Curare l’omosessualità. La parola ad un omosessuale credente
Una Riflessione di Gianni Geraci, Presidente del Gruppo del Guado
In un articolo scritto per Liberazione lo scorso 27 dicembre 2005, Aurelio Mancuso (n.d.r. quando era presidente di arcigay nazionale) osservava che: «I tanti gay credenti, sacerdoti e non, con cui ho relazione tramite email, sms, incontri più o meno catacombali, sono un buon polso della situazione. Su quello che è avvenuto in questi giorni, è calato un eloquente silenzio».
Il giorno dopo, in una dichiarazione che aveva l’obiettivo di chiarire il tipo di attività che svolge con le persone omosessuali, il professor Tonino Cantelmi (lo psichiatra che Liberazione ha indicato come referente italiano per quanti “curano” le persone omosessuali) ha parlato di un lavoro il cui obiettivo principale è quello di rispettare «i valori degli omosessuali credenti».
«Forse – mi sono detto – è il caso che qualche omosessuale credente dica finalmente qualche cosa». Ma ero molto impegnato con il lavoro e ho sperato che qualcun altro intervenisse. A distanza di una settimana, visto che nessun altro l’ha fatto, ho deciso di scrivere quello che penso delle terapie riparative dell’orientamento sessuale.
Come tanti omosessuali cattolici della mia età certi approcci terapeutici li conosco bene, perché una ventina di anni fa avevo chiesto a uno psicoterapeuta di “farmi diventare eterosessuale”. Quando la senatrice Binetti sostiene che un tempo le persone omosessuali venivano quasi sempre curate, non fa altro che raccontare quello che succedeva a tante persone come me. Purtroppo non parla dei tantissimi fallimenti di queste cure e delle conseguenze che questi fallimenti avevano nella vita di coloro che si erano illusi di “guarire” dall’omosessualità.
Nel mio caso, dopo un anno di trattamenti, mi sono ritrovato con un lavoro che non mi piaceva (avevo infatti troncato i sogni di carriera accademica che una modesta borsa di studio da ricercatore aveva alimentato e ho cercato in fretta e furia un impiego che mi permettesse di pagare la terapia) e con una lieve depressione che mi teneva sveglio per ore durante la notte.
Ho però conosciuto persone a cui le cose sono andate decisamente peggio: qualcuno è ancora in una clinica psichiatrica, qualcuno si è addirittura suicidato, dopo aver constatato che tre anni di sforzi per diventare ‘normale’ si erano rivelati inutili.
Gli stessi sostenitori della validità delle terapie riparative parlano di guarigione solo per un terzo degli omosessuali trattati, anche se spendono fiumi di parole per raccontare le storie di successo della loro attività terapeutica. A costoro occorre chiedere se si sono mai chiesti che fine hanno fatto i tanti omosessuali che hanno abbandonato la terapia: posso dire, per averne aiutati alcuni, che la maggior parte di costoro ne esce a pezzi e spesso maledice il giorno in cui aveva deciso di chiedere di guarire dall’omosessualità.
Forse un buon medico dovrebbe spingere i suoi pazienti a non intraprendere cure che rischiano di comprometterne l’equilibrio, soprattutto quando l’incidenza dei fallimento di aggira intorno al 70% dei casi trattati.
Non è stata quindi la lobby gay, come sostiene la senatrice Binetti, a togliere l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. E’ stato il buon senso di centinaia di professionisti seri che, dopo aver visto le conseguenze nefaste di certe pratiche terapeutiche, hanno deciso che, forse, era il caso di utilizzare un approccio diverso: se un omosessuale va da uno psicoterapeuta, l’obiettivo che quest’ultimo gli deve indicare, non è tanto quello di “guarire” dall’omosessualità, quanto quello di imparare a vivere bene quella stessa omosessualità che una volta veniva curata.
Sarebbe poi interessante monitorare, nel corso degli anni, quella minoranza che, a un certo punto, afferma di essere “guarita” dall’omosessualità. Nei nostri gruppi capita di incontrare persone che, dopo anni di lotta contro le loro inclinazioni, alla fine si riconoscono sconfitti e raccontano, con amarezza, di «aver buttato via i vent’anni più belli della vita!».
Negli Stati Uniti, dove, grazie ai soldi di alcune sette evangelicali (chiese carismatiche che non si riconoscono nel protestantesimo storico), le terapie riparative dell’orientamento sessuale hanno una diffusione molto maggiore che in Italia, gli “ex-ex-gay” sono ormai la maggioranza di coloro che, dopo essersi sottoposti a un trattamento, hanno affermato di non essere guariti dall’omosessualità.
Alcuni percorsi sono addirittura grotteschi, come dimostra la storia Michel Bussee, fondatore di Exodus International (forse la più importante associazione di ex-gay degli Stati Uniti) che si è innamorato di un altro dirigente della stessa associazione e ha deciso, dopo anni di conferenze, in cui aveva raccontato a migliaia di persone di essere diventato eterosessuale, di “riabbracciare” l’omosessualità.
Personalmente posso dire di aver conosciuto più di una persona che, dopo avermi detto di essere definitivamente “guarita”, ha poi avuto dei comportamenti che non lasciavano equivoci sulle loro preferenze omosessuali.
D’altra parte lo stesso Joseph Nicolosi (lo psicoterapeuta americano che sostiene di aver “guarito” cinquecento persone dall’omosessualità) afferma che la guarigione dall’omosessualità non coincide con la fine delle pulsioni omoerotiche, ma con l’approdo a una vita in cui queste stesse pulsioni vengono represse, isolando gli eventuali episodi di omosessualità in cui si può sempre ricadere.
Di fronte a un’affermazione di questo genere sarebbe il caso di chiedersi con che coraggio si esortano le persone che “guariscono” dall’omosessualità a sposarsi, calpestando il diritto, che una moglie ha, di sperimentare, nel compagno, quella passione che ciascuno di noi desidera vedere nel partner. L’obiettivo ricondurre la persona omosessuale dentro gli schemi di una normale eterosessualità è talmente impellente che non ci si cura delle sofferenze che questa scelta comporta nell’omosessuale stesso e, ancora di più, nella donna che ha avuto la sfortuna di sposarlo.
Dare un supporto pseudo-scientifico a certi espedienti a cui si ricorreva in un lontano passato per risolvere il “problema” dell’omosessualità, significa essere dei veri e propri incoscienti.
Alla luce delle osservazioni che ho appena fatto credo di poter concludere che, agli omosessuali che chiedono di essere “curati” (come del resto ho fatto io tanti anni fa), un medico onesto deve rispondere che l’omosessualità non è una malattia da curare, perché l’eventuale cura comporta rischi molto maggiori dell’omosessualità stessa. La strada che un omosessuale credente è chiamato a percorrere, per non rinunciare ai suoi valori, non passa attraverso la negazione dell’omosessualità, ma si gioca nella capacità che abbiamo, di mettere l’omosessualità stessa in relazione con gli altri aspetti della nostra vita.
Ci si accorgerà allora che la vera risposta alla promiscuità che certi autori identificano con lo “stile di vita gay”, non è la cura dell’orientamento omosessuale, bensì il progetto di vivere quello stesso orientamento in maniera responsabile, facendosi carico, non tanto del proprio benessere, ma del benessere delle persone che il Signore fa incontrare.