Il filo invisibile. La storia di una famiglia arcobaleno
Dialogo di Katya Parente col regista Marco Simon Puccioni
Leone deve fare un progetto per la scuola e ne approfitta per parlare dei suoi due papà: questo l’inizio dell’ultimo film di Marco Simon Puccioni, “Il filo invisibile“, nostro ospite di oggi. Regista di forte impatto emotivo – “Quello che cerchi”, “Il colore delle parole” e “Riparo” – questa volta ci regala una commedia, non meno potente nei temi ma lieve nel suo modo di approcciarsi al proprio pubblico.
Hai voluto affrontare l’omogenitorialità con leggerezza e ironia. Perché affrontare in una commedia un argomento così “sensibile” e delicato?
Io e mio marito Giampietro siamo stati tra i primi in Italia a diventare genitori tramite la GPA e probabilmente sono stato il primo regista in Europa a compiere questo percorso. Da subito avevo sentito il bisogno di raccontare la nostra storia in modo corretto e ho concepito un progetto filmico articolato su più documentari che ho intitolato “My journey to meet you”. Nell’ambito di questo progetto ho realizzato il documentario “Prima di Tutto” nel 2012 e poi “Tuttinsieme” nel 2020. Avevo quindi già raccontato l’omogenitorialità con due documentari incentrati sulla nostra esperienza, ma sentivo l’esigenza di portare il tema al grande pubblico in una forma che fosse più abbordabile.
E’ nato così “Il filo invisibile” un film che celandosi dietro i generi “commedie per famiglie” e “coming of age” potesse portare le istanze e le discriminazioni subite dalle famiglie omogenitoriali ad un pubblico più vasto, per innescare un cambiamento nella percezione delle nostre famiglie nella società.
Credo che la scelta di affrontare un tema tanto dibattuto e delicato con i toni della commedia drammatica, senza perdere di serietà, sia stata vincente per dialogare con il pubblico da una piattaforma “generalista” e internazionale come Netflix. La risposta di critica e pubblico me ne hanno dato conferma e molte persone hanno preso consapevolezza del tema per la prima volta.
Si può dire che il tuo sia un film corale?
“Il filo invisibile” è assolutamente un film corale, nel senso che attribuisce ai tre protagonisti la stessa importanza, anche se è al figlio Leone che viene attribuito il privilegio di aprire e chiudere il film. In questo film il protagonista è la famiglia nel suo complesso con tutte le derivazioni che ne conseguono: la vita di coppia, la genitorialità, la crescita, la scoperta dell’amore e del sesso.
Il lavoro di casting, per il quale ringrazio Laura Muccino, è stato fondamentale per trovare tre attori che potessero dare vita a questa famiglia, per me è stato un piacere poter ritrovare due grandi attori con cui avevo lavorato in “Come il vento”, Filippo Timi e Francesco Scianna, ma anche incontrare il giovane Francesco Gheghi il cui talento in fioritura ha trovato in Leone un personaggio ideale in cui esprimere al meglio le sue capacità e a cui ha saputo dare vitalità e dignità.
Il gioco tra questo trio e tutti gli altri personaggi interpretati da attori straordinari ha ampliato le molteplici sfaccettature del discorso: la madre in crisi e omofoba, il bullo che deve fare i conti con la sua omosessualità, la ragazza generosa e aperta a tutte le declinazioni della sessualità, l’amico sballato ma sincero, l’amante che distrugge e salva.
Tutti i film sono opere corali, nel senso che sono frutto della collaborazione tra tecnici e artisti, e si deve anche a questo se la coralità dei personaggi di contorno ha collocato la coralità della famiglia nella realtà.
Ringrazio i tecnici e gli attori che tramite un processo misterioso ci hanno permesso di dare vita ai personaggi immaginati da me e Luca Debei (co sceneggiatore) e di uscirne tutti un po’ più consapevoli.
Perché hai scelto di raccontare la storia di questa famiglia arcobaleno? Qual è stata la tua ispirazione?
