivare a capire chi fossi “realmente”, non si è trattato di scartare bugie e mezze verità per trovare la Verità unica, assoluta, eterna; a sedici anni ero più o meno bi, e quella era la mia verità, ma quello che sono oggi non è una negazione di quello che ero a sei, sedici o ventisei anni: sono tutte verità vere.
Anche per quanto riguarda il mio genere ci sono molte verità. Anche se la parola genderqueer è stata coniata negli anni ‘90, allora non potevo certamente conoscerla, e al mondo non conoscevo nessun modello di persona non binaria.
Non possedevo una terminologia per descrivere chi ero, quindi mi limitavo ad essere. Ero al tempo stesso eccessivamente femminile ed eccessivamente mascolino, ero attratto dal teatro, dai travestimenti, dall’arte, concepivo il mio corpo, al tempo stesso, come qualcosa di intimo ed estraneo, uno strumento per esprimermi.
Provavo irritazione verso ogni aspettativa che il mondo, basandosi su quello che in teoria era il mio genere, aveva verso di me. Sapevo che non era vero, quindi feci delle scelte, passo dopo passo, verso ciò che mi faceva stare bene ed essere me stesso.
La mitologia dell’armadio vorrebbe che io abbia sofferto per anni sotto il peso dell’essere diverso, vorrebbe che, una volta che abbia compreso chi sono realmente, abbia dovuto vivere immerso nel dolore, cercando di negare o sopprimere la mia devianza, che quando ho sentito di non avere altra scelta abbia trovato, con enorme fatica, il coraggio di “uscire allo scoperto”, e che sia alla fine uscito fuori dall’armadio in cui vivevo con un gran botto, pienamente formato come essere nuovo e autentico, dopo aver tranciato ogni legame con il miserabile e falso io che ero prima.
Questa narrazione è un insieme di fasi che riflette la verità di molte persone, ma non è certamente una verità universale: nessuna di queste fasi è mai stata mia. Sono nato fuori dall’armadio, grazie a generazioni di fieri antenati che mi hanno preparato la strada, e grazie all’universalismo unitariano e alla mia fede UU e queer.
Ci sono molte verità attorno alla parola queer. Può significare “strano”, può essere un insulto, può essere un termine in cui ci si identifica, può essere una parola generica che designa ciò che non è eterosessuale, può essere una categoria politica, e perfino una disciplina accademica!
La teoria queer è nata nei primi anni ‘90 nell’ambito dell’attivismo queer, per reazione di fronte ai gay e alle lesbiche privilegiat* che andavano sostenendo di essere “normali” né più né meno delle persone etero. L’attivismo queer rifiuta l’idea che la normalità sia un obiettivo che valga la pena raggiungere, e mira ad abbattere o trasformare le strutture sociali oppressive come il matrimonio, e non a cercare di estendere i loro benefici ad altre persone.
La teoria queer affonda le radici nel post-strutturalismo, il quale afferma che non esiste una verità unica, assoluta e universale, e che per un dato ci sono sempre interpretazioni e significati multipli, a volte contraddittori, ma ugualmente validi. La teoria queer, inoltre, mette in discussione tutto ciò che viene presentato come verità in base alle norme sociali, come il binarismo di genere; essa stravolge e rifiuta tali norme.
La teoria queer non pone fede in una Verità statica e immutabile secondo cui saremmo “nat* in un certo modo”, e che il genere, la sessualità, la razza e numerose altre caratteristiche sarebbero impresse in noi una volta per tutte, al contrario, dà importanza per prima cosa alle scelte che facciamo, a quello che compiamo e a come facciamo esperienza del mondo, non a chi siamo o a come ci identifichiamo.
Tutto questo mi sembra molto affine all’universalismo unitariano. Anch’esso insegna che esistono molte esperienze di verità, e che tutte sono ugualmente valide. Rigetta i dogmi e il fondamentalismo, e insegna che i nostri cammini non sono dati una volta per tutte, che il nostro destino non è predeterminato, e che abbiamo sempre la possibilità di fare una scelta diversa. Per l’universalismo unitariano non importa che nome ti dai, importa come vivi la tua vita.
Per me l’universalismo unitariano è una fede queer. Nel suo cuore troviamo l’idea secondo cui la mia verità e la tua verità possono entrambe essere vere, anche se si contraddicono. Per me “queer” può voler dire “liberazione”, mentre per te può essere un insulto sanguinoso, e nessuno dei due ha torto, le nostre verità sono entrambe valide. Questa è la teologia più potente che si possa immaginare.
Alcuni UU adorano il mondo naturale, altri credono nella reincarnazione; alcuni parlano con gli antenati, altri credono nel metodo scientifico, altri ancora seguono Gesù, Muhammad o Gandhi. Alcuni credono in un solo Dio, altri credono in una molteplicità di dèi, altri ancora non credono in nessun dio. Siamo in qualche modo universalisti unitariani proprio grazie a queste molte verità, che non sono affatto un impedimento. Probabilmente ci sono tante diverse fedi quanti sono gli e le UU: questa è la nostra unicità più grande, e la nostra più grande forza.
Ma per poter sfruttare i nostri superpoteri, non possiamo limitarci a convivere senza approfondire le verità degli altri; non possiamo ignorare le nostre differenze e pensare che non facciano alcuna differenza per la nostra comunità o per i rapporti tra noi.
Una fede queer capovolge completamente le convenzioni sociali. Una fede queer implica discutere attivamente di ciò in cui crediamo, condividere le pratiche che ci fanno sentire conness* e radicat*, provare gioia e stupore nel constatare quanto sono diverse. La mia fede queer mi insegna che la mia verità è valida anche se tu hai un’altra verità, che quando ambedue potremo vivere nelle nostre verità (diverse!), quando ambedue saremo veramente viv* in queste verità, e saremo capaci di onorare la verità dell’altr*, allora saremo liber*.
Condividere le verità e le pratiche che ci nutrono il cuore e l’anima ci rende incredibilmente vulnerabili, e può essere incredibilmente scomodo tentare di capire qualcosa di estraneo, o accettare il fatto che qualcosa che per noi può essere opprimente o doloroso, fa sentire più libera un’altra persona.
Per me è questo che vuol dire essere universalisti unitariani. Solo correndo questi rischi possiamo abbattere i muri tra di noi, mettere in discussione ciò che la cultura dominante ci offre ed essere davvero in relazione gli uni con le altre. Insieme possiamo rendere queer la nostra fede e scegliere un diverso cammino verso la giustizia, verso la guarigione, verso la vita.
Testo originale: Queering faith