I diari di Lou Sullivan. Il racconto radicale della felicità trans

Articolo di Jeremy Lybarger pubblicato sul sito della rivista The New Yorker (Stati Uniti) il 16 settembre 2019, parte prima, liberamente tradotto da Innocenzo

“Voglio assomigliare a quello che sono, ma non so come essere uno come me“, scrisse Lou Sullivan nel suo diario, a metà degli anni Sessanta, quando viveva da adolescente nella periferia di Milwaukee (Stati Uniti).

“Voglio dire, quando le persone mi guardano voglio che pensino: è una di quelle persone che ragionano, è un filosofo, che ha la propria idea della felicità. Questo è ciò che sono.“

I diari di Sullivan che iniziò a scrivere nel 1961, all’età di dieci anni, e sino alla sua morte avvenuta per complicazioni legate all’aids , nel 1991, raccontano la sua ricerca di esistere nel mondo così com’era e di prendere parte alla sua felicità…

Tante storie (autobiografiche) che gli editori Ellis Martin e Zach Ozma hanno raccolto nei libri “We Both Laughed in Pleasure: The Selected Diaries of Lou Sullivan: 1961-1991”, che raccontano la sua evoluzione da studentessa cattolica ribelle ed ossessionata dai Beatles, a nota scrittrice ed attivista transgender a San Francisco.

Sono più di venti volumi, tutti diretti e delicati, casualmente poetici e voracemente sessuali, in cui Sullivan ha elaborato la sua identità e le sue relazioni, affidando a quelle pagine il racconto della sua scoperta di sé, ed in cui ha costruito un parallelo tra il movimento di liberazione gay e l’iniziale movimento transgender per i diritti umani e la crisi causata dal diffondersi dell’aids.

Sullivan era un uomo trans gay, in un momento in cui la sua sessualità e il suo genere erano visti come contraddittori, una doppia identità che all’epoca non poteva esistere. Non è stato il primo uomo trans gay ma, attraverso la sua scrittura, l’attivismo, i discorsi pubblici, le occasionali apparizioni televisive è diventato uno dei transgender più visibili. Ha fatto pressioni sulla professione medica del tempo perché riconoscesse l’esistenza degli uomini trans gay e rimuovesse l’orientamento sessuale dai criteri associati al disturbo dell’identità di genere.

Organizzò gruppi di sostegno, curò newsletter e, nel 1980, scrisse a scritto un libro che autodefiniva “il manuale per affrontare i bisogni della femmina-maschio“. Nel frattempo, tenne fede al suo voto adolescenziale “di tenere un diario finché sarò vivo“, nella speranza che un giorno qualcuno pubblicasse e raccontasse “un fenomeno, come me”.

Sullivan crebbe a Wauwatosa, nel Wisconsin. Suo padre, John, possedeva un’azienda di trasporti e traslochi; sua madre, Nancy, era una casalinga e una  commessa. Una parte di Sullivan aspirava a essere un buon cattolico come il resto della sua famiglia: da preadolescente, dichiarò nel suo diario che amava Gesù e promise: “Cercherò di essere bello nell’anima”. Ma aveva già una vena sovversiva.

Divorava musica pop – i Beatles, i Rolling Stones, Bob Dylan – e si divertiva a fingere di essere un ragazzo. Ma se i suoi gusti musicali erano innocui (sua madre era d’accordo con lui sul fatto che avrebbe potuto “tagliarsi i capelli alla Beatles, prima dell’ultimo giorno di scuola“), invece sentiva che la posta in gioco nella sua ribellione più profonda – tanto esistenziale, quanto culturale – era molto più lontana ed alta.

“Ho una terribile tentazione verso gli atti sessuali“, scriveva. «Non li farei mai con nessuno, però. Gioco con me stesso, il che dovrebbe essere sbagliato. Ma non riesco a vederlo come sbagliato“.

