“Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Mt 10,40)
Commento biblico di don Gian Luca Carrega* su Matteo 10,40, versetto scelto per le veglie per il superamento dell’ omotransfobia 2023
Matteo 10:40: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”.
Il versetto che analizziamo si trova in conclusione del cosiddetto “discorso missionario”, il secondo dei cinque grandi discorsi che strutturano il vangelo di Matteo. In questa sezione vengono date istruzioni ai discepoli sul comportamento che devono tenere nella predicazione e sulla sorte che li attende.
In particolare, Gesù rimarca la concreta possibilità che i missionari vengano rifiutati: “Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi” (Matteo 10:14). Ed è sullo sfondo di un eventuale fallimento che diventa più comprensibile la ricompensa per chi invece accetta la predicazione dei discepoli su Gesù, quindi: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”.
Due osservazioni tecniche sulla traduzione. Nella lingua greca si ricorre ad una struttura incrociata (chiasmo) che sottolinea l’analogia di situazione, e che funziona secondo lo schema A-B-B-A: “Chi accoglie voi, me accoglie e chi me accoglie, accoglie chi mi ha mandato”. Dunque, nella prima metà del versetto viene messo al centro l’oggetto dell’accoglienza, mentre nella seconda metà viene evidenziato il verbo.
Un’altra sfumatura che va perduta nella traduzione è che nel greco la sequenza con cui appare il verbo “accogliere” è prima un participio, e poi un verbo presente. Significa che la prima menzione è una premessa, la frase subordinata, mentre la seguente è quella principale. Parafrasando, si può rendere così: accogliendo voi, si accoglie me e accogliendo me, si accoglie colui che mi ha mandato. Quindi non c’è dubbio che l’enfasi cade sulla seconda metà di entrambe le frasi. Sottigliezze, se vogliamo, ma che ci aiutano a gustare un certo stile proverbiale nelle parole di Gesù che ci rimandano al sapore della predicazione orale originaria.
Per capire il senso di questa promessa, bisognerebbe leggerla nel suo contesto immediato. Il versetto 10:40 fa parte di un blocco di tre versetti costruiti in maniera simile. Viene detto, infatti, che c’è una ricompensa per chi accoglie un profeta/giusto e per chi dà da bere un bicchiere di acqua fresca ad un discepolo. Nel confronto ci accorgiamo che nel nostro versetto manca il termine che esprime appunto la ricompensa. Ma in realtà è proprio ciò che è implicito: chi accoglie un discepolo avrà la ricompensa di accogliere nientemeno che Gesù, e accogliendo Gesù si accoglie addirittura il Padre. Giustamente non si adopera il termine “ricompensa”, che sarebbe quasi irriverente associato a loro, ma il senso è quello.
Lo scopo di questo versetto è garantire le credenziali ai missionari che – in quanto inviati da Gesù e dal Padre – non rappresentano soltanto se stessi, ma l’autorità e la persona di chi li manda. Possiamo comprendere meglio questa funzione rifacendoci a un passo di Paolo: “In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta” (2 Corinzi 5:20). L’apostolo è perfettamente consapevole che, per mezzo di lui, è Dio in persona che si esprime. Dunque questo concetto accresce grandemente la dignità degli inviati, che sono investiti della stessa autorità di chi rappresentano.
Se questo principio di identità tra inviato e mandante ha un valore particolare nell’ambito della missione, non dobbiamo tuttavia dimenticare che si innesta dentro un contesto più ampio di alleanza, dove le offese che venivano fatte all’alleato spingeva ad intervenire chi aveva stretto il patto con lui, come se l’affronto fosse stato recato a lui. È in questa logica che capiamo perché nell’Antico Testamento Dio interviene a protezione del suo popolo, che ha stretto un vincolo di alleanza con lui, a protezione del suo onore. Anche quando Israele meriterebbe di essere abbandonato a se stesso, Dio interviene per tutelare la sua fama che è stata infangata: “Io agisco non per riguardo a voi, casa d’Israele, ma per amore del mio nome santo” (Ezechiele 36:22).
Che Dio si identifichi col popolo nella sua totalità è anche la chiave per comprendere l’uso del plurale (“voi”) in Matteo 10:40. Sebbene ogni uomo sia creato a immagine di Dio, e sebbene ogni singolo discepolo porti con sé la gloria di chi lo manda, è nella comunità che risiede la piena identità col mandante.
Queste prerogative che connotano il missionario rendono poi più significative le conseguenze nell’accoglierlo o meno, quindi in bene o in male. E qui mi pare rilevante che il discorso di Gesù si sposti dalla persona plurale a quella singolare: la questione dell’accoglienza diventa individuale, è la scelta di ciascuno, di cui deve poi portare le conseguenze. Colui che accoglie può ricavarne molto.
La nostra cultura è fatta di valori e di tradizioni che spesso tramandiamo in maniera poco critica, cioè senza davvero interrogarci sulla portata di ciò che affermiamo. Ad esempio, diciamo che “l’ospite è sacro”, ma poi aggiungiamo tanti distinguo (se si ferma poco, se è educato, ecc.). Nel mondo biblico si afferma qualcosa di più: l’ospite non è solo sacro ma è “sacramento”, cioè una presenza particolare del divino. Nella lettera agli Ebrei troviamo un interessante appello: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli” (13:2). Il riferimento è, ovviamente, all’episodio delle Querce di Mamre (Genesi 18:1-15), quando Abramo accolse nella sua tenda tre visitatori, che vennero interpretati nella tradizione come emissari divini o come Dio stesso.
Sembra essere una constatazione che spinge all’ottimismo, cioè che si può ottenere molto con un semplice gesto di gentilezza. Ma fa capire anche che il rifiuto di un discepolo comporta un atteggiamento di disprezzo verso Gesù e verso Dio, di cui si dovrà rendere conto. Ci troviamo di fronte alla stessa logica del Giudizio universale di Matteo 25:40: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Concludo, quindi, con una buona osservazione di Amy Oden: “Intesa come caratteristica della vita cristiana, l’ospitalità non è tanto un singolo atto di accoglienza, quanto un cammino, un orientamento che si apre all’alterità, ascoltando e imparando, valorizzando e rispettando. Colui che ospita cerca la presenza redentrice di Dio nell’altro”.
A volte, infatti, siamo convinti che l’accoglienza sia fare del bene, ma poi ci tocca ammettere che ci fa del bene.
*Don Gian Luca Carrega è docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà teologica di Torino e direttore dell’Ufficio per la Pastorale della Cultura della diocesi di Torino e, su mandato ricevuto dal suo arcivescovo, si occupa anche delle attività̀ pastorali per le persone LGBT e i loro familiari.