Verso il sinodo. I “dubia” che aiutano a crescere
Riflessioni di Massimo Battaglio
Sentivamo tutti un bisogno irrefrenabile: quello di leggere un pacchetto di “dubia” posti da un mazzolino di cardianali a pochi giorni dall’apertura del Sinodo, anzi, del Sinodo Generale della Chiesa Cattolica, di più, del Sinodo sulla Sinodalità.
E desideravamo con tutto il cuore che, in questo pacchetto, comparissero una frecciata contro l’omosessualità e un’altra contro il sacerdozio femminile, che sembrano gli unici temi sui quali certa Chiesa ha ancora qualcosa da dire, anzi, da ridire.
Sì perché i grandi problemi del mondo, secondo gli estensori del documento, non sono mica quelli della guerra o del cambiamento climatico (su cui papa Francesco ha appena pubblicato una esortazione apostolica importante, studiata, seria). Il problema sono i gay e le donne.
E, se non vogliamo buttarla in politica, il grande avversario della Chiesa di oggi non è mica l’ateismo. Non è il fatto che un’intera generazione, l’ultima, sta crescendo senza nemmeno porsi la domanda se Dio esista. L’urgenza degli autori dei “dubia” – come del resto quella di tanti uomini di Chiesa – sono appunto i gay e le donne prete.
Fatti fuori loro – pensano i dubbiosi – cesserà ogni conflitto, rinverdiranno i pascoli, i giovani riempiranno le chiese e riscopriranno il canto gregoriano.
Prima di esaminare le questioni poste al Papa e il contenuto delle sue risposte, è necessaria però qualche considerazione. In particolare, è bene chiarire che cos’è un “dubium” in generale e chi sono gli autori dei “dubia” in questione.
Che cos’è un “dubium”
L’istituto del “dubium” nasce per consentire, a qualunque cristiano, di esprimere una perplessità sull’interpretazione di un documento magisteriale. Si chiede solitamente come applicare un’enciclica, una costituzione apostolica, un canone.
Va da sé che vengano quindi posti per affrontare questioni urgenti. E’ altrettanto evidente che gli autori della maggior parte dei “dubia” che arrivano sulle scrivanie della Congregazione per la Dottrina della Fede sono posti dai responsabili dell’applicazione del magistero, cioè i pastori e, in particolare, i vescovi.
Di fatto, gran parte dei “dubia” che vengono formulati ha un carattere provocatorio. Un po’ come capita nei Parlamenti o nei Consigli Comunali, dove le “interrogazioni” arrivano solitamente dai banchi dell’opposizione. Il loro scopo è di mettere in difficoltà l’interlocutore. Il risultato è di aprire un dibattito, talvolta anche costruttivo.
Di norma, l’estensore di un “dubium” deve fare in modo che la risposta possa essere semplicemente un “sì” o un “no”. Di fatto, le risposte sintetiche sono spesso accompagnate da qualche spiegazione ma, a rigore, esse non sono necessarie.
Non è neppure necessario che i “dubia” ricevano una risposta, né tantomeno che li si pubblichi o che le risposte stesse siano rese note. Quando il Papa acconsente alla pubblicazione – cosa che capita raramente – c’è sempre qualcosa sotto. Per esempio, egli può ritenere che le questioni poste siano importanti, oppure che il silenzio potrebbe dare adito a polemiche.
Talvolta succede che siano gli autori stessi dei “dubia” a pubblicarli in anteprima. E’ capitato ai tempi di “Amoris Laetitia”. Ed è evidente che, in questi casi, l’intento principale dei “dubbiosi” è quello di ottenere visibilità.
Gli autori dei “dubia”
I cinque “dubia” ultimamente presentati portano la firma di altrettanti cardinali: Walter Brandmüller e Raymond Leo Burke in qualità di presentatori, appoggiati da Juan Sandoval Íñiguez, Robert Sarah e Joseph Zen Ze-kiun. Alcuni sono nomi finora sconosciuti. Altri, Burke, Brandmüller e Sarah, sono ben noti.
Il primo, Burke, insieme a Brandmüller, non è nuovo a operazioni del genere. Entrambi furono firmatari degli altri “dubia” famosi, quelli, già citati, riguardanti “Amoris Laetitia”. All’epoca, erano accompagnati da un manipolo di reazionari dichiarati come il cardinale di Bologna Caffarra (buon’anima), e il tedesco Joachim Meisner, vescovo in aperto dissenso con le propria conferenza episcopale.
Burke è quel porporato che ama celebrare pontificali “vetur ordo” ovunque si trovi, facendosi scortare da figuranti in cappa e spada e portando addosso una dozzina di metri di cappamagna.
