I gesti moderni di un papa antico
Articolo del 1° marzo 2013 di Raniero La Valle pubblicato su l’Unità
Il Papa che ieri sera se ne è andato modernamente in elicottero, secondo il medievalista Jacques Le Goff, ha compiuto con le sue dimissioni un gesto di rifiuto della modernità.
Abdicando egli se ne è ritirato, quasi a dire che la Chiesa non è compatibile con la modernità se non al prezzo di snaturarsi, o che in ogni caso egli non aveva più le forze come papa di reggere la sfida di un’età moderna da lui globalmente inscritta nel girone del relativismo.
Se questo era il suo giudizio, se questo era il problema che egli voleva lasciare aperto alla Chiesa, giustamente se ne è andato: perché un papa deve essere contemporaneo alla sua Chiesa, non può essere amoderno o premoderno.
Un papa del terzo millennio non può prendere in mano una Chiesa a cui consideri avversi i “segni del tempo”, e guidarla come se il Concilio non ci fosse stato, o peggio come se esso avesse devastato la Chiesa attraverso la manipolazione dei media, come ha sostenuto nell’ultimo suo discorso al clero romano.
Il disagio del Prefetto Ratzinger prima, e del Papa Benedetto poi, rispetto al Concilio Vaticano II, la contraddizione irrisolta che forse lo ha portato all’abbandono, si sono giocati proprio sul rapporto del Concilio con la modernità.
Il Papa ha riconosciuto nel suo primo discorso alla curia del Natale 2005, che su quel punto nel Vaticano II si era prodotta una vera discontinuità; ma questo riconoscimento entrava in conflitto con lo schema dell’interpretazione del Concilio sotto il segno della continuità, contro l’ermeneutica della discontinuità e della rottura, che in quello stesso discorso Benedetto XVI prescriveva come unico canone di interpretazione ammissibile.
Come egli stesso sottolineava il cambiamento operato dal Vaticano II nel rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, aveva investito tre ordini di problemi: riguardo alla scienza moderna (mai più contro Galileo), riguardo allo Stato moderno (mai più pretenderlo come confessionale), riguardo al rapporto con le altre religioni (mai più negare la libertà di religione, mai più considerare le altre religioni come maledette da Dio).
Il Papa non era però per nulla persuaso di come il Concilio aveva affrontato tale questione, e in un inedito pubblicato dall’Osservatore Romano l’11 ottobre scorso, annotava che “per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna.
Questo non è riuscito nello Schema XIII. Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del mondo e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale”.
Di fatto il Papa non ha retto alla prova di queste tre modernità con cui si era riconciliata la Chiesa del Vaticano II. Alla scienza ha riproposto un limite, quello della verità non sperimentalmente accertabile, di cui resta depositaria la Chiesa. Allo Stato moderno ha rimproverato che le Costituzioni e le maggioranze non gli forniscono moralità, e nei dialoghi con Habermas e nei discorsi alla cultura laica ha fatto propria la tesi del costituzionalista tedesco Böckenförde, secondo cui “lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da solo, non può garantire”.
Riguardo al rapporto con le religioni ha detto al clero di Roma che un credente non può considerare le altre religioni “come una variante di un unico tema”, e quando ha riunito i rappresentanti di tutte le fedi ad Assisi, li ha accolti come interlocutori sul piano culturale ed etico, ma ha voluto che ognuno da solo nella sua stanza invocasse il suo Dio.
E tuttavia il Papa ha posto un problema reale: perché è chiaro che attraversiamo una crisi di civiltà, che tutte le vecchie certezze sono cadute e che secolarizzazione e globalizzazione sembrano consegnarci un mondo di iene. Ma è proprio a questo mondo che bisogna annunciare il Vangelo, e il problema della Chiesa è che non può scegliersi il suo tempo, né l’età che le sarebbe più congeniale.
È un peccato che papa Benedetto abbia vissuto una Chiesa e un mondo che abitavano in tempi diversi, perché nel contempo egli ha posto gesti potentemente moderni. Il primo è stato proprio quello di un papa che può tranquillamente dimettersi.
Ma altri ne ha compiuti, e proprio nell’ordine della fede, come quando ha firmato il documento teologico romano in cui si faceva cadere la pia favola del Limbo e si ammetteva che i bambini morti senza battesimo fossero accolti in paradiso, perché Dio ha vedute più larghe delle dottrine che sostenevano che senza l’acqua del sacramento nessuno potesse accedere alla vita divina e che fuori della Chiesa visibile non c’è salvezza.
Un altro potente gesto di demitizzazione papa Benedetto lo ha posto quando ha riletto la storia del peccato di Adamo nella Genesi come un racconto simbolico derivante dai miti della cultura sumera, dove il serpente è una figura che deriva dai culti orientali della fecondità da cui era tentato Israele, e quando ha detto che San Paolo, rivisitando quei testi, non avrebbe neanche parlato del peccato di Adamo se non fosse stato per mettere in luce la sovrabbondanza della grazia liberatrice di Cristo.
E così, letti i racconti della creazione non come una specie di storia delle origini, ma come un messaggio religioso da comprendere in termini simbolici e cristologici, veniva confermata la realtà e il contagio del peccato, fin dall’inizio riscattati dalla grazia divina (e “peccato originale” era messo tra virgolette), ma anche si toglieva dalle spalle dell’uomo di oggi il fardello di un destino per il quale anche la morte sarebbe per colpa sua, il lavoro sarebbe una pena da scontare con sudore, la terra coltivata dovrebbe restituire cardi e spine, i parti sarebbero puniti col dolore e la sessualità sarebbe sotto la schiavitù della concupiscenza.
La vera modernità veniva perciò a coincidere con una legge non della condanna ma dell’amore, l’uomo era rimesso sui suoi piedi e le antropologie pessimistiche e sacrificali su cui l’Occidente aveva costruito tutte le sue istituzioni a cominciare dallo Stato, potevano essere rovesciate.
Un altro atto modernamente promettente il Papa ha compiuto quando, pur se spinto da intenti di restaurazione, ha richiamato in vita e reso facoltativo nella Chiesa il vecchio messale romano accantonato e anche trasceso dal Concilio; infatti così facendo il Papa ha rotto l’assioma secondo cui c’è un solo modo di credere e un solo modo di pregare, ha legittimato la pluralità delle liturgie e dei riti, e ha fatto intravedere da lontano una Chiesa unita non nell’uniformità, ma nella varietà delle culture, dei mondi vitali e delle tradizioni etiche.
Quello che il Papa lascia al suo successore è dunque una crisi: perché è difficile attraversare questo passaggio. Il suo merito è di non averla nascosta nel trionfalismo di un Papa con le piazze piene e le chiese vuote. La Chiesa deve trovare la sua strada per poter ricominciare ad annunciare Dio e il suo vangelo nel nuovo ateismo della modernità.