Da bambino fantasticava di girare per le strade di notte, vestito da ragazzo. Ha registrato (nel suo diario) l’intensità del suo desiderio sessuale adolescenziale (“Mi sono masturbato circa 5 volte al lavoro, ho disegnato foto sporche, scritto cose sporche”), insieme alle sue fantasticherie sadomaso e al fascino per l’omosessualità.
“Il mio problema è che non riesco ad accettare la mia vita per quello che è“, scriveva nel suo diario nella metà degli anni Sessanta, “sento che sotto c’è qualcosa di profondo e meraviglioso che nessuno ha ancora trovato”. E quello che c’era sotto era il suo desiderio di essere maschio.

All’inizio, questo desiderio era intrecciato con la voglia di viaggiare. “Vorrei essere un ragazzo! Dio, quanto voglio poter vagabondare”, scriveva Sullivan da adolescente, quando sognava ad occhi aperti di partire per Chicago o New York, per vivere come i suoi idoli bohémien.

Dopo il liceo, si trasferì a Milwaukee, dove, sebbene fosse ancora esteriormente una donna, trovò rifugio nella scena gay locale: nei suoi bar, nei club sadomaso e tra i gruppi di attivisti di base. Entrò a far parte della Gay People’s Union, una delle prime organizzazioni di liberazione gay, dove contribuí con degli articoli alla rivista del gruppo e corse, incontrastato, per la carica di segretario. Secondo la biografia di Brice D. Smith “Lou Sullivan: Daring to be a Man Among Men “, del 2017, Sullivan iniziò a indossare abiti maschili a tempo pieno dal 1973.

Come la maggior parte degli altri posti nell’America dell’epoca, Milwaukee limitava l’accesso all’assistenza sanitaria o alle informazioni sui transgender. “Vorrei che ci fosse una fottuta clinica di genere in questa città del cazzo”, scriveva Sullivan.

Dopo aver ottenuto un lavoro di segreteria, presso l’Università del Wisconsin-Milwaukee, andò nella biblioteca dell’università alla ricerca di libri sull’identità di genere, ma, come scrive Smith, “non ho trovato alcuna menzione da nessuna parte di persone nate femmine, che si sono identificati come uomini gay”.

Ciò che Sullivan apprese inizialmente sulla cultura transgender proveniva da una rete clandestina di confidenti che si ritrovavano attraverso gli annunci sulle ultime pagine delle newsletter e delle riviste della comunità.

(…) L’identità di Sullivan era fluida, almeno all’inizio. “So come essere un ragazzo, non ho mai saputo essere una ragazza, ne sono contento! Eppure penso di poter essere un ragazzo e di poter mantenere la mia identità di ragazza, spero che riuscirò a fare una combinazione piacevole“, scriveva.

Ma quella coesistenza non durò. Sullivan iniziò a legarsi i seni e si costruí un pene con dei calzini arrotolati, anche se quelli erano dei poveri sostituti del corpo che voleva. “Mi vergogno così tanto del mio seno e della mia vagina“, scriveva in un appunto. Quando finalmente trovò il coraggio di comprare uno strap-on, dormì con quello attaccato al suo corpo per tutta la notte.

L’auto-presentazione di Sullivan lo rendeva un enigma per gli altri, e talvolta anche per se stesso. Un amico lo soprannominò “un macello di femmina“, un termine che approvava, anche se altre volte si definiva un travestito. (A quel tempo, la parola “travestito” indicava qualcuno che si presentava come del sesso opposto, ma che non voleva un intervento chirurgico; mentre un “transessuale” voleva fare un intervento chirurgico.)

Anche se comprendeva i limiti di queste etichette, Sullivan sembra desiderare ardentemente avere le certezze che esprimevano, invece: si sentiva in disaccordo con gli altri uomini gay (“come mi inserisco?“), con le femministe (“si oppongono sempre a come mi vesto“), con le lesbiche (“Mi piacciono gli uomini“) , con gli eterosessuali (“assolutamente non sono come loro“), e con gli altri travestiti (“sono tutti maschi o femmine truccati“).

Continua…

Testo originale: Lou Sullivan’s Diaries Are a Radical Testament to Trans Happiness