Ne parlò diffusamente Fredric Martel nel suo “Sodoma”, il libro-inchiesta sull’omosessualità nel clero. Prima ancora, se ne interessò Sigfrido Ranucci, nella puntata di Report del 20 aprile 2020, nella quale si documentava l’esistenza di un complotto mondiale guidato dalla destra americana e dagli oligarchi russi finalizzato all’instaurazione di un regime globale fondato sul fondamentalismo religioso cristiano.
Durante la pandemia, Burke sostenne a lungo l’immoralità dei vaccini poiché, a detta sua, sarebbero prodotti attraverso feti abortiti. Esprimeva perplessità anche sul fatto che, insieme ai vaccini, i medici stessero iniettando “una sorta di microchip posto sotto la pelle“, in modo che il paziente “possa in qualsiasi momento essere controllato dallo Stato in merito alla salute e ad altre questioni che possiamo solo immaginare”. Poi si ammalò di COVID e probabilmente fu l’unica volta nella vita che cambiò opinione.
C’è da domandarsi a che titolo, un eminentissimo del genere, si permetta anche solo di dialogare con il Papa. Soprattutto in tema di omosessualità.
Quanto al cardinal Sarah, di lui si ricorda in particolare la vicenda del libro di Benedetto XVI contro papa Francesco, che in realtà era stato architettato e scritto quasi per intero da Sarah stesso.
Fu un tale “scandalo culturale” oltre che diplomatico, che Ratzinger ritirò la firma e fermò la pubblicazione. Sarah fu per anni prefetto della Congregazione per il Culto nonostante sia un fermo sostenitore del ritorno alla messa tridentina. A più riprese ha affermato che bisogna tornare al “vetus ordo” perché i primi cristiani celebravano in latino e tutti rivolti nella stessa direzione. Ci si domanda quali siano le sue competenze in fatto storico, archeologico e artistico. In compenso, è piuttosto evidente la sua sete di apparire.
Degli altri firmatari dei “dubia”, poco si sa. Di Juan Sandoval Íñiguez, arcivescovo emerito di Guadalajra, è nota la posizione tenuta in merito all’istituzione del matrimonio same sex in Messico. All’epoca (2010) arrivò ad accusare i giudici della Corte Suprema, di aver accettato denaro per non dichiarare incostituzionale la legge.
Quanto a Joseph Zen Ze-kiun, cardinale cinese, da sempre impegnato nella lotta per la libertà di culto nella sua patria, ha purtroppo accumulato risentimenti nei confronti della Santa Sede per le aperture nei confronti del regime di Xi Jinping, e questo è forse il motivo per cui ha accettato di associarsi agli altri “dubbiosi“, oltre alla sua passione per la messa in latino.
Cosa dicono questi “dubia”
I “dubia” presentati in questi giorni sono cinque. Il primo riguarda la “Divina Rivelazione”. Si chiede in sostanza se la Parola di Dio “debba essere reinterpretata secondo i cambiamenti culturali del nostro tempo e secondo la nuova visione antropologica che questi cambiamenti promuovono“. Basterebbe un “sì” secco ma papa Francesco preferisce argomentare:
La risposta dipende dal significato che attribuite alla parola “reinterpretare”. Se è intesa come “interpretare meglio”, l’espressione è valida. In questo senso, il Concilio Vaticano II affermò che è necessario che, con il lavoro degli esegeti – e aggiungo, dei teologi – “maturi il giudizio della Chiesa” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 12).
Il secondo dei “dubia” è quello che interessa di più le persone LGBT+. Si torna a chiedere in sostanza se sia legittimo benedire le coppie formate da persone dello stesso sesso. E’ esposto in forma piuttosto secca, evitando la tiritera dei versetti che condannerebbero l’omosessualità e dei santi che ne parlarono come di frutto del demonio. Si premette solo che “l’Apostolo Paolo insegna che negare la differenza sessuale è la conseguenza della negazione del Creatore” (sic). La risposta del Papa è invece piuttosto articolata. La riportiamo:
a) La Chiesa ha una concezione molto chiara del matrimonio. E’ un’unione esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperta a generare figli. Solo a questa unione si può chiamare “matrimonio”. Altre forme di unione lo realizzano solo “in modo parziale e analogico” (Amoris laetitia 292), per cui non possono essere chiamate strettamente “matrimonio”.
b) Non è solo una questione di nomi, ma la realtà che chiamiamo matrimonio ha una costituzione essenziale unica che richiede un nome esclusivo, non applicabile ad altre realtà. Senza dubbio è molto di più di un mero “ideale”.
c) Per questa ragione, la Chiesa evita qualsiasi tipo di rito o sacramentale che possa contraddire questa convinzione e far intendere che si riconosca come matrimonio qualcosa che non lo è.
