Il magistero della paura. L’eredità di Ratzinger per i credenti LGBT
Riflessioni di Antonio De Caro*, parte quarta
Come cristiano posso e devo avere pietà per Joseph Ratzinger, posso sforzarmi di perdonarlo e di affidarlo alla misericordia di Dio (di cui tutti siamo bisognosi mendicanti); ma non posso dimenticare che quel magistero, tradotto poi in politica ecclesiale da altri gerarchi come Camillo Ruini, ha contaminato e inquinato non solo la vita della Chiesa, ma anche le scelte della società e della politica in una Repubblica che dovrebbe essere laica, ma che in realtà è sempre stata influenzata dalla mentalità cattolica -anche solo per bieche ragioni di opportunismo elettorale.
«Senza l’approvazione di Woytiła confortato dal suo teologo di riferimento Ratzinger l’allora presidente della CEI cardinale Ruini non avrebbe sponsorizzato Berlusconi, paladino a parole dei valori “non negoziabili” della Chiesa Romana: e senza il placet vaticano il Cavaliere non avrebbe potuto sdoganare né la Lega xenofoba di Bossi né i neofascisti eredi di Almirante, e forse la storia italiana sarebbe andata per un’altra strada» (G. Squizzato).
Alla Chiesa in Italia, in nome dei “valori non negoziabili” difesi dall’ottusa e crudele “dottrina della fede” di cui Ratzinger è stato titolare, è stato concesso il potere di inficiare la serenità, la spiritualità e la sicurezza di tante persone, condannate come “intrinsecamente disordinate”, se non “intrinsecamente cattive”. Vorrei sapere perché di questo nessuno parla, nessuno si ricorda, mentre non solo la stampa mainstream, ma anche le voci dei semplici fedeli in piazza San Pietro si commuovono per quell’uomo che è rimasto impropriamente vestito di bianco.
Si ignora, o si vuole ignorare, di che lacrime grondi e di che sangue, quel magistero, e si preferisce venerare un’immagine oleografica che rischia ancora di coagulare intorno a sé le forze retrive di una Chiesa pericolosamente estremista anche in campo politico. Ratzinger è stato sepolto, ma temo chi può ancora rivendicarne l’eredità. Temo che la umana pietà che circonda chi muore possa rinnovare il consenso verso un pensiero che ha fatto soffrire molti.
Il cordoglio corale di questi giorni rivolto al mite papa intellettuale, grande pensatore, amante della bellezza, dei gatti e della musica, non fa che rinnovare in me il dolore provocato dal suo magistero, che ha reso così amare alcune stagioni della mia vita.
Non deve, infatti, sfuggire, come ho cercato di descrivere prima, che Ratzinger non è stato solo un innocuo e isolato pensatore, dedito alla preghiera e alla contemplazione, ma qualcuno che ha ricoperto un ruolo altissimo e delicato, ha consapevolmente progettato e diretto il corso della Chiesa Cattolica proprio a livello formativo e – mi permetto di affermarlo umilmente per la mia storia personale – non si è mai soffermato a riflettere sulle conseguenze emotive, psicologiche, morali e spirituali del suo profondo pensiero.
Onestamente, credo che abbia amato Dio e la Chiesa e che si sia sforzato in ogni modo di rendere un buon servizio. Ma ritengo che fosse accecato dalla paura (come ha notato Vito Mancuso) che il magistero e l’autorità della Chiesa Romana potessero entrare in crisi, venendo meno al compito di mantenere vivo il messaggio cristiano nel mondo.
Questa paura ideologica lo ha portato a pensare che le persone (con la loro storia, la loro sensibilità, la loro capacità etica) valessero meno della dottrina e dell’immagine della Chiesa. È forse la stessa drammatica strategia che lo ha portato a riproporre con forza, nel 2001, il Crimen sollicitationis del 1962. Se vogliamo credere alla buona fede del Prefetto, si tratta di un documento de delictis gravioribus volto a perseguire i clerici responsabili di abusi sessuali e a mantenere la riservatezza sui casi e sulle vittime.
Di fatto, però, è un documento che minaccia la scomunica latae sententiae a chiunque riveli all’esterno le notizie sugli abusi: impedendo quindi anche alle vittime di rivolgersi alla giustizia civile e penale e riservando solo agli organi interni della Chiesa il potere di seguire i casi e processare i colpevoli – con un evidente corto circuito di imparzialità e conseguente conflitto di interessi.
I risultati sono quelli che abbiamo visto e vissuto tutti.
Credo che Ratzinger sia stato travolto dal fallimento della sua politica e della sua visione della Chiesa. L’eredità più bella e preziosa di Joseph Ratzinger, per quanto mi riguarda, è la sua rinuncia al ruolo di Pontefice dell’11 febbraio 2013. Con quel gesto, che ha cambiato la storia della Chiesa, Ratzinger ha accettato i suoi limiti, ha riconosciuto che le sue energie e le sue risorse, fisiche e spirituali, non erano in grado di affrontare la crisi materiale e morale della Chiesa Romana.
E quindi, riconoscendo umilmente la propria debolezza, Ratzinger ha ammesso anche che lui, come uomo e pontefice, poteva anche fare delle scelte diverse da quelle di Giovanni Paolo II, senza per questo essere biasimato: cioè ha dimostrato che ogni persona deve avere rispetto per sé stessa e può avere un percorso diverso, ma non per questo moralmente meno accettabile.
Ci sono tante strade verso il bene, e questo non vuol dire sprofondare nel fango del relativismo: non è vero, Joseph? Altrimenti non avresti fatto una scelta così rara, coraggiosa e foriera di conseguenze imprevedibili: una scelta non condivisa da molti, nella Chiesa, una scelta controcorrente e strana per la tradizione che tu hai sempre difeso con accanimento. E perché l’hai fatta, Joseph? L’hai fatta (come tu stesso ci hai spiegato in perfetto latino, quel benedetto giorno) ascoltando, esaminando e seguendo la tua coscienza.
Di fronte alla tua coscienza hai ritrovato la tua libertà, la tua forza e la strada per proseguire la tua vita di fede chiudendo un capitolo di vita assai doloroso (per tutti). Hai creduto che nella tua coscienza fosse possibile continuare a dialogare con Dio, anche se il resto della Chiesa e del mondo non avrebbe capito. Hai creduto che essere fedele alla tua coscienza fosse la cosa più importante. Hai creduto nel primato della coscienza, che hai sostenuto con lucida serenità negli anni del Concilio Vaticano II.
Se questa cosa è stata concessa a te, Joseph, perché non deve essere concessa anche agli altri figli e figlie di Dio? Perché a te deve essere lecito appellarti alla tua coscienza, e a noi no, a noi che siamo stati spesso tormentati dal male che il tuo magistero che fomentato? Adesso lo hai capito che cosa significa cercare di essere fedeli a sé stessi e alla propria vocazione, anche quando ci porta lontano da quello che tutti gli altri considerano giusto e si aspettano da noi?
Forse, senza la sofferenza che il tuo magistero mi ha provocato, non avrei avuto bisogno di lottare e non avrei fatto le conquiste che ho fatto. Io ti perdono. Che Dio ti spalanchi le braccia della sua misericordia e ti ricolmi di gioia infinita.
*Antonio De Caro è autore dell’ebook teologico “Cercate il suo volto. Riflessioni
teologiche sull’amore omosessuale” (edito da Tenda di Gionata, 2019, 48 pagine, scaricabile gratuitamente) e del libro “La violenza non appartiene a Dio“, editore Calibano, 2021.