Credo di aver già risposto a questa domanda. La mia esperienza diretta mi ha spinto a raccontare prima la mia famiglia arcobaleno con due documentari e poi con un film di finzione. Quando si diventa genitori il primo istinto è proteggere la prole, e anche se esporsi in prima persona può sembrare paradossale (qualcuno penserebbe che proteggere significhi nascondersi) nel nostro caso rendersi visibili obbliga la società a prendere atto della nostra esistenza e la pone di fronte al bivio se includerci o emarginarci.
In questo senso proteggere la prole significa anche ristabilire la verità delle nostre famiglie contrastando una narrazione odiosa che le vuole condannare basandosi sull’omofobia o sul modo in cui i figli sono venuti al mondo.
A proposito di famiglia arcobaleno, il film non si focalizza solo su Leone, ma parla anche della vita di coppia dei suoi due padri…
E’ vero e questo riflette il mio interesse a raccontare tanto la condizione del figlio quanto quella dei genitori. La vita di coppia è quella che vivo e che conosco meglio. Ho voluto raccontare da una parte la loro determinazione a combattere per i propri diritti, ma anche la difficoltà di stare insieme dopo tanti anni. I figli per le coppie sono delle rivoluzioni, soprattutto quando arrivano desiderati e ci si vuole assumere tutte le responsabilità che essere genitori comporta.
I figli assorbono moltissima energia, quindi moltissimo amore e diventano prioritari rispetto alla vita di coppia e questo può essere distruttivo per la relazione. Il tradimento arriva come conseguenza. Molti spettatori hanno protestato perché ho messo il traditore e il tradito sullo stesso piano rispetto al fallimento della vita di coppia, ma credo che così come l’amore si costruisce insieme, parimenti lo si distrugge insieme.
Il film vuole anche mostrare che nell’amore, come nel fallimento, le coppie gay non sono né meglio né peggio delle coppie etero. Sono diversi solo nell’assenza di leggi che proteggano queste famiglie quando falliscono soprattutto quando hanno dei figli.
Credo che senza due attori straordinari come Filippo Timi e Francesco Scianna non sarei riuscito a rendere al meglio le figure dei due padri, loro hanno saputo lavorare intorno ai loro personaggi e alla dinamica di coppia e in modo magistrale hanno retto quella che era la sfida più grande del film: cavalcare l’equilibrio precario tra dramma e commedia che caratterizza il film.
Ti hanno definito “il regista delle minoranze dei diritti civili”. Ti ci ritrovi?
Non mi piacciono le etichette perché definendoti ti limitano e ti confinano in una gabbia. È vero però che mi sono sempre interessato a quello che succede ai margini. Le zone di confine mi sembrano più dinamiche, più vive proprio perché precarie, instabili, ignorate dal flusso principale della società.
Questa marginalità di solito riguarda delle minoranze discriminate che hanno bisogno di una voce che si levi per denunciare l’esclusione e reclamare diritti. La marginalità può essere dovuta alla povertà, alle migrazioni, alle difformità dei corpi, delle sessualità, dei generi o altro ancora. Però oltre ai temi sociali, mi interessano le relazioni che rimandano all’amore e alla spiritualità dell’essere umano, che è ciò che al tempo stesso più ci distingue e ci collega alla natura.
Il mio modo di intendere l’arte ha sempre una dimensione politica, sociale e spirituale e l’artista ne può essere più o meno consapevole, ma quella dimensione c’è sempre. Io di solito scelgo soggetti in cui questa dimensione è ben presente e ci lavoro. Mi tengo però ad adeguata distanza tanto dal puro intrattenimento dei film di genere, quanto dalla propaganda per un’ideologia o posizione politica.
L’arte deve restare libera di scandagliare in tutte le direzioni la complessità degli esseri umani e delle questioni che li riguardano. L’arte è anche artificio, narrazione, meraviglia e non lo si deve dimenticare anche quando, anzi soprattutto quando, si affrontano importanti questioni sociali. In questo senso il fenomeno Barbie è stato un segnale molto interessante e sorprendente.
L’arte al servizio dello sviluppo e della promozione sociale, l’arte per immedesimarci nell’altro e capirlo. L’arte che tocca il presente e lo rivoluziona, per traghettarci in un mondo migliore. Ringraziamo il nostro ospite Marco Simon Puccioni, sperando che “Il filo invisibile” riesca a divertire e al contempo far riflettere gli spettatori sulla realtà della comunità e delle famiglie LGBT.