d) Tuttavia, nel rapporto con le persone, non si deve perdere la carità pastorale, che deve permeare tutte le nostre decisioni e atteggiamenti. La difesa della verità oggettiva non è l’unica espressione di questa carità, che è anche fatta di gentilezza, pazienza, comprensione, tenerezza e incoraggiamento. Pertanto, non possiamo essere giudici che solo negano, respingono, escludono.
e) Pertanto, la prudenza pastorale deve discernere adeguatamente se ci sono forme di benedizione, richieste da una o più persone, che non trasmettano un concetto errato del matrimonio. Perché quando si chiede una benedizione, si sta esprimendo una richiesta di aiuto a Dio, una supplica per poter vivere meglio, una fiducia in un Padre che può aiutarci a vivere meglio.
f) D’altra parte, sebbene ci siano situazioni che dal punto di vista oggettivo non sono moralmente accettabili, la stessa carità pastorale ci impone di non trattare semplicemente come “peccatori” altre persone la cui colpa o responsabilità può essere attenuata da vari fattori che influenzano l’imputabilità soggettiva (Cfr. san Giovanni Paolo II, Reconciliatio et Paenitentia, 17).
g) Le decisioni che, in determinate circostanze, possono far parte della prudenza pastorale, non devono necessariamente diventare una norma. Cioè, non è opportuno che una Diocesi, una Conferenza Episcopale o qualsiasi altra struttura ecclesiale abiliti costantemente e ufficialmente procedure o riti per ogni tipo di questione, poiché tutto “ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma”, perché questo “darebbe luogo a una casistica insopportabile” (Amoris laetitia 304). Il Diritto Canonico non deve né può coprire tutto, e nemmeno le Conferenze Episcopali con i loro documenti e protocolli variati dovrebbero pretenderlo, poiché la vita della Chiesa scorre attraverso molti canali oltre a quelli normativi.
Mi sa che dovremo ringraziare i cinque cardinali per aver posto questi “dubia”. La risposta del Papa non lascia infatti posto a equivoci. Se infatti egli afferma che le unioni tra persone dello stesso sesso “non possono essere chiamate strettamente matrimonio“, ammette che possono esserlo “per analogia“. In precedenza, non si diceva “strettamente” ma “in nessun caso“. C’è una grossa differenza.
Nei punti successivi, si chiarisce che, comunque e in ogni caso, quando si parla di pastorale, la carità viene prima della norma e la persona prima dei codici. E si conclude che, in casi come questi, una norma specifica generale (che oggi non c’è) finirebbe per essere nociva: “la vita della Chiesa scorre attraverso molti canali oltre a quelli normativi“. E’ una frase dal senso molto ampio, che dovrebbe guidare tutto il Sinodo, e soprattutto i suoi esponenti più assetati di norme. Dovrebbe valere per in ogni materia; non solo quando si parla di omosessualità.
I “dubia” proseguono con la questione del sacerdozio femminile e su quella del perdono, precedute però da un punto che è in realtà quello centrale: quello sulla sinodalità. Si chiede, in sintesi, se il Sinodo debba essere considerato come un organo normativo della Chiesa. In sostanza, si preannuncia che coloro che non sono stati invitati – e tra questi i cinque interroganti – continueranno a comportarsi come meglio credono.
Questa è in realtà la questione dirimente. Questione che, unita alle asserzioni formulate da Burke nelle stesse ore in cui il Sinodo si stava aprendo, hanno il sapore di una vera e propria dichiarazione di guerra. Il porporatissimo ha infatti organizzato un convegno che potrebbe essere letto come un autentico “contro-sinodo”, intitolato “La Babele sinodale”. In apertura, ha tenuto un discorso sul tema “La sinodalità contro la vera identità della Chiesa quale comunione gerarchica”, durante il quale ha dichiarato quanto segue:
“Il Sinodo che apre oggi cela un’agenda più politica che ecclesiale e divina. La volontà di modificare la costituzione gerarchica della Chiesa è chiara, con un conseguente indebolimento dell’insegnamento in materia morale. Lo stesso processo usato in Germania”.
Burke ha sete di scisma. E sta provocando affinché sia il Vaticano a fare il primo passo in quella direzione. Sogna di diventare un nuovo Lefebvre, che, scomunicato, si creò una propria Chiesetta più cattolica di tutti i cattolici, sostenendo che essa fosse l’unica vera depositaria della fede.
Sogna, appunto. Non fa i conti col fatto che uno scisma costa caro, dannatamente caro, e ha bisogno di appoggi politici che oggi non sono disponibili.
Quali siano le reali ragioni di questi sogni, possiamo solo immaginarlo. Ma sarebbe interessante